Il nome di Andrea Polichetti rimbalza da qualche anno negli ambienti dell’arte contemporanea romana: non solo per i suoi lavori, ma anche per il suo dinamismo organizzativo e curatoriale. Un’azione portata avanti sempre in maniera collaborativa, con gruppi di lavoro a geometria variabile dove l’amicizia e l’affinità fanno da collante primo, e un’azione che può essere una fotografia della vitalità artistica che sta attraversando la città in questo particolare momento. Nessuna onda d’urto gigantesca pronta a trasformarsi in sistema – con tutti i pro e i contro del caso – quanto piuttosto un flusso carsico, spesso fresco e cristallino che riesce a emergere in superfice attraverso piccole sorgenti sparse qua e là in un territorio vastissimo. Ecco allora gli appuntamenti dal barbiere Franco in Corso Vittorio Emanuele, ecco gli ambienti di CityLab lungo Via Salaria trasformarsi nell’indipendente SPAZIOMENSA. Proprio qui Andrea Polichetti presenterà questo settembre una nuova mostra che sarà un dialogo ideale con un artista del passato, Salvatore Meo, dove si incontreranno anche una città che è stata e una che potrebbe essere e speriamo sarà.
Facciamo un bel po' di passi indietro e iniziamo dal momento in cui ti sei interessato all'arte contemporanea. Qual è la storia di questo percorso?
Il primo incontro è avvenuto a scuola, durante il primo o secondo anno di liceo, quando al posto di una lezione canonica il prof. ci spiegò „Fountain“ di Marcel Duchamp, amore a prima vista! Nello stesso periodo vidi Mark Rothko al Palazzo delle Esposizioni: sentii tutta la tensione e la sofferenza emanata da quei dipinti.
I tuoi primi lavori sono stati concomitanti o c'è voluto tempo?
Ci è voluto molto tempo prima di iniziare a produrre. Subito dopo il liceo, nel 2008, ho iniziato a lavorare come allestitore, prima per Monitor e poi per altre gallerie, fondazioni e musei della città. Quando nel 2013 una grande ditta di art handling mi propose di gestire una loro sede a Roma capii che non volevo essere solo un tecnico, quindi rifiutai e iniziai a occuparmi di produzione negli studi d’artista. Ci sono voluti ancora un paio d’anni prima di dare alla luce il mio primo lavoro nel 2015.
In tutto questo Roma che città è stata per te? Una città di spunti e di stimoli o di ostacoli e sfide?
Ho lavorato tanto e rubato con gli occhi. Appreso nonostante le difficoltà.
Dal passato facciamo un salto nel futuro prossimo: a fine settembre inaugurerà una nuova mostra da SPAZIOMENSA, che in realtà sarà una bipersonale che coinvolgerà te e un altro artista, Salvatore Meo. Qual è stato il tuo rapporto con lui e come lo hai tradotto in una mostra?
Ho scoperto il suo lavoro mentre cercavo dei materiali per una produzione e Mary Angela Schroth mi invitò a recuperarli nel magazzino della Fondazione Meo, che tuttora presiede. Uno studio d’artista degli anni 40/50, lasciato nelle condizioni originali secondo il volere dello stesso. Ho riconosciuto subito la forza del suo lavoro. Oltre a essere uno dei primi artisti a lavorare con l’assemblage e a fare parte del Gruppo Origine, era redattore per una rivista americana su cui scriveva della scena romana di cui faceva parte, iniziandone il processo di esportazione negli Stati Uniti. Rispetto il suo lavoro e questo sarà molto chiaro all’interno della mostra.
Che lavori porterai e cosa vedremo?
Sarà una mostra principalmente di sculture: assemblaggi (di Meo) e una mia nuova produzione di opere in ferro battuto e neon, realizzate ad hoc. Ci sarà un dialogo molto serrato tra i miei e i suoi lavori, in cui diversi temi si confronteranno in una installazione ambientale. Si parla della storia recente, collettiva e personale, sempre in bilico tra speranza e fallimento. Verranno presentate anche delle litografie prodotte con il supporto della Litografia Bulla, replicando una sua peculiare tecnica di incisione, si intitolano „Etching Meo“.
Di SPAZIOMENSA sei uno dei fondatori. Qual è la sua storia?
Abbiamo aperto dopo che CityLab ha affidato a Sebastiano Bottaro dei capannoni rimasti liberi a seguito del Covid. Lui ha chiamato me, Alessandro Gianni, Marco Eusepi, Dario Carratta, Gaia Bobò e Giuseppe Armogida. Insieme abbiamo pensato e assemblato una mostra collettiva che potesse essere percepita come uno statement. Pitture di grandi dimensioni, ceramiche, neon e sculture, il tutto dispiegato su 600 mq di spazio espositivo, una cosa abbastanza dirompente considerando che a causa della pandemia tutti i protagonisti del contemporaneo in città erano fermi o quasi. Abbiamo invitato a collaborare con noi Silvio Saccà che ha presentato „ONIRICA“, una fanzine che reinterpreta l’idea di sogno, empatia e sincronicità del reale.
Una delle caratteristiche di SPAZIOMENSA è questa: tante mostre e di breve durata. Immagino sia una scelta voluta, ma per quale motivo?
Abbiamo uno spazio molto grande, cerchiamo di esporre quanti più artisti ci piacciono tenendo alto il tiro.
Cosa c'è nel futuro di SPAZIOMENSA?
Continueremo a percuotere il ritmo che finora ci ha contraddistinto. Dopo la mia mostra sarà il turno di Dario Carratta insieme a Giovanni De Cataldo per l’ultima doppia personale della programmazione. All’interno di entrambe si alterneranno i nostri format: „Magnete“, „Delay“ e „Tuorlo“. Nel nostro project space saranno presenti artisti della scena romana e realtà editoriali. Chiuderemo poi l’anno con una grande mostra collettiva a cura di Gaia Bobò. Se ne vedranno delle belle!
Allarghiamo il discorso di SPAZIOMENSA alla città. A Roma "artist-run space" è passata dall'essere una parola sconosciuta a una "parola d'ordine". Cos'è successo?
Artist-run space è un termine anglofono che racconta esperienze estere. Personalmente preferisco chiamarli spazi indipendenti e/o autogestiti, così da inscriverli (lessicalmente) meglio nella tradizione italiana e romana. Ci vedo più la forza del Uonna Club e la scena punk anni 80 nostrana più che le velleità galleristiche dello Steel House Group di Los Angeles. Sono sincero, è stata una grande sorpresa anche per me e ne sono molto orgoglioso.
Da un certo punto di vista, un'altra bellissima esperienza nella quale sei stato coinvolto in prima persona, "Da Franco senza appuntamento", si trova proprio agli antipodi dell'artist-run space: un gruppo di amici, artisti, curatori che trovano uno spazio espositivo fertile all'interno di un barbiere.
„Da Franco“ è stato un’esperienza forte, realizzata insieme a Niccolò De Napoli, Vasco Forconi e Silvio Saccà. Aveva in comune con SPAZIOMENSA la voglia di muoversi indipendentemente, divertendosi e coinvolgendo persone vicine.
Cosa vi ha detto Franco la prima volta che gli avete proposto di organizzare una mostra da lui?
Franco, da uomo del Sud di vecchio stampo, è apparso abbastanza diffidente all’inizio, pensava che ci sarebbe stato il rischio di sconvolgere la routine della sua clientela, ma attraverso il dialogo e la costruzione di un rapporto sincero si è convinto ed entusiasmato. Poi quando si è sciolto con i suoi racconti ci ha trasportato in una Roma felliniana, dagli incontri con Pasolini agli appartamenti condivisi con i travestiti. Abbiamo raccontato tutto in „Tech Gleba„, fanzine che insieme a „Futoropatia“ ha restituito e riadattato in chiave editoriale quest’esperienza, con i contributi dei fondatori del progetto e i suoi partecipanti. Entrambe sono state curate da Silvio Saccà.
Alla fine Franco si è rivelato anche un discreto mattatore da vernissage.
Diciamo pure che a un certo punto ha superato l’iniziativa stessa in termini di notorietà, diversi fashion designer hanno iniziato a servirsi da lui dopo averlo scoperto grazie alle nostre mostre. Non lo dava mai a vedere, ma era molto aggiornato sulla rassegna stampa online delle varie mostre!
Sempre parlando di antipodi, Franco era in pieno centro, mentre SPAZIOMENSA si trova a un passo dal Raccordo: centro e periferia sono due categorie che hanno senso nell'arte contemporanea romana?
Centro e periferia come categorie hanno perfettamente senso in tutta la produzione culturale romana. Nel caso di SPAZIOMENSA, produzione ed esposizione convergono in periferia, dove siamo riusciti a portare un pubblico di solito più rivolto al centro. Penso che è proprio ai margini della città che Roma trova i suoi luoghi produttivi più interessanti. Pensa a San Lorenzo e Monteverde, considerati attualmente quartieri centrali, ma che ai tempi della Scuola di San Lorenzo o di Frigidaire erano poco più che borgate. Il centro è il centro: bisogna pur vendere!
In generale cosa ne pensi dell'arte contemporanea a Roma?
Roma è in forma. Buone gallerie cittadine iniziano a rappresentare artisti autoctoni. Alcuni si stanno affacciando anche sulla scena internazionale. Il merito va a ognuno di loro, ma una città che splende di iniziative indipendenti aiuta. Spero che i collezionisti investano sempre di più e che le grandi aziende presenti in città si muovano per permetterci una sostenibilità anche al di fuori dal mercato.
Le ultime domande te le faccio sull'Esquilino, dove sappiamo che risiedi da qualche anno. Qual è il tuo rapporto con questo quartiere, cosa ne pensi e come lo vivi?
Sono follemente innamorato di questo rione, ci vivo da cinque anni insieme alla mia compagna Natalie, ma per altre ragioni lo frequento assiduamente almeno da otto. Credo che all’Esquilino si possa ancora trovare quel senso di comunità e di prossimità che insieme definiscono un quartiere, ma al contempo riesce ad accogliere flussi turistici che non ne snaturano l’identità. Insieme e con una certa sintonia ci convivono gruppi sociali e comunità di origini diverse. Mi piacerebbe ci fossero più iniziative a supporto dei gruppi più deboli, come clochard e pazienti psichiatrici, categorie che spesso convergono. Per il resto credo che l’Esquilino stia vivendo un momento di grazia assoluta. Ne sono complici i progetti urbanistici che sono in atto da qualche anno e le conseguenti aperture di locali e luoghi di aggregazione.
Si tratta di un quartiere che ha anche una sua storia e un suo presente legato all'arte contemporanea, con gallerie e spazi di vario tipo. Ti capita di frequentarli?
Non li frequento molto spesso, ma Palazzo Merulana, la Libreria delle occasioni, il cinema indipendente Apollo 11 e S.A.L.E.S di Norberto Ruggeri sono posti che mi piacciono molto e in cui si vedono cose interessanti. Spero che anche altre gallerie internazionali seguano Contemporary Cluster e Frutta nella scelta di aprire da queste parti.
Quali sono i tuoi luoghi preferiti dell'Esquilino?
Piazza Dante: mi piace molto la sua eleganza, ci puoi fare incontri interessanti, ci girano molti artisti e intellettuali. Villa Massimo al Laterano, che con i fregi classici della facciata lascia intravedere un’epoca in cui la zona era composta da sole ville nobiliari. Via Tasso, che vista dall’alto si rivela essere una strada di campagna ed è un ricordo perenne delle atrocità del regime nazifascista. L’arco di Gallieno, che crea un’atmosfera magica e di stratificazione storica. Infine la Porta Magica nel giardino di Piazza Vittorio: un po’ di misticismo non guasta mai.
Cosa ti piacerebbe realizzare all'Esquilino?
Se si presentasse l’occasione di fare una mostra all’Esquilino sarebbe bello, anche trovare uno studio non mi dispiacerebbe affatto.