Questi mesi di intervallo tra un lockdown e l’altro sono stati inaspettatamente meravigliosi, nonostante le profonde assurdità e ingiustizie che si sono susseguite senza tregua sul nostro territorio. E non solo perché abbiamo potuto passeggiare, ballare, baciarci, farci il bagno e prendere il sole senza essere arrestati, ma perché abbiamo potuto godere di uno scenario culturale al tempo stesso meno commerciale, di migliore qualità e con molti molti meno turisti stranieri. Abbiamo potuto finalmente girare per Venezia e Firenze e Roma senza soffocare su bus e traghetti, senza essere costretti a file interminabili, abbiamo potuto accedere a monumenti e musei di solito murati.
La cultura non deve essere pensata in funzione del turismo, ma di chi vive nei luoghi
Mi ricordo che qualche anno fa giravo intorno ai Fori imperiali con una mia amica romana, grande camminatrice, che giustamente invocava un accesso privilegiato per i cittadini residenti, che ormai non avevano più accesso ai siti archeologici perché le agenzie turistiche riempivano ogni buco temporale possibile. Aveva ragione, è una misura che andrebbe presa, bisogna invertire la scala di priorità: la cultura non deve essere pensata in funzione del turismo, ma di chi vive nei luoghi, città o paeselli che siano.
E non solo: sul fronte degli eventi – mostre, concerti, incontri – abbiamo avuto una stagione bellissima, una specie di dimostrazione del famoso principio enunciato da Mies Van Der Rohe „Less is more“, anzi, una vera e propria rivincita del Moderno sul Postmoderno: Mies-Venturi 1 a 0, non è vero che „Less is a bore“, la noia ci ha attanagliato negli ultimi anni per eccesso di eventi, di week, di mostre commerciali, di incontri tra imbecilli, di insulsi ologrammi, di attività didattiche carissime. Negli ultimi mesi, invece, le gallerie e i musei ci hanno offerto mostre intelligenti con opening lenti e dilazionati – il che ci ha consentito di guardare effettivamente le opere d’arte e non solamente gli amici del popolo dell’arte. Solo a Milano, si sono viste personali bellissime di Paolini (De Carlo), Kentridge (Lia Rumma naturalmente), Nicole Gravier e Nora Turato
(Ordet), Daniel Buren (BergamoGAM), Eileen Quinlan (Vistamare), Alessandro Mendini e Andrea Sala (Schiavo Zoppelli), Jonathan Monk (Loom), Ragnar Kjartansson (Trussardi), Chen Zen (Pirelli Hangar Bicocca), Enzo Mari (Galleria Milano e Triennale), RA di Martino (De Cardenas), Marzia Migliora (MAGA) e molti altri, in un clima sereno e concentrato.
Ora, sento già le critiche di chi ribatte: „oltraggio alla democrazia!“ „la cultura è alto e basso“ „Anche il pop è cultura“ „anche xyz è cultura“ „viva la merda“ „snob del cazzo“ „anche i turisti sono esseri umani“ „anche i pubblicitari devono campare“ (Ma, dico io, devono proprio farlo coi quattro soldi destinati alla cultura?). Sono preparata: se voi mi citate ancora l’errore di Horkheimer e Adorno che si scagliavano contro il cinema e il jazz, io vi posso citare i grandi intellettuali pentiti, o meglio orripilati dall’uso improprio che era stato fatto del loro pensiero.
In primis Susan Sontag, che nella prefazione scritta trent’anni dopo al suo libro cult Contro l’interpretazione del 1964 dichiara di avere sfidato le gerarchie per estendere la comprensione di nuove opere, ma di averle date sempre (le gerarchie) per assodate: «Ero – sono – a favore di una cultura pluralistica, polimorfa. Nessuna gerarchia, allora? Certo che c’è una gerarchia. Se devo scegliere tra Doors e Dostoevskij, allora sceglierò Dostoevskij. Ma davvero devo scegliere? […] Il mondo in cui furono scritti quei saggi non esiste più. Invece che in un momento utopico, viviamo in un tempo che sentito come la fine di ogni ideale. (E di conseguenza della cultura: non c’è possibilità di vera cultura senza altruismo). Non si tratta solo del fatto che gli anni Sessanta sono stati ripudiati , e che lo spirito del dissenso è stato schiacciato proprio mentre quegli anni diventavano oggetto di mera nostalgia. I valori sempre più trionfanti del capitalismo consumistico promuovono – anzi, impongono – le commistioni culturali e l’insolenza e la difesa del piacere che io propugnavo per ragioni del tutto diverse».
Dateci cultura non assoggettata al turismo e libera dal commercio
Siamo tutti turisti, certo, e quindi ha ben poco senso stigmatizzare i turisti: ma possiamo dire che questa incredibile finestra temporale, che ci ha fatto assaggiare l’ebbrezza di camminare in città non morte, ma libere, di allacciare un rapporto intenso con le opere d’arte, di godere di un territorio che normalmente ci è precluso, di riposare la mente dalla compulsiva sequenza di eventi insensati, ci ha viziato. Mariasole Garacci, storica dell’arte e guida turistica, ne è testimone «in questi mesi di riapertura dopo il lockdown, effettivamente, come guida turistica ho portato in visita nei musei di Roma (inclusi i Musei Vaticani) molti romani che non avevano mai visto quei luoghi, e che volevano approfittare del momento di quiete dall’overtourism per farlo» (dall’articolo del 6 novembre 2020 di MicroMega.net).
Abbiamo goduto troppo, ne vogliamo ancora, ne vogliamo di più: dateci cultura non assoggettata al turismo e libera dal commercio. Cultura pubblica, che produca lavoro buono. Riaprite subito i luoghi culturali, musei, teatri, cinema, sale concerti, e poi archivi, biblioteche, sono i più sicuri in assoluto. Ora.
„I’ve tasted blood and I want more“.
(Susan Sarandon nel Rocky Horror)