Di solito andiamo al Bar Basso nel fine settimana. Ci andiamo anche il giovedì, che sembra essere il giorno in cui non si riesce proprio a stare casa. Capita anche di andarci subito dopo pranzo, forse il suo momento migliore. Quando si gira l’angolo, da qualsiasi direzione tu possa arrivare, gli occhi ricevono la loro più grande soddisfazione. La scritta al neon, le vetrine confuse ferme nei decenni, le piante verdi a volte curate, a volte meno, che circondano quello che è senza dubbio il bar dei milanesi e di Milano. Anzi, il Bar Basso è Milano, baluardo di quel bere elegante e radicale allo stesso tempo; icona di stile senza tempo, resistente e rivoluzionario, snob e democratico nella stessa misura.
Troviamo posto sempre con fatica, ma stoici non ce ne andiamo finché quei tavolini di alluminio e quelle tovaglie gialle non si circondano del nostro vociare. I camerieri ormai li chiamiamo per nome, e attendiamo pazienti che Maurizio si liberi per salutarlo. Un po‘ come per porgergli i nostri ossequi, baciargli figurativamente la mano, a lui che continua con francescana devozione a portare avanti il lavoro che suo padre, Mirko Stocchetto, iniziò nel 1967. E fu subito storia.
Ce ne freghiamo del caldo, del freddo, a volte della pioggia fine di ottobre pur di star lì. Stare al Basso ha un valore che va al di là di stare in un qualsiasi bar di Milano. Qui trovi la storia che si è fermata a bere litri di Negroni Sbagliato, il cocktail iconico di un tempo che non c’è più e di sempre. Il Bar Basso ci fa sentire parte di una comunità. „Cosa c’entriamo noi con designer, architetti, artisti, che bevono al bancone?“, ci chiediamo sempre io e miei amici, quando superato il secondo bicchierone iniziamo con serenità a non capire più chi siamo. La risposta, silenziosa e dentro di noi, è sempre la stessa: il Basso è il racconto corale di tutti i personaggi che lo popolano. Per questo ci piace.
Lo è ancora adesso, con le serrande chiuse per l’emergenza che stiamo vivendo, i tavolini ritirati e il neon spento che non smette di ricordare per chi passa in via Plinio la propria identità. Cosa mi manca in questo momento? Mi manca il Bar Basso, o meglio, la libertà di poterci andare. Capirlo non è così facile come sembra. Presuppone uno spirito troppo nostalgico, un senso di perdita che non è mai troppo veramente nostro, continuamente coinvolti in una corsa che distoglie l’attenzione da tutto. Perché perdere qualcosa vuol dire anche avere il tempo di capire cosa si è perso, un lusso che non ci è sempre dato. In questi giorni ci siamo fermati tutti, siamo rientrati nelle nostre case, ci siamo circondati di poche cose: le più preziose per non affogare di noia, le più vitali per andare avanti.
Il Basso è il racconto corale di tutti i personaggi che lo popolano. Per questo ci piace.
Penso che alla fine le cose che mancano di più, in questa situazione surreale, sono solo quelle su cui proiettiamo la nostra vita, quelle a cui attribuiamo i nostri ricordi e i momenti più piacevoli. Capisco solo ora il valore di molti miei gesti e abitudini, automatici e ripetitivi, gesti semplici, che ora rivesto di un’importanza del tutto nuova. Non mi sono mai fatta troppe domande sul valore dell’andare a bere, dello stare insieme davanti a un cocktail. Ora, nella negazione di tante cose capisco come anche sedermi in uno dei mie bar preferiti, sia qualcosa di un valore inestimabile. Perché personale e intimo. Caro Bar Basso, non vedo l’ora di perdermi di nuovo nei tuoi infiniti particolari.