Dottor Jekyll e Mister Hyde è il paragone metaforico che d’istinto verrebbe messo sul piatto. Forse però è meglio chiamare in causa Giano, il dio bifronte, perché il dualismo buono/cattivo incarnato dal personaggio uscito dalla penna di Stevenson sarebbe ingiustamente tranchant, mentre il mutamento, protetto dalla divinità romana, è una chiave di lettura decisamente più appropriata. Trastevere è un’entità fluida, che nelle 24 ore di cui è composta una giornata cambia. Di giorno, quando è il paese nella città in cui tutti vorrebbero abitare, di sera, quando il „paese“ si riversa in piazza per una festa patronale lunga 365 giorni all’anno e attira non solo i forestieri degli altri quartieri, ma anche quelli delle altre nazioni. Nella sua parte sinistra, guardando il Tevere, conosciuta, battuta e turisticamente gentrificata; e in quella destra, incredibilmente silente e solitaria se si pensa alla posizione che ricopre nella mappa della città. Nessuna porzione è quella giusta, nessuna è quella sbagliata. Un’entità unica, che mutua sempre nel suo essere identica. Che ti consola con l’antico del Gianicolo, di Villa Farnesina o delle sue chiese ricche di mosaici e glorie dell’arte classica, che ti rassicura con l’incrollabilità delle sua cartoline viventi, come i supplì di San Francesco a Ripa, i tavolini ricolmi di Peroni del San Calisto e le locandine del Sacher. Che però ti sa anche sorprendere e portati un passo più in là, come quando ti ha fatto scoprire che nel mondo la birra è anche artigianale (Ma Che Siete Venuti a Fa‘); che un’altro aperitivo è possibile e che anche a Roma c’è spazio per la mixologia di strada (Freni e Frizioni); che la cucina stellata può essere pop (Glass, Zia, Jacopa); che l‘Isola Tiberina è perfetta per fare skate e che la musica la sa accogliere (Alcazar) e la sa fare, barcollando su una scalinata (Lovegang).