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Francesco Urbano Ragazzi: „FUORI!!!“

Un ready-made, un manuale di politica. La seconda parte di interviste per la prima raccolta dei mitici 13 numeri numero del FUORI!, il Fronte Unito Omosessuale Italiano (!).

Geschrieben von Piergiorgio Caserini il 16 November 2021

Archivio di "Io tu lui lei", Francesco Urbano Ragazzi alla Fondazione Bevilacqua La Masa, 2012. In alto i volumi del FUORI!.

Dopo lunga intervista con Carlo Antonelli per l’uscita di “FUORI!!!” per NERO, abbiamo parlato anche con Francesco Urbano Ragazzi, il duo curatoriale che a dirsi pare uno e che ha co-editato il volume. Un’altra lunga conversazione dove, a dispetto di altre interviste dove tutti insistevano sull’origine oscura e silicea di questo nome, noi siamo andati dritti al punto, al punto del “FUORI!” e soltanto alla fine abbiamo sfiorato la LIAF, la Biennale dell’Artico che i FUR cureranno nel 2022. Abbiamo parlato piuttosto delle origini dell’interesse per il “FUORI!” rispetto alla loro storia curatoriale, agli incontri accidentali dei progetti collettivi e alle prospettive, per certi aspetti felici, che la pubblicazione dei primi mitici 13 numeri del “FUORI!” porta con sé.

«Un’esplosione culturale. E vista con il filtro di questi eventi, la storia italiana è completamente un’altra storia.»

Ci hanno parlato del libro-oggetto come se fosse un ready-made più che una collezione di pagine, e ad averlo tra le mani è vero. Innegabilmente vero. Poi le domande di rito. Dove stanno le fuoranze? Perché il “FUORI!” è un salto temporale asincrono che fa esplodere i temi di oggi? Perché ci sembra un manuale politico, un vocabolario di lotta più efficace di quello odierno?

Sappiamo che l'idea di fare uscire questi mitici 13 numeri è venuta durante un incontro fecondo tra voi e Carlo Antonelli alla Fondazione Bevilacqua La Masa. Conoscendo un po' il vostro percorso di ricerca come duo curatoriale, accompagnato dalla Fumai, dai riferimenti a Carla Lonzi o Valerie Solanas, per certi versi non stupisce l’attenzione per il “FUORI!”. Ma come e dove l’avete conosciuto?

È cominciato tutto con “Io Tu Lui Lei”, una mostra del 2012 alla Fondazione Bevilacqua La Masa, tutta attorno all’idea di eredità dei movimenti di liberazione sessuale. Avevamo lavorato con Osservatorio Queer del Comune di Venezia e con il Ministero delle Pari Opportunità – capitanato dalla Carfagna. Una strana compagine, che nasce anche in un momento in cui la ministra aveva deciso di fare ammenda riguardo alcune uscite pubbliche poco felici. Nel senso che allora c’era un sostegno abbastanza evidente all’ambiente più destrorso delle realtà omosessuali – quelli per cui “l’omofobia in Italia non esiste” e via dicendo –, almeno finché un ragazzo fu picchiato a sangue. Da lì cominciarono a finanziare progetti educativi e culturali nel merito delle questioni, e per questo possiamo dire che già dagli esordi “Io Tu Lui Lei” era un progetto piuttosto queer. Una strana compagine, una strana congiuntura, con cui riuscimmo a fare un workshop di un anno per capire chi e come – per volontà, necessità o condizione – ha dovuto rinunciare all’idea di trasmissione genetica e come ha gestito il proprio patrimonio. Abbiamo lavorato in pratica con un gruppo di anziani. Di signore e signori omosessuali e transgender, tutti residenti nel bacino veneziano e quasi tutti ultrasettantenni. Abbiamo raccolto informazioni, storie, reliquie o whatever, e ne abbiamo fatto una mostra (c’era anche Chiara Fumai, e quello fu l’inizio del nostro rapporto, con un lavoro introvabile su Jack Smith). Eravamo entrati nelle loro case, e lì ci si erano schiusi degli archivi pazzeschi. L’incontro col “FUORI!” avvenne così, a casa di Ulderico Manani, uno dei fondatori del circolo di Venezia del “FUORI!” che aveva tutti i numeri della rivista. Incontrammo anche il gruppo di donne che ruotava attorno ad Alessandra De Perini, che aveva tutto: riviste lesbiche pazzesche, libri, film, anche se il “FUORI!” per qualche strana vicissitudine viene conservato più strenuamente da uomini. Seppur come sai includeva i contributi di tantissime donne. Insomma, esponemmo tutti questi materiali, tutte le riviste – come Babilonia o Gay Sunshine – che erano state conservate negli archivi privati di queste persone dagli anni Settanta in avanti.

 

 

Mi immagino questo archivio “ritrovato”, emerso, di oggetti e riviste più come un archivio di storie personali. Storie raccontate attraverso le loro forme di collezionismo privato.

Assolutamente. Per esempio, uno dei signori che partecipò al progetto ci ha portato quelle che lui sostiene fossero le mutande di Nureyev. Era un operaio di Marghera che raccontava di aver sedotto Nureyev in una spiaggia al Lido e di avergli poi rubato le mutande. Che gli vuoi dire? L’abbiamo presa per buona e gli abbiamo anche dedicato una teca. Probabilmente quelle mutande non avrebbero superato l’esame del carbonio 14, non avrebbero avuto valore storico nel senso più proprio del termine, ma come dici tu era più importante il rapporto di autonarrazione che si metteva in gioco attraverso gli oggetti. Un altro momento bellissimo, in questo senso, fu quando andammo per la prima volta a casa di Ulderico. Ci risultò chiaro che avesse pronto tutto quel materiale da anni, che aspettasse solo che qualcuno arrivasse: aveva creato una messa in scena per certi versi esilarante, vestendo una figura da esistenzialista estrema per cui i libri, i fogli, le lettere, insomma tutto era sparso in cucina, fino a coprire anche il forno e i fornelli… oltretutto lui era un uomo di teatro, che dire: meraviglioso. Pensa che per il poster della mostra avevamo usato una foto di uno spettacolo di Ulderico, che era stato anche il direttore artistico di alcuni carnevali della città. Almeno finché non venne censurato da un assessore alla cultura, quando durante uno di questi carnevali in piazza San Marco aveva messo in piedi una sfilata di maschere a ispirazione LGBT+, e qualcuno salì sul palco a interrompere tutto e a spegnere le luci. È anche da quest’aneddoto che ci siamo convinti a diffondere ulteriormente il “FUORI!”, di metterlo a disposizione di tutti.

Andiamo sull'aspetto del libro: è un oggetto, un libro da tavolo, che richiama quell'estetica un po’ a tratti feticista del librone d'archivio – soprattutto per la stampa anastatica, e oltretutto il vostro apporto nel volume è limitato, non si espone a sovrainterpretazioni di sorta. C’è una breve introduzione, la lunga intervista (necessaria) a Pezzana e il resto sono le pagine originali. Perché la scelta di questo tipo di rapporto con i documenti?

Ci siamo approcciati non soltanto da curatori, ma anche un po’ da artisti. Nel senso che in fin dei conti questo oggetto è un ready-made. È esattamente come rileggere cinquant’anni dopo quelle pagine lì. Bisogna anche dire che sono state difficilmente lette in quegli anni, e sono ancor più difficilmente rintracciabili oggi. Pensa che i numeri che abbiamo scansionato erano le uniche copie che c’erano nell’archivio della Fondazione Sandro Penna a Torino. Ci siamo resi conto che stavamo andando letteralmente incontro a una sparizione, anche se il “FUORI!” stampava a un certo punto 20.000 copie per ogni numero (per rimanere nelle edicole). Ovviamente i resi erano molto più alti dei venduti: intorno all’80%. Significa che quasi nessuno lo leggeva veramente, ed è lì il paradosso: non lo si prendeva all’edicola perché ci si vergognava, e se lo leggevi era perché eri già nel circuito. Insomma, ci piaceva l’idea di poter compiere un salto temporale, un movimento che concedesse di fare dei nessi comparativi tra ieri e oggi, che in fondo è a tutti gli effetti un’esperienza artistica, estetica: movimenti sinaptici inaspettati, asincroni e decisamente stimolanti. In un momento ci si trova con un lessico in fase di formazione, e subito dopo con un’esplosione lessicale. A volte sembra di stare in un’altra epoca, a volte ti sembra oggi. Ed è così che si percepisce la voglia di lotta, la battaglia, il legame con la militanza e con una certa ideologia, la volontà di essere all’interno di una logica marxiana e allo stesso tempo rivendicare le tematiche e le politiche identitarie – che allora erano completamente avulse da quel contesto politico. In breve: c’è una continua trazione che non può essere che generativa, anche soltanto sfogliando le pagine e leggendo i loro titoli pazzeschi.

Perché quella bomba in copertina?

La bomba non è il simbolo più evidente del “FUORI!” seppur si trovasse in fondo a tutti i sommari. Ma era molto interessante per noi perché è una sorta di pre-emoticon. Spiega come ha funzionato nel pre-internet la connettività di questo movimento, così come la sua collocazione nella storia. Perché bisogna ricordarsi che tutta questa scena di Torino era connessa con tutti i movimenti in Europa, con il Gay Liberation Front di Londra, con il FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire) di Parigi, con Fernanda Pivano a New York. Insomma c’è questo momento incredibile che è anche un copia incolla di articoli presi da altri giornali, traduzioni alla buona, un uso del diritto d’autore piuttosto opaco… che però prefigura dei tempi molto nuovi. Quella bombetta ci sembrava diventare il ponte ideale con le emoji, con i meme. E l’altra cosa importante sono i punti esclamativi in più. Abbiamo voluto mettere enfasi, rendendolo un super-”FUORI!”, un fuorone, un fuori urlato.

Ecco, i due punti esclamativi sembrano sottolineare un'urgenza. Perché? Penso al voguing che fanno in Porta Venezia, all'aperto, all'esposizione che si vuole ottenere in strada, e visti gli ultimi tempi di DDL Zan e quant'altro, questi due punti esclamativi mi parevano proprio una sollecitazione: dove andare a beccare una “fuoranza”? E come imparare a organizzarsi per vederla e trovarla?

Tutto sommato è come se questo libro fosse un manuale di politica. Se guardiamo all’oggi con quel filtro, tra la grande sconfitta dello Zan o lo scollamento sempre maggiore tra la comunicazione politica e la partecipazione dei cittadini, si vede come quel movimento volesse contare (anche politicamente), chiedendo diritti che andavano molto al di là delle semplici tutele e delle aggravanti che il DDL ci avrebbe garantito. Erano, quelle di quegli anni, richieste di diritti sostanziali. Da questo punto di vista l’urgenza era davvero quella di organizzarsi e agire concretamente. Pensa che durante gli incontri per “Io Tu Lui Lei” emersero storie abbastanza emblematiche. Immagina la situazione: uno dei signori coinvolti nel progetto partecipa alla riunione di un movimento studentesco per preparare chissà quale rivolta alla fina degli anni Settanta; si alza e fa la domanda: «Chi di voi è omosessuale?». È calato il gelo nella stanza, ci ha detto. Il silenzio assoluto, il vuoto dell’anima davanti a un extraterrestre. Certo, stiamo anche parlando di come farsi le spalle un po‘ più grosse di quelle che si hanno. Non sempre c’erano i compagni di battaglia, ma la battaglia andava fatta comunque. Questa era l’urgenza. Un po’ come Mariasilvia Spolato, la fondatrice del FLO (Fronte Lesbico Omosessuale), che contava un unico membro: lei stessa. La sua lotta e la sua volontà di esposizione la portarono al licenziamento (era professoressa di matematica e autrice di un manuale Zanichelli, nonché della prima pubblicazione che univa traduzioni internazionali dei movimenti di liberazione) e poi alla recente morte da senzatetto, in Trentino. Questo per dire che ci sono storie che non finiscono affatto bene, ma anche figure incredibili con un coraggio fuori dal comune che andavano in qualche maniera celebrate.

Il tredicesimo numero che chiude la raccolta coincide con la frattura del “FUORI!” e Mieli, ed è anche il primo numero interamente curato da donne. Come a Carlo, anche a voi la stessa domanda: perché chiudere con questo numero?

Sicuramente era importante chiudere così, perché è necessario controbilanciare la ricostruzione storica. Spesso il movimento omosessuale è diventato il movimento degli uomini – che sicuramente avevano ricoperto un ruolo importante – ma non erano gli unici. Soprattutto nell’elaborazione teorica. C’era Mariasilvia Spolato ma anche la presenza di Françoise d’Eaubonne (l’iniziatrice di quello che oggi si chiama eco-femminismo) sul palco della manifestazione di Sanremo lo testimonia. Insomma, figure fondamentali. Poi gli anni del fuori-donna, intorno al ’74, sono stati anche il momento in cui la parola “omosessuale” entra a gamba tesa nel linguaggio comune, esce dalla cronaca nera e si ritrova ovunque.

Come dicevate, parliamo di istanze di liberazione dei corpi ma allo stesso tempo anche di una liberazione del linguaggio. Io mi sono divertito un mondo. C'è un'esuberanza della lingua, con dei calembour pazzeschi. Immaginare oggi una forma di comunicazione così sfrontata che abbia una forma di inerenza e anche di ambizione politica, è decisamente difficile da pensare. In questo senso, è come se il “FUORI!” fosse anche una soglia, una pietra miliare, per la nascita di un certo tipo di linguaggio.

Quella forza forse nasce anche da una mancanza, che è poi un’opportunità: quella di non avere nessun linguaggio in partenza, nessuna parola positiva con cui descriversi, e allora rubare da tutti gli altri linguaggi, dal marxismo al femminismo fino agli insulti, e inventarsi questo vocabolario che è una specie di collage, una lingua che ancora non esisteva. Se ci pensi, è da quegli anni – che coincidono con il tredicesimo numero – che comincia ad aprirsi il linguaggio. Nei volumi del “FUORI!” è abbastanza evidente: non si parla subito di transessualità. Si parla di travestiti nei primi numeri, e piano piano, col passare degli anni, anche dei soggetti trans vengono chiamati a scrivere per la rivista. E in generale, la scissione con Mieli è stata un evento traumatico e con un cambio di linguaggio. È anche un po‘ la ragione per cui abbiamo scelto di piazzare la bomba in copertina. D’altro canto quegli anni sono sempre ricordati come quelli dello stragismo, del terrorismo, ma sono anche gli anni di Carla Lonzi, del femminismo, dei primi movimenti ecologisti, gli anni di Basaglia e dell’antipsichiatria, insomma sono veramente gli anni in cui la cultura italiana cambia, si apre. Un’esplosione culturale. Vista con il filtro di questi eventi, la storia italiana è completamente un’altra storia.

Possiamo trovare oggi delle fuoranze capaci di tenere il livello del “FUORI!”?

È complicato. Non vorremmo nemmeno dire che la censura favorisce la “fuoranza”, come si potrebbe anche arrivare a dire. Perché poi per certi aspetti è anche quello che rende il “FUORI!” un fuori: un gruppo di cani sciolti che vanno in direzioni completamente diverse. Perché mettere sotto lo stesso cappello Mario Mieli e Angelo Pezzana è veramente difficile, eppure erano lì ed erano grandi amici. Questo passaggio qui oggi è decisamente complesso. Siamo portati a seguire dei pattern relazionali, che rispondono a nostri bisogni e disegnano linee di movimenti più determinate. Determinate dal fatto che abbiamo delle mappe piuttosto precise attorno a noi, che stabiliscono degli assi di movimento più netti e anche meno incidentali. Dove si può trovare una fuoranza? Ce lo stiamo chiedendo anche noi. E per quanto riguarda il nostro lavoro, si tratta di creare degli incidenti nella realtà per stabilire nuovi spazi. Magari facendo piombare l’arte in contesti di consumo. E non perché l’arte sia al di sopra di tutto – tuttalpiù spesso è assoggettata –, ma per stabilire dei nessi inattesi. Ma fuoranza vuol dire anche frequentare e muoversi attraverso le classi, i gusti e le possibilità con un po‘ più di flessibilità. In questo senso credo che un’enorme risorsa per l’apertura a nuove prospettive identitarie possa venire oggi soprattutto dalle nuove e vecchie generazioni di immigrati e dal loro accesso alla sfera pubblica.

Forse bisognerebbe pensare le fuoranze sì come territori di rivendicazione, ma anche come strategie, traiettorie, in cui andare fuori di sé e da sé, no?

Beh, con “fuoranza” possiamo anche riferirci all’uso di stupefacenti. Stare fuori in fondo è letteralmente estasi. Il consumo sempre più elevato di sostanze psicotrope, anche per esempio in contrasto alle inibizioni sessuali, ci parla di un bisogno fortissimo, ma anche di una certa difficoltà, nell’uscire da noi stessi. Possiamo rispondere a questa spinta cercando i diversi fuori nell’alterazione del nostro stato psicofisico – che però oggi è diventato un gesto quasi normalizzato – oppure iniziando a scoprire attorno a noi i mondi che non sono il nostro, trovando il comune laddove non ci si aspetta di trovarlo.

Come va il confronto con la Biennale delle Isole Lofoten? Che è un luogo piuttosto “fuori”, uno spazio remoto.

Eh sì, è fuori. Decisamente fuori. E tra l’altro, a proposito delle sostanze di prima e degli effetti di fuoranza che danno, qui le condizioni climatiche assieme alla rotazione del pianeta terra producono sollecitazioni fisiche strane, per cui d’estate si ha questa energia pazzesca con un sole che non tramonta mai e d’inverno l’opposto, una specie di letargia. Ci si sente veramente preda di quello che succede attorno. E in più il nord della Norvegia è anche territorio sciamanico, soprattutto per la presenza della cultura Sami, la popolazione nomade che unisce la Norvegia alla Finlandia fino alla Russia. Insomma, anche qui c’è tutta una serie di fuoranze che stiamo cercando di intercettare.