Abbiamo intervistato Carlo Antonelli, editor assieme ai Francesco Urbano Ragazzi di “FUORI!!!” per NERO, la pubblicazione in stampa anastatica dei primi celebri tredici numeri del FUORI!: il Fronte Unito Omosessuale Rivoluzionario Italiano (!). Parliamo della storica rivista torinese che ha svoltato i movimenti e i collettivi LGBT+ in Italia dagli anni Settanta, e che per la prima volta viene pubblicata in un blocco – non c’è altro modo di pensare lo spessore del libro – fino al numero 13. E con due punti esclamativi in più, a ribadirne una certa urgenza. Quel numero, il tredici, è a suo modo un momento iconico per la rivista: corrisponde alla frattura, paradossalmente più conosciuta, almeno in ambienti anglosassoni, di Mario Mieli con il movimento. Ed è anche il primo numero curato interamente da donne. Era il 1974, e il FUORI! era riuscito non soltanto a riunire attorno a sé un folto gruppo di persone eterogenee – intellettualə, criticə, artistə, operaiə della Fiat, libraiə e via dicendo – ma a coprire le edicole di tutto il paese, ad aprire sedi nelle più grandi città e a federarsi con Marco Pannella e i Radicali. Insomma, parliamo di un momento cruciale della storia dei diritti e anche della rivoluzione sessuale.
«Una richiesta di uscire dalle stanze, dalla norma, di cercare un altro tipo di “fuoranza”.»
Parliamo del desiderio e della volontà di fare, pure con insistenza. Di un uso sfacciato della lingua, di una sfrontatezza inventiva che voleva ribaltare un cattivo buon senso portando alla ribalta la “fuoranza”. Ma dove sono le “fuoranze” oggi? Perché il libro è così grosso da sembrare un tavolino? Perché a leggerlo le urgenze, seppur passati quasi cinquant’anni, sembrano ancora quelle? Perché quella lingua irriverente ci piace più della maggior parte delle cose che leggiamo oggi?
Da dove arriva l’idea della raccolta dei primi mitici 13 numeri del “FUORI!”?
La scintilla nasce da una considerazione personale sull’assenza di una rivista gay mainstream. Sia nel panorama italiano che in quello internazionale. Parliamo di un ambito in declino come molti altri, che è stato sorpassato dai siti di dating e soffre della mancanza di una tradizione, in altre parole di una grande testata classica. C’è Out, in America, una rivista da militante e patinata, c’è’ stata poi la scaciata Babilonia, ma non c’è’ stato più nulla come il FUORI!. Ho incrociato poi la ricerca dei Francesco Urbano Ragazzi alla Fondazione Querini Stampalia. Avevamo un amore reciproco per la rivista, e l’idea iniziale era di farla uscire di nuovo. Idea che in ogni caso rimane, come si dice malamente, on the pipeline. Per cominciare abbiamo visitato la sede del FUORI!, un posto straordinario, con archivi incredibili di tutte le riviste – senza impazzire troppo con i vari termini – LGBT+ e specialmente di quel periodo storico. Un panorama altissimo che va dalla fanza underground alle uscite americane più scintillanti e commerciali. Abbiamo capito lì che qualunque cosa volessimo fare avrebbe richiesto la riattivazione di quelle radici. Nasce così l’idea di cominciare a far conoscere queste pagine leggendarie e praticamente introvabili, se non con complicatissime ricerche su piattaforme come eBay.
Oltre alla mancanza di un riferimento solido per i movimenti LGBT+, qual è stata l’urgenza nel panorama attuale rispetto alla volontà di pubblicare, in stampa anastatica, i numeri originali?
Abbiamo cominciato a capirci veramente qualcosa durante la ricerca, quando abbiamo conosciuto la storia di Enzo Fusco, l’archivista. Una storia molto significativa di una persona che è ancora scossa dalle botte prese in passato e dal tempo trascorso in carcere. Parlando con lui, guardandolo, ci siamo resi conto di come la storia del FUORI! rappresenta soprattutto la storia di un manipolo di persone che davvero ha messo il proprio corpo nella rivendicazione dei propri e degli altrui diritti. Diritti fondamentali per quelli che erano considerati alla stregua di una categoria medica, di “deviati”, “malati” o (termine da sempre fantasmagorico) “invertiti”. Perché il FUORI! nasce dalla definizione diagnostica di un “paziente” e dalla rabbia che è uscita finalmente “fuori”, all’aperto. Nel vedere i risultati di questi schiaffoni, dei calci, dei pugni e della galera, abbiamo realizzato della differenza abissale che separa quella stagione – la nostra Stonewall – dall’attuale situazione di queernorm; un contesto sacrosanto (ci mancherebbe, ma spesso in fondo troppo pacificato) di realizzata acquisizione dei diritti accordati, e forse in qualche caso normativo. E questo non è sufficiente. In primo luogo, di diritti ne mancano ancora molti. Basti pensare all’adozione, o al mobbing che – fuori magari da Milano – nel resto di Italia non è affatto diminuito, e tutto ciò che comporta (vedi la farsa in atto su quello straccio di testo di legge un tempo redatto da Zan). Ma soprattutto, a mancare in questa idea di pacificazione – da un lato benedetta, dall’altra soporifera – è un’idea di trasformazione della società. Di uscita da sé, dai meri diritti individuali.
Insomma, un contenuto esplosivo.
Ed è per questo che il volume è rappresentato da una bomba, una vignetta trovata all’interno del FUORI!. La miccia ci sembrava un cazzo. Una volta magnificata in copertina, non ne siamo più sicuri, ma speriamo di sbagliarci. Perché il contenuto del libro, anzi, dell’oggettone, è un contenuto incendiario. Una richiesta di uscire dalle stanze, dalla norma, di cercare un altro tipo di “fuoranza”. Una “fuoranza” che, per dire una cosa semplice, ha a che vedere con la tracciabilità dei comportamenti da consumatore, e nostri in generale, e quindi con la cessione dei propri dati, da sempre pericolosa. Insomma, manca in questo momento un territorio esterno, un fuori che sia da rivendicare, mancano libertà ulteriori, mancano zone dove stare all’aperto e magari darsi alla macchia.
Qualche tempo fa si diceva che a mancare fosse il desiderio, ma qua mi sembra che parliamo più che altro di nuovi spazi di conflittualità, di nuovi fuori o nuove, come dici tu, in nuove ‘fuoranze’.
Beh, senza entrare in colte citazioni, genericamente francesi, dalla coltivazione o meno del desiderio nasce una misurazione dello stato vitale dell’individuo, della comunità e della società in genere. In questo senso ‘FUORI! è davvero la storia di un manipolo di cinque o sei torinesi che riesce a generare un movimento reale, un salto in avanti che raggiunge le edicole, apre sedi, si diffonde nelle città… il DNA che sta tra queste pagine è un invito a ottenere ciò che si vuole. E nel farlo, nel pronunciarlo e nell’agire, si coltiva il sogno folle che questa cosa diventi vera. E poi lo diventa davvero. Tra l’altro, questo sarebbe un momento perfetto per parlare di “fuoranze”. Perché alcune delle prospettive intraviste in questi due anni di Covid sembrano essere purtroppo tornato indietro come il rinculo di un elastico, portandoci a una situazione che è quella del 2019 ma con ancora più adrenalina, più slancio. Bene per il PIL e per l’eroticissimo Draghi e forse per noi, ma sembrerebbero essere andati perduti piccoli fatti e movimenti che sono accaduti anche durante la gestazione di questo volume, situazioni che ci avevano fatto pensare che esistevano delle alternative anche collettive a una visione normativa del vivere. E che sono nate in questo periodo, almeno come sogni.
Tipo?
Un primo esempio è la great resignation: un fenomeno per ora più americano di gente che abbandona il proprio lavoro, e basta. Rinuncia a una vita orrenda, e basta. Oppure lo sviluppo di forme comunitarie tra amici – ma non veterohippy, attenzione – che poi non si sono sciolte (gente anche oltre a una certa età) e che hanno fatto vedere modi vivere oltre la gabbia esplicitamente o sottilmente infernale della famiglia classica o anche allargata (specie quella costruirà dai nati/e degli anni Sessanta appunto, egoisti/e e quindi tolleranti su tutto, per non aver rotture di cazzo). E con questo includendo anche (e qua pure se banale la citazione la facciamo, la sensibilità alla Donna Haraway) tutto ciò che non è umano, la kinship – cani e gatti in comune, acquari – questo per spaziare. Da qui nasce per esempio una riconsiderazione delle unioni, la regolazione di eredità per le forme amicali non normate.
Torniamo all’oggetto-libro. La scelta dei 13 numeri corrisponde alla data di rottura del FUORI! con Mieli, che è anche il primo numero curato esclusivamente da donne. È mai stata fatta una raccolta simile? E come mai la scelta di questo formato?
L’unica storia conosciuta all’estero era quella di Mario Mieli, storia che lambisce parecchio il movimento, ma in cui non abbiamo voluto immergerci perché avrebbe aperto ambiti completamente diversi. Questa raccolta contiene del materiale estremamente prezioso e potenzialmente infinito. Nel senso che immergendosi nella lettura si scopre un’immensa eterogeneità di contenuti, dal contributo serio e critico alla vignetta cazzona. Un mix inedito – anche oggi – e anticipatorio disposto in blocco per la prima volta, ed è da qui che arriva l’idea del fuori formato. Di un oggetto per certi aspetti indimenticabile, non foss’altro per il peso. Volevamo che assumesse non l’aspetto sepolcrale dell’antologia “gne-gne”, ma che si proiettasse dentro una categoria alla quale non era invitato proprio, quella dei libri da tavolo. Una folle competizione con Phaidon e Taschen.
E quest’aspetto è importante, perché apre a un ulteriore elemento di contemporaneità. Per i più colti richiama certe lussuosissime raccolte di fanze o magazine underground americane – ma proprio lussuosissime – che sono i veri riferimenti estetici del libro. Per gli altri riprende esplicitamente un’estetica contemporanea, quella del faldone e delle forme dei materiali d’archivio assai cool ultimamente. Per evitare ogni dubbio in merito, abbiamo deciso di non compiere quel passo falso in cui invece tanti cafoni incorrono: entrare nel merito e inzepparlo di saggi più o meno intelligenti o colti sul contenuto. C’è una prefazione nostra di una pagina e mezza e l’intervista al fondatore Angelo Pezzana che era necessaria. La scelta del formato bilingue è perché ci aspettiamo che questa storia e questo oggetto generino stupore e straniamento fuori dall’Italia. L’altro giorno passeggiando per caso in Via Manzoni sono stato felicissimo di vederlo piazzato in vetrina insieme a lussuosi libroni internazionali di moda e design.
Il FUORI! arriva nel pieno di un momento di tensioni che aveva i caratteri e le aspirazioni della rivoluzione. Si parlava prima dell’urgenza di pubblicare questo libro, di riportare alla luce una rivista che ha svolto un ruolo decisivo nel merito. Ci hai detto di qualche prospettiva di fuoranza d’oggi, ma come vedi la nostra folle contemporaneità? Per provare a metterci nell’ottica del FUORI!, come stiamo messi ad aspirazioni rivoluzionarie?
Siamo messi meglio di quello che pensiamo. Nel senso che esiste una grande chance di ottenere e attuare delle libertà, e forse nel giro di pochi anni. Le ragioni sono diverse, e aprono rivoli che finora sono stati praticati da un numero ristretto di persone al mondo. Penso per esempio che ci sia una grande sensibilità nella fascia di ventenni. Sono attenti a non sprecare un singolo goccio di vita, al balance che è andato a puttane nelle generazioni precedenti tra lavoro e vita, insomma sono molto attenti a garantirsi ampi spazi di libertà, di viaggio, di godimento e di desiderio individuale – e sono ben cosciente di non considerare in questo la questione dei problemi economici e lavorativi. Credo che questa fascia aumenterà nel corso del tempo, e i tracciati di vita prenderanno sempre più configurazioni ampie, a maglia larga e meno prevedibili, flipper biografici, coincidenze e rimbalzi, in senso buono. Con anche colpi assestati ad arte e non così casuali. Ad esempio e banalmente, questa è l’importanza di un film come Nomadland. Penso che di per sé sia debole, ma racconta di una possibile comunità – anche se un po’ tirata per i capelli. Parla di utilizzo degli interstizi, degli scarti geografici e umani. E poi c’è l’opposto. Il contrario, l’espansione dell’universo del delirio uscito fuori in strada, e già da molto tempo. Solo che prima era lasciato alla fantascienza e all’immaginazione fumettistica. Entrambe sono entrate a gamba tesa nella realtà. Persone pronte a tutto, come a Capitol Hill o in scala lillipuziana nell’irruzione alla CGIL – fatta da una micromassa che era molto più composita di quello che si pensa. Una realtà che ci fa capire l’esistenza di uno strato rivoluzionario ma molto pericoloso (perché non necessariamente la rivoluzione è buona, è bene dirlo). C’è una forte consistenza di fuoranza cattiva, diciamo così, o meglio: selvaggia. La stiamo leggendo molto negli ultimi tempi e sarà, con ogni probabilità, molto sostanziosa in futuro.
Poi proprio oggi si è vista un’altra cosa strepitosa: l’inabissamento nel dark web di migliaia di dati, come i diritti musicali della SIAE e le sempre più frequenti – seppur già viste – forme di hackeraggio. Predoni digitali, antichi predoni medievali trasformati dalla contemporaneità. Così come le forme di cospirazione/sabotaggio che avranno un ruolo incredibile nei prossimi anni, determinando stop di servizi in maniera clamorosa. Non sappiamo in che modo questi elementi si collegheranno tra di loro. Quel che è certo è che si sta entrando in uno spazio molto più anarchico di quello che ci immaginiamo.
Mi hai fatto venire in mente un libretto circolato in rete dal 2011 e da poco tradotto in italiano: “Desert”, di un anonimo anarchico. Lascia terra bruciata, è straziante. Frammentazione politica e guerra totale, città-roccaforte ed esclusione ai tempi del cambiamento climatico. L’avvenire di mondi complementari, paralleli e polarizzati. I toni sono forse un po’ come in Nomadland. Comunità che rimangono ai margini, con tutte le difficoltà del caso.
Lì dentro sta l’immaginazione delle forme future. Così come lo si trova nell’universo dei giochi, che (se i dati non sono sbagliati) è il mondo che abita il 40% degli adulti sul pianeta. È questa sorta di tableau che ho vagamente descritto. In questa intersezione si sta formando un immaginario che non è ancora emerso, o meglio, che ogni tanto emerge ma poi sparisce, come se fosse una crosta, e non sappiamo cosa succederà quando andrà in frantumi. Ma quando succederà, quando si romperà questo guscio ormai sottile, come quello di un baco pronto a diventare una farfalla mai vista, entreremo effettivamente negli anni Duemila. Finora le forme del Novecento, scricchiolando come catene di un vascello in tempesta, ancora hanno retto. Ma non dureranno ancora molto. E non sappiamo qual è la cosa che c’è sotto. L’unica cosa che sappiamo è che c’è. Come un bignè: sotto la foglia c’è la vera fuoranza. Garantito.