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Davide Shorty, essere umano

Geschrieben von Dario Bruner il 26 März 2024
Aggiornato il 27 März 2024

A Bologna il 19 marzo 2024 è arrivato Davide Shorty, ospite della rassegna Blackness tenuta da Carlo Babando che per la sua terza edizione si è focalizzata sull’hip hop in occasione del cinquantesimo anniversario dalla sua nascita.
L’artista palermitano, legato alla città di Bologna, abbina da sempre hip hop, jazz e soul. Insomma, musica black a 360°. Noi abbiamo colto l’opportunità per intervistarlo, parlando insieme a lui di fragilità, musica e sviluppo culturale, salute mentale, politica e razzismo e progetti futuri.

 

Ciao Davide, come stai? E visto il nome del tuo nuovo tour, ti chiedo: ti senti ancora fuori fuoco?

Sto bene perché sto mangiando una carota (ride ndr) e sì mi sento ancora fuori fuoco.

Partiamo con una domanda leggera. Cosa significa per te essere uomo?

Prima di tutto essere umano, imparare ad entrare in contatto sia con la propria parte maschile sia con la propria parte femminile, perché ognuno di noi ha entrambe energeticamente.
È importante imparare ad essere a contatto con le proprie emozioni, cercare di non scadere nella tossicità come essere umano, perché nel momento in cui non ti prendi cura della tua igiene mentale, nel momento in cui ci sono delle carenze d’affetto e di beni primari come gli abbracci, il tocco fisico, la fiducia negli altri o l’amore di una famiglia, essere uomo diventa molto più difficile. Siamo in una società in cui essere uomo significa essere forte, essere il provider, essere sempre al top. Secondo me dobbiamo considerare l’uomo in quanto essere umano prima di tutto e senza “generizzare” troppo (non „generalizzare“, ma proprio “generizzare”).

Vedo che ultimamente, soprattutto alla luce di alcuni dischi usciti in Italia e all’estero, c’è meno paura di mostrare il proprio lato fragile. Il machismo e l’essere inscalfibile forse non fanno più così figo.

È importante concedersi la vulnerabilità. Nel momento in cui non lo fai accumuli tanta frustrazione che poi si sfoga in maniera tossica. Si può trasformare in tanti modi, nel peggiore dei casi in malattia.
La salute mentale diventa salute fisica, spesso vanno di pari passo.

Anche il lato emotivo deve assumere importanza. Lo dici nel ritornello di “essere uomo”: 
“qui non c’è perdono se perdi l’amore”...

Io penso che imparare ad amare dovrebbe essere insegnato a scuola. Bisognerebbe educare le persone all’empatia, all’intelligenza emotiva. L’altruismo, la generosità, la gentilezza sono dei valori che purtroppo la nostra società ha perso. Ci si urla in faccia, ci si parla sopra…non c’è una gestione ordinata delle emozioni. C’è sempre caos e questo caos alle volte crea della poesia, altre volte degenera in altro caos. Guarda caso siamo sull’orlo di una terza guerra mondiale.

Spesso mancano i riferimenti proprio da chi dovrebbe essere esempio.

Nel 2024 abbiamo dei leader che pensano ad uccidere altra gente, che pensano alla possibilità di utilizzare armi di distruzione di massa. Si parla di genocidio nel 2024, di chi viene oppresso. Io nel pezzo (Essere Uomo, ndi) dico “chi odia l’oppresso da sempre ragione all’oppressore”.

Questo dice tutto.

È un po’ triste da commentare però d’altro canto è giusto avere gli esempi di chi non vogliamo essere per capire chi vogliamo diventare. È giusto identificarli e combatterli. Io sono sempre molto diviso, perché ho una parte di me che nel contrastare il male delle volte tende alla violenza, alla rabbia e credo che la rabbia debba essere trasformata in altro per poterne massimizzare l’efficacia. Delle volte mi sembra di non aver imparato a gestirla e per questo sono andato in terapia. La prima cosa che ho detto alla mia terapeuta in primissima seduta è “io ho un problema di gestione della rabbia, come facciamo?”. Questa roba dovremmo farla tutti, specialmente se sei il leader di un Paese, ma ci sono interessi troppo grossi. Alla fine, siamo in un modo o nell’altro inevitabilmente pedine e l’unico modo per non esserlo è pensare a te stesso, pensare a chi ami, nel modo più selfless e altruista possibile. Dobbiamo creare aggregazione per dare messaggi positivi, di speranza, di amore. Questa cosa purtroppo non è sempre possibile perché c’è tanta tossicità ai piani alti.

Nella ricerca del bello o nella ricerca di uno sfogo, ci possono aiutare l’arte e la cultura. Siccome ci troviamo qui a Bologna colgo la palla al balzo. Faccio riferimento al brano “con/fusion”, presente nel disco “fusion.” Citi i Sangue Misto, che hanno lasciato una forte impronta nello sviluppo dell’Hip Hop Italiano, partendo da Bologna. Pensi che la città possa ancora avere un ruolo più che rilevante nel movimento?

Beh, a Bologna ci sono tanti rapper, io venivo spesso a fare freestyle in Montagnola quando ero piccoletto, venivo a trovare diversi amici come Brain e tutta la congrega. Natty Dub (producer dei Funk Shui Project) è ancora qui. Penso che Bologna sia un centro nevralgico, vicina al centro del business che è Milano e mantiene la sua importanza. Anche la cultura del basket radicata in questa città va di pari passo con l’hip hop. I tempi sono cambiati, ma qui c’è ancora tanta bella musica. Deda è uscito da poco con un album e sta qua, costruisce qui da sempre. Basti pensare anche a Koralle, il side project di Godblesscomputer, un super producer. Secondo me a Bologna non manca nulla.

In occasione della rassegna Blackness, insieme a te c'era Avex, perché ha scelto di invitarlo?

Perché la rassegna non prevedeva nessun ospite afrodiscendente e se si utilizza il termine Blackness è importante includere la comunità afrodiscendente. Avevo bisogno di qualcuno che potesse parlare di cultura black meglio di me. Io devo tutto a questa cultura che mi ha dato un lavoro, una dignità e un’identità. Mi ha insegnato a vivere la mia vita grazie al jazz, al soul, al funk, all’afrobeat e all’hip hop soprattutto.
Avex è un fratello etiope, cresciuto in una comunità italiana e vive in Italia da otto anni. Ha preso gli echi del colonialismo e li ha utilizzati per se stesso in maniera positiva, questo è un miracolo! Gli etiopi son dei bei guerrieri. Ringrazio Carlo Babando per aver ascoltato il mio punto di vista ed essersi reso disponibile.

Parlando di generi derivanti dalla cultura black, io sto notando di recente un maggiore avvicinamento del jazz al genere rap, penso a Fabri Fibra che nel suo ultimo disco utilizza un beat con il giro di piano di “Blue in Green” di Miles Davis.

L’ho fatto anche io prima di Fabri Fibra, nel mio primo disco “Straniero”; lo hanno fatto Ghemon e altri. È bello vedere che il jazz finalmente sta ritornando nell’hip hop perché lo ha generato e questo in Italia molti non lo sanno. Quando parli di Jazz agli italiani, pensano che sia musica per vecchi, mentre in America c’è gente come Robert Glasper e una comunità che aiuta i più giovani a comprenderlo meglio. Mi auguro, quindi, che ci possa essere un rebranding della scena jazz italiana.

E il rap in questo può aiutare?

Guarda io definisco il mio genere „jazz-rap“, quindi ti dico di sì.

La scorsa estate ha visto il ritorno in grande stile di un tuo collega palermitano, Johnny Marsiglia. Vista la decentralizzazione che sta vivendo il rap in questo periodo, penso alla Puglia con l’ascesa del giovane Kid Yugi, ti chiedo: hai intenzione di portare ancora in alto il nome di Palermo insieme a Johnny? Oppure vivendo a Londra da diversi anni magari ti sei un po’ distaccato da questa causa?

Come dice Johnny nel disco Memory, “Palermo per sempre”. Io l’ho tatuato sul braccio destro. Sono fieramente palermitano nell’attitudine, nell’accento, nel modo di rappare in italiano. Questa cosa non morirà mai. 
Io e Johnny continuiamo a collaborare e il 5 aprile esce un nostro nuovo singolo con i Funk Shui Project.

Ci aspettiamo qualcosa di forte da voi due. Al momento stai quindi alternando i live di “Fuori Fuoco Tour” alle vibes londinesi...

Il tour si chiama “Fuori Fuoco”, proprio come il disco che sto facendo. Non solo perché mi sento fuori fuoco e alla ricerca di me stesso, ma anche perché a Londra c’è stato un incendio sotto casa mia e quindi io sono fisicamente fuori dal fuoco. Questa cosa mi ha costretto ad andare via per un po’, anche perché Londra richiede un backup di un certo tipo. Ho deciso quindi di tornare in Sicilia, sentire la vibe della mia terra per capire, vivendola, com’è cambiata in questi anni. Mi rendo conto che l’Italia non è un posto in cui vivo bene, ma è un mio limite e ammiro tanto le persone che rimangono a costruire.
Posso dirti che sono felice di vedere una realtà come il Muretto Palermo. Invito tutti a seguirli perché è il centro nevralgico del freestyle palermitano, si ritrovano ogni sabato e io vado spesso. Mi sono ritrovato di nuovo a competere con dei ragazzi più giovani.

Allora direi che ci vediamo durante il tour.

Bella brother.