Quando per la prima volta mi invitarono a cena da Alhambra, devo ammetterlo, mi sono abbandonata alla facile e sicura tentazione di parlare prima del tempo senza cognizione di causa. In parole semplici, o come avrebbero detto dalle mie parti, non avrei “dato una lira” a quella che mi descrivevano come la Gerusalemme del vegetariano e del vegano. Una piccolissima gastronomia che bada all’essenziale, alla sostanza e non alla forma: pochi coperti, pochi fronzoli, tovagliette di carta, e un bancone dove scegliere tra i migliori piatti veggie che abbia mai provato. E sia ben chiaro, amo la ciccia più del mio prossimo ma qui anche i più convinti carnivori dovranno sotterrare l’ascia. Di solito faccio così: mi metto in fila – onnipresente ma scorre abbastanza veloce – saluto i sempre gentili e disponibili ragazzi del Corno d’Africa che gestiscono il posto e mi affretto ad ordinare. Se sono fortuna mi siedo altrimenti porto tutto a casa. Spezzatino di seitan, daicon con sesamo nero, lenticchie, sformati di verdura, lasagna e parmigiana vegana, sapori inconsueti che a tratti ricordano la cucina africana a tratti quella asiatica. Mi pesano tutto e non riesco mai a superare i 14 euro. Una volta a settimana è d’obbligo, due quando mi voglio viziare. Si avete letto bene, mi vizio al vegetariano. In una Milano dove tiranneggiano i vari Natura sì, no, viva, morta, radici tonde e quadrate, Alhambra è il deus ex machina che ci voleva.
Articolo di Martina Di Iorio