Ralph Rugoff ha scelto un titolo che non suona affatto familiare alle nostre orecchie, ma appartiene all’universo delle citazioni classiche del mondo anglosassone. Un classico falso, come la famosa frase che Voltaire non ha mai pronunciato «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo». In questo caso è un proverbio cinese inventato e diffuso dai più autorevoli politici inglesi per decenni a dare il titolo a una Biennale che rigetta i messaggi facili, la propaganda, l’impegno umanitario, e si concentra invece sullo statuto ambiguo della realtà stessa, e sulla capacità che ha l’arte, in quanto maestra dell’artificio, di penetrarla con strumenti più efficaci di quelli della critica classica. C’è molto Latour dietro il pensiero di Rugoff, c’è un desiderio di postcritica, di scardinamento della postura oppositiva, o vittimistica, della critica classica.
Si potrebbe obbiettare che la critica classica è stata talmente sopraffatta dalla propaganda che non c’è bisogno di incrudelire ulteriormente su di lei, ma senz’altro la chiave di Rugoff suona più interessante di altri in quanto elimina ogni appello a emozioni codificate. Tra gli artisti presenti nella sua mostra vedremo Lawrence Abu Hamdan, Kurakrit Arunanondchai e Kahlil Joseph, già presenti alla Biennale de l’Image en Mouvement, Jimmie Durham, Tomàs Saraceno, Apichatpong Weerasethakul, Shilpa Gupta, Teresa Margolles, Andra Ursuta, Lara Favaretto, e, strano a dirsi, la mitica Hito Steyerl che invece ha fatto un uso incendiario della critica diretta alla Serpentine di Londra, denunciando apertamente nel discorso inaugurale della propria mostra che la presenza dei „benefattori“ Sackler sulla facciata dell’edificio era da rimuovere insieme ai finanziamenti. Un gesto ancor più notevole all’indomani delle milionarie donazioni per la ricostruzione di Notre-Dame da parte di lobbisti che impongono la detassazione dei megapatrimoni.
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