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Dieci anni di Làbas, oltre gli schemi classici del „centro socialismo“

quartiere Zona Universitaria

Geschrieben von Salvatore Papa il 15 November 2022
Aggiornato il 16 November 2022

Foto di Asia Giannelli

La mattina del 13 novembre 2012 qualche decina di ragazze e ragazzi decisero di aprire una caserma abbandonata da molti anni in via Orfeo 46: nasceva così Làbas. Era il periodo del Toma la Huelga, lo sciopero europeo contro le misure di austerity imposte dalla BCE, e quell’occupazione ispirata a quelle rivendicazioni cambiò la storia dell‘ex caserma Masini, in procinto di essere svenduta a privati con l’idea di far cassa facile per lo Stato.

Làbas lì ospitò, tra le tante cose, un partecipatissimo mercato contadino settimanale, laboratori per bambini e un dormitorio sociale con più di 30 persone in disagio abitativo; uno spazio attraversato da anime molto diverse capaci però di riconoscerne la funzione di utilità sociale. Motivo per cui lo sgombero dell’8 agosto 2017 scatenò le proteste anche da parte di molti residenti vicini sfociando in una delle manifestazioni più partecipate degli ultimi anni con oltre 15mila persone.

«Eravamo all’inizio consci delle caratteristiche in parte ostili del quartiere, che era quello più a destra della città – ci raccontava tempo fa Tommaso Cingolani, uno degli occupanti – ma la nostra sfida fu proprio quella: rompere gli schemi classici del “centro socialismo” andando oltre la chiusura preventiva nei confronti di persone ideologicamente lontane da noi. E credo che ci siamo riusciti».

Oggi Làbas, grazie a una convenzione, abita gli spazi del quadriportico di Vicolo Bolognetti. Non più il classico centro sociale, ma un „municipio sociale autogestito“ fucina di partecipazione, inclusione, solidarietà, cultura, conflitto e politica che ospita moltissime attività: uno Sportello legale per migranti, uno per il lavoro e uno per la casa, un doposcuola, una scuola d’italiano, LàBimbi, un progetto ludico-educativo, la ciclofficina sociale LàBike e il Laboratorio di Salute Popolare che offre cure mediche e odontoiatriche e sostegno psicologico.

In occasione dei 10 anni, che saranno festeggiati il 16 novembre, abbiamo ricontattato Tommaso, per provare ad andare più a fondo al percorso fatto fin qui.

 

Guardando indietro, cosa pensi oggi di quella scommessa? E quali furono i suoi punti di forza?

Fu una scommessa molto grande che poi si rivelò azzeccata, perché oggi celebriamo i 10 anni di Làbas in un nuovo spazio nel cuore della zona universitaria a qualche centinaio di metri dall’ex caserma Masini.
E fu grazie alla messa in calendario di eventi e attività che uscivano dall’ordinarietà della fruizione classica dei centri sociali che riuscimmo a conquistare la fiducia delle persone. Fu un meccanismo di garanzia che funzionò, e possiamo dirlo solo oggi perché all’epoca provare a mescolarsi con quel territorio circostante era un azzardo. Ma non ci arroccammo su noi stessi quando ci scontrammo con le prime diffidenze. Diffidenze che grazie al lavoro quotidiano lentamente si ruppero, anche grazie a tutti quegli abitanti del quartiere che quotidianamente varcavano la soglia di Làbas.

Lo sgombero fu però un colpo basso. Che ne è stato poi dei processi a vostro carico?

Pochi mesi fa è arrivata la condanna in primo grado che somma molti anni di carcere per alcune nostre attiviste a attivisti. Perché quel giorno decidemmo di esserci con i nostri corpi e quelli di molti residenti che erano lì con noi. La condanna certo non attiverà il meccanismo di arresto del processo politico che sta dietro alla nostra esperienza, ma viviamo nel paradosso di vederci assegnato uno spazio per aver lavorato in un’ottica di bene comune mentre allo stesso tempo c’è un tentativo di minimizzazione e soppressione di quelle che sono le biografie individuali di chi ha costruito tutto questo.

E le ex caserme sono ancora vuote…

Sì, è assurdo avere delle metrature quadrate sconfinate in quello stato con un’emergenza abitativa in corso e l’esigenza sociale di avere dei luoghi da utilizzare per cose concrete. Ma è chiara ormai la difficoltà di rimettere in comune degli spazi abbandonati attraverso un lavoro di negoziazione forte della forza pubblica con le varie proprietà.

Poi è arrivato, grazie a un bando, Vicolo Bolognetti. Quanto dura la vostra convenzione e cos’è cambiato rispetto a via Orfeo?

L’attuale convezione è di 4 anni + 4, quindi un tempo non lungo ma nemmeno breve per mettere in campo le cose che vogliamo fare. Ovvero progetti qualificati che vanno ad agire concretamente nel benessere di comunità ed essere motore di trasformazioni politiche radicali migliorative per le condizioni di vita di chi abita la città. Vedi il Laboratorio di Salute Popolare, la scuola di italiano, il doposcuola e tutti i progetti che portiamo avanti. È un lavoro che, se nella caserma facevamo in maniera sparsa, ora è diventato sistematico e qualificato, con un’attenzione sempre maggiore all’impatto reale, attraverso strumenti di rendicontazione.

Il Covid ha segnato però per voi un ulteriore cambio di passo, mi pare.

Il Covid aveva, come tutti sappiamo, fatto un lavoro di desertificazione con un riflesso nelle pratiche di solidarietà. In quel momento in cui molte cose si stavano digitalizzando o dimenticate abbiamo deciso di non seguire la tendenza e prodigarci per il bene collettivo; quindi con le staffette, prendendo la bicicletta per distribuire ai senzatetto il cibo e alcuni beni primari o le brigate di mutuo soccorso portate avanti dal TPO con cui abbiamo un’affinità gemellare. Tutto questo ci ha permesso di entrare in contatto con delle contraddizioni che poi abbiamo affrontato politicamente nell’ottica di rivendicazione. In quel momento siamo riusciti ad essere noi stessi facendo cose nuove in tempi nuovi. Questa è una cosa che vogliamo festeggiare per questi 10 anni, non come autocelebrazione, ma come occasione per guardare a quello che si è fatto per guardare in avanti.

Proprio dopo il covid vi siete dichiarati “municipio sociale”. Qual è la differenza rispetto a un centro sociale?

Se nel centro sociale decidevano le persone che vivevano il centro sociale quando aprire e chiudere le porte, nel municipio sociale di oggi le porte sono sempre aperte. La logica “ad evento” del centro sociale qui è superata dalla necessità di garantire l’utilizzo dello spazio alle centinaia di persone che lo attraversano ogni giorno, grazie anche alla vicinanza con le scuole medie ed elementari, gli uffici comunali e gli spazi di Salaborsa Lab. È per questo che abbiamo deciso di concepire il municipio sociale in una logica di messa a servizio, modella attorno a questa vocazione tutti i nostri progetti.

Da tutto questo però appare evidente che c’è una forte identificazione tra quello che fate e il luogo in cui vi trovate. E il rischio che tutto questo possa finire perché soggetto a un bando è sempre presente. Come pensate di superare questi limiti amministrativi?

Abbiamo sempre pensato che a scandire il tempo delle realtà organizzate non dovesse essere la dimensione formale. Per noi il bando è sempre stato uno strumento e non il fine, non è mai stata la cosa che ci ha permesso di respirare. Al di là del bando siamo convinte e convinti che abbiamo la necessità di esistere, al di là del tempo indicato. Non ci stiamo ponendo il problema di cosa succederà alla fine della convenzione perché non è quello i nostro limite. Il limite è la realizzazione di quello che vogliamo fare. Al di là della formalità è importante la forza sociale e politica che si riesce a mettere in campo per far sì che siano gli strumenti normativi ad adeguarsi e non viceversa. In questo caso specifico le due cose sono coincise, dopo il grande corteo che tutti ricordiamo.
Ma l’essere in convenzione non ci ha impedito di organizzare, ad esempio, insieme a un altro collettivo – LUNA – l’occupazione della palazzina di via Capo di Lucca 22. Questo per dire della libertà politica che bisogna mantenere quando si fa il passo della normalizzazione di un’esperienza.

Cosa vi aspetta per il futuro?

Attualmente stiamo ragionando per rendere il municipio sempre di più anche uno spazio diurno attraversabile per tutte quelle persone che vengono buttate fuori dai dormitori durante il giorno. Vorremmo creare una situazione comoda e piacevole, uno spazio che sia un collettore anche di rivendicazione. E vorremmo creare una cucina per la fruizione collettiva.
L’obiettivo è, inoltre, rendere questo luogo un’area e non un condominio di associazioni. Vorremmo creare un senso del noi, contro la dinamica dell’io che prevale oggi. È la sfida che ci sentiamo di percorrere.