Per chi è appassionato di musica stilare delle compilation per i propri amici, meno ricettivi e più pigri, è un’attività quasi di routine. Per chi la musica la scrive può diventare la prima nota di un progetto organico e di ampio respiro, una visione (non nel senso di delirio immaginifico, ma di veduta d’assieme). Così, da una serie di compilation per un amico, Luca, Francesco De Bellis (aka Francisco) ha tratto il nome per suo nuova identità musicale, L.U.C.A., che è tutt’uno con una nuova avventura discografica, Edizioni Mondo, che sta per diventare anche un album, I semi del futuro. In realtà, come Francisco stesso racconta in questa intervista, un approccio alla composizione totalmente altro rispetto al mondo clubbing era maturo e presente da tempo, ma la folgorazione sulla via di Damasco ha sempre il suo fascino narrativo. Mettetevi comodi ordunque, vi aspetta un viaggio totalmente psichedelico (e a ritroso nel tempo) in cui vi passeranno davanti i rave romani dei 90, i Mondo movie, i maestri italiani della colonna sonora, il Circeo, il beat cristiano e anche la Famiglia Bradford (© foto Manuela Susi).
ZERO: Prima di parlare dei disco in uscita, mi piacerebbe conoscere quelli del passato. Ti ricordi il primo lp che hai comprato?
Francisco: Il primo disco è stato in realtà una complitation house, c’erano tutta una serie di pezzi dell’89. Uno di quelli, se non ricordo male, era il remix di Me, Myself and I, una versione extended da serata. Lo presi in un negozio a Colli Portuensi. Questo è il primo che ho comprato per un motivo particolare, nell’ottica dj. In realtà di album ne avevo già comprati tanti, anche 45 giri, ad esempio la colonna sonora di Paradise. In quegli anni i dischi si trovavano ovunque, c’erano anche nei supermercati, all’Upim, in cassa vicino alle mentine.
L’ultimo, invece?
Questo (tira fuori un disco, nda). L’ho preso un’oretta fa: Paranoid London, We Come To Rock/Buck Stoppin.
Dove compravi i dischi a Roma?
Periodo 89-90, forse anche 91, Goody Music: ce n’erano altri, ma quello era quello dove ho iniziato, era specializzato per dj, c’erano i mix e i singoli. Poi ha aperto Remix e sono andato là.
Adesso?
Adesso ovunque: negozi quando trovo qualcosa, poi mercatini. Compro tanto ancora a Porta Portese. Quando sono la domenica a Roma ci vado sempre, almeno un’oretta.
Che tipo di venditori ci sono?
Ci sono quelli fissi, che hanno il loro banco solo di dischi, poi quelli “casaccio”, che hanno i dischi tra una lampada e un gioco di società.
Il disco (o l’artista) che ti ha fatto entrare nel mondo musicale in cui sei ancora adesso?
Direi che ci sono stati due periodi abbastanza importanti: il primo è legato al discorso techno, al passaggio dalla house alla techno, quindi Detroit, UR e via dicendo. Qui c’è stata la mia prima evoluzione nella dance e mi sono buttato a capofitto in questo tipo di suono. Il secondo periodo è quello della Warp, che inizia più o meno nel ’93, Quello è il periodo che mi ha formato di più. Nel ’91 avevo 14 anni quindi ancora dovevo modellare il mio gusto musicale e la mia praticità con la musica. Con la Warp comincio ad essere più grande e più cosciente di quello che stavo ascoltando e facendo. La Warp ha rappresentato un apertura creativa a 360°, i suoi artisti facevano tutto, sulla Warp usciva qualsiasi cosa ed era sempre di valore. Lì ho capito che la musica non era solo un certo tipo di regole, ma poteva essere qualcos’altro. Per me la Warp è stata l’etichetta che ha caratterizzato tutti gli anni 90: le migliori produzioni di livello mondiale di quel periodo sono state le sue. L’eredità più grande che mi ha lasciato è stata quella di una musica che può essere anche solo creatività, creatività assoluta, quindi non solo pensare al club, fare musica per il club, ma fare musica per fare musica.
Ci sono state serate o club di Roma che hanno avuto per te un simile ruolo formativo?
Certamente c’è stata l’epoca dei rave, per me come per tutti i romani (e italiani). I rave erano una roba internazionale: posti giganteschi pieni di musica. Non era una cosa a cui a Roma eravamo abituati, al Nord ci sono state da sempre delle discoteche enormi, da migliaia di persone, a partire dalla Baia. In zona Lazio non ce n’erano. Il più grande era il Maui, una discoteca a 30 km da Roma, e funzionava solo d’estate. Era all’aperto, non era quindi la stessa cosa di un club chiuso. Il Piper forse era il più grande. C’è stato il Macumba, dietro piazza Zama, ma è stato aperto solo per un periodo breve, un anno o due. Quindi i rave erano una figata perché ti ritrovavi a ballare con 2/3 mila persone, che era una cosa nuova. In più c’erano artisti di cui compravo i dischi, da Plus8 ad Aphex a Frankie Bones. Poi ho iniziato a fare cose io, a organizzare piccole serate e a unirmi a Passarani.
Quali sono state le prime serate in cui hai suonato?
Le prime erano in dei piccoli pub. C’è stato un periodo, nei 90, in cui in tanti pub facevano suonare delle band, con il pubblico principalmente composto da amici. Io facevo più o meno una cosa simile, ma con i piatti. Andavo nei locali, dicevo che organizzavo una festa, prendevo parte dei soldi del bar e mi portavo anche tutto l’impianto. Poi, piano piano, ho iniziato a trovare locali che già avevano una consolle e un impianto e così via.
Parlando sempre dei 90, c’erano dei dj di riferimento?
Sì. Quando ero più piccolo avevo una visione della Roma dei dj, chiamiamola così: Prezioso, Lory D, Tannino etc.
Quello che ti colpiva di più?
Andrea Prezioso, aveva un suono diverso.
Che musica metteva?
Hardcore, ma hardcore-jungle, roba inglese del ’91. Io ero impazzito per quella musica che sentivo solo a Londra – all’epoca ci andavo spesso. A Roma non esisteva, era un suono totalmente inglese. Nel resto del Mondo c’era la techno, lì c’era l’hardcore-jungle, quella con tutte break. Aveva un lato dubbesco perché veniva dal circuito giamaicano. Qualcosa la metteva anche Lory, ma poi Lory si faceva sempre il suo viaggio techno. Andrea invece ne metteva tanta. Già mi piaceva lui come dj perchè aveva una figura mistica: capelli lunghi, col visto coperto anche più di Lory, col cappellino. Lui veniva dall’hip hop, un po‘ come tutti perché prima dell’house e della techno c’era stato l’hip hop. Lui era stato dentro l’hip hop un po‘ più degli altri e quindi in questo hardcore, nei suoi campioni di break, anche se accelerarti, ci si ritrovava. C’erano anche delle rappate, che poi sono tornate con la drum’n’bass.
In realtà la gestazione era già partita un po‘ prima, ma diciamo di sì, il periodo è stato quello. Dopo anni di capannoni, anni di Fintech, dopo feste che più o meno diventavano uguali, si ritorna al club. Gli spazi industriali giganti, dispersivi, dopo un po‘ rompono. Adesso c’è un po un ritorno a questa cosa, ma io preferisco sempre il club, per me questa musica è partita dal club e quindi lì deve essere, anche se un club che si possa definire tale è sempre raro da trovare.
Ce n’è uno a Roma che per te ha questi requisiti?
A dir la verità a Roma non suono tanto, quindi non saprei proprio dirti. A meno che non hai una residenza o suoni più volte nello stesso posto, ci vuole un po‘ per creare questo feeling. Questa sensazione che tu mi chiedi l’ho trovata l’anno scorso a Foligno nella Rec Room del Serendipity dove ho avuto, appunto, una residenza. A Roma non ho una regolarità quindi è difficile da stabilire. Nova c’è stata solo un anno e comunque rispetto alla mia idea di club il Brancaleone era dispersivo, c’era una grande parte del pubblico che ci andava di default, poi eravamo tanti resident in rotazione. Fino a un certo punto si era creata questa sensazione, però non è mai andata oltre una certa soglia.
Chi ti piace della nuova leva musicale di Roma?
Panoram. Lui mi piace molto.
Prima di parlare di Edizioni Mondo e di I semi del futuro, ti faccio una domanda su quello che per molti anni è stato il tuo ultimo album, Music Business, dalla cui uscita sono passati circa dieci anni. Ti è capitato di risentirlo ultimamente?
Sì. A posteriori posso dire che avrei tolto un paio di pezzi, ma ci sono cose che ancora mi piacciono.
Che disco era?
Eravamo in un periodo di pausa con il progetto Jollymusic in cui stavamo gestendo l’uscita dalla Sony. Un periodo di stress micidiale. Ci avevano pompato fino all’ultimo con prospettive milionarie e un percorso di quattro uscite, invece poi capimmo che non si sarebbe fatto niente. Non è neanche uscito realmente l’album fatto con loro, sono state stampate solo pochissime copie previste per contratto. Mario (Pierro, aka Rotla/Raiders Of The Lost ARP, metà dei Jollymusic assieme a Francisco, nda) aveva già iniziato il suo progetto solista, io mi sono inventato qualcosa nell’attesa, anche perché con Jollymusic eravamo bloccati per 5 anni: qualsiasi cosa facevamo dovevamo mandarla prima alla Sony e se loro non la accettavano allora poteva uscire. Ovvero, se la tenevano loro. Come nome eravamo bloccati, potevamo suonare in giro, ma come produzioni eravamo legati e quindi bloccati. In questa pausa è uscito ’sto Francisco. Sai come sono queste dinamiche, il tuo socio fa un album, lo fai pure te. Infatti uscì subito dopo quello di Mario. Comunque è un album che mi piace, c’ho messo tantissimo per farlo, sopratutto per realizzare il gioco al suo interno. Dentro l’album c’era un gioco di società, per questo si chiama Music Business. In quel periodo mi ero comprato tantissimi giochi di società, da E.T. a RisiKo! a uno dedicato a 1997 – Fuga da New York. C’ho messo un anno a fare il disco e un altro per fare il gioco, perché lo volevo fare realistico, per cui ho dovuto pensare anche alle sue regole. Ero impazzito! Ero in una situazione assurda per cui il disco era pronto, ma non usciva perché dovevo finire il gioco di società al suo interno. E alla fine sono stato quasi più orgoglioso del gioco che non dell’album in sé.
Ma come funzionava questo gioco?
Era una sorta di Monopoli, ma sul business della musica. Parti da zero e devi fare serate nei locali, quando fai le serate recuperi soldi e, per esempio, puoi andare in un negozio a comprarti i dischi. L’obiettivo era arrivare primo in classifica. Quindi dovevi fare prima un po di soldi, poi fare i contratti con le case discografiche, per cui c’era sia un contratto major che uno indipendente: Clone – che produsse il disco nella realtà – come etichetta indipendente, Pony per la major. Era ovviamente anche uno sfogo per il periodo negativo che avevo avuto con le major. Tornando al gioco, se firmavi un contratto con le major arrivavi primo dopo tre album, con l’etichetta indie ce ne volevano sei. Andavi in prigione perché campionavi e ti sgamavano, c’era il Piper come locale, c’erano anche i festival che ti facevano guadagnare di più. C’è voluta una vita quindi a fare uscire quel disco!
L’hai riascoltato pensando a quello nuovo?
No, l’album nuovo appartiene a un altro discorso che va avanti da anni, non c’entra niente.
Immagino che tra Music Business e I semi del futuro i tuoi ascolti siano cambiati tantissimo.
Sì, certamente. Ho ascoltato tutto e di tutto. A un certo punto, dopo l’album e il discorso Pigna, ho avuto anche il rifiuto della dance. La dance ha delle regole molto rigide: se metti questo poi non ballano, a un certo punto ci devi essere uno „svuoto“, se c’è un bpm che se non è legato al momento il brano non funziona. Adesso ad esempio il bpm è veloce, uno come Move D che va sotto i 100 diventa pure difficile da far suonare in giro. Poi ci sono stati i blog, dove trovavi di tutto. Per chi l’ha sfruttato quello dei blog è stato un periodo magico: potevi entrare nell’hard disk di chiunque. Io ero impazzito, volevo tutte le colonne sonore.
Quali erano quelli che frequentavi di più?
DC++: li ho trovato miliardi di colonne sonore, sopratutto italiane, essendo appassionato di cinema di genere sapevo anche dove andare a trovare. Poi c’erano dei blog che facevano dei mischioni interessantissimi. C’era Boomrocks ad esempio, che ogni giorno ti dava delle tracce da scaricare gratis: un giorno c’era un pezzo hawaiano, poi uno cosmic, poi uno italo, poi una colonna sonora, poi un pezzo pischedelico 60s. Ho cominciato a sentire di tutto e da lì ho cominciato a fare delle compilation per questo mio amico, Luca, da cui poi è nato il nome del progetto con cui esce I semi del futuro. Dopo questa ondata di musica ho iniziato a fare tracce aperte, con molte meno regole, riprendendo un po‘ il discorso Warp iniziale, il discorso di creatività allo stato puro. Anche per avere una crescita di composizione musicale. A un certo punto questa musica che stavo scrivendo l’ho chiamata new hippie: mi rifacevo a colonne sonore 60-70 che in quegli anni avevano questa psichedelia americana che io chiamavo hippie, perché richiamava fortemente proprio quel mondo là. Il progetto L.U.C.A. tocca quello, tocca altre cose italiane e le mette insieme. Non c’è disco, piuttosto molta colonna sonora italiana.
Tra i compositori italiani di colonne sonore hai qualche nome preferito?
È difficile, perché in quegli anni erano tanti ed erano tutti bravi. Morricone ce lo devi mettere, perché ha fatto cose che sono uniche, sempre poi con una nota marcia, con una dissonanza che gli creava il suo suono, geniale e anche psichedelico in certi casi. Piccioni è quello super romantico, con una composizione di archi super romantica e super romana. Pensa a tutti i film di Alberto Sordi: già vedi lui e dici Roma, poi senti Piccioni ed è ancora più Roma, perché poi Sordi se l’è portato appresso per tutta la carriera, erano molto amici. Ci sono ’sti violini della romanità che mi piacciono. Cipriani era quello più disco, sempre col funk nell’aria, super 70 con il basso flangerato, col phaser che mi piace tantissimo. Questi li metto sempre, poi Nicolai, Alessandroni…
Visto che le colonne sonore sono parte del tuo pane quotiando, ti chiedo se altrove c’è stato un movimento di compositori simile a quello italiano?
No, forse solo in America con il filone sci-fi. Penso perché là con il pop gli artisti guadagnassero di più. In Francia c’è stato un po‘, ma per quello che conosco io non sono tantissimi. La quantità tale di compositori di colonne sonore, proprio di mero numero, non c’è da altre parti. Ma è anche normale, perché c’è stata una scuola di persone capacissime per cui quelli che sono venuti dopo hanno sempre raggiunto un certo livello. Un allievo diventa minimo bravo, alcuni arrivano allo stesso livello dei maestri, altri li superano pure. Morricone era di una generazione, Micalizzi di quella successiva, Cipriani è in mezzo, Nino Rota è ancora un’altra generazione rispetto a Morricone, così come Umiliani.
I semi del futuro l’hai immaginato come colonna sonora?
No, in realtà è un percorso che parte dalla creazione, dal rapporto tra uomo e natura. Ci stava bene con il concetto di Edizioni Mondo ed entrava proprio nel discorso dei primi quattro dischi con cui è nata l’etichetta, che hanno come protagonista il Circeo: Dune (di Sabaudia), Laguna (che è la darsena), Precipizio (che è il Monte), Selva (che è il Parco Nazionale). Edizioni Mondo nasce con questa aspirazione naturalistica quasi documentaristica, ma al livello audio – e nell’album – l’ho sviluppata andando ancora più dentro, nel dettaglio.
Le hai scritte al Circeo le tracce?
Alcune sì, ad esempio In The Sun.
Hai uno studio là?
No, ho semplicemente portato gli strumenti. In The Sun l’ho composta assieme a Carlo Dall’Amico (aka Cècile) degli Esperanza. Eravamo andati al Circeo in vacanza un mese per buttare giù un po‘ di pezzi per L.U.CA. – ti parlo di 8 anni fa – e dovevamo fare ’sto pezzo sul sole. Alche gli ho detto che per scriverlo dovevamo fare almeno 10 tramonti, altrimenti non sai di che parli. Se no uno si inventa le cose, dici: «Faccio un pezzo sulla montagna» ma poi non ce vai mai, non sai manco che è. Dopo 10 tramonti abbiamo iniziato, prima non gli ho fatto toccare neanche uno strumento.
Anche gli altri brani dell’album sono nati da input simili?
Gli altri erano un miscuglio di cose diverse, soprattutto la necessità di fare altra musica e staccarmi da tutto. Ho perso un sacco di tempo dal punto di vista lavorativo: nel circuito dance, da cui venivo, facevo sentire le tracce, ma non sapevano dove metterle. Quindi, dopo diverso tempo, ho deciso di fare una mia etichetta per farle uscire, in modo da poter creare anche una sorta di percorso per far capire questa mia nuova dimensione musicale, piuttosto che fare uscire subito l’album.
Che strumenti hai utilizzato per la registrazione?
Bene o male sono gli strumenti che ho da sempre, che poi si sono rivelati giusti anche per quest’album:l’MS-20, che ho dai tempi dei MAT101, poi tutta roba analogica, Piano Rhodes, piano elettrico, chitarre, percussioni varie.
Qualcuno nuovo?
Sì, il Solina per fare gli archi, ma più o meno ho trovato la quadratura con questi strumenti qua. Ho abbandonato gli strumenti più electro, come tutte le robe Roland, e sono passato, ad esempio, al Moog, che ha già un suono più pop-rock.
Farai uscire solo le tue produzioni su Mondo?
No. Ci è uscita già roba di Mario Pierro, con il nick Rotla, poi c’è una band che si chiama Odeon: sono amici del Circeo che conosco da quando eravamo piccoli. Fanno musica da sempre e li ho subito introdotti nell’etichetta perché sono perfetti come suono, vengono dal beat, dal british pop, ma hanno un modo di suonare che ha sempre la colonna sonora all’interno. C’è anche il progetto che ho con Luminodisco, Studio 22. Oltre al mio album uscirà quello di Rotla e degli Odeon e cercheremo di far crescere l’etichetta. Anche con suoni aperti ad altre suggestioni. Siamo partiti dai primi quattro brani sul Circeo, il mio album approfondisce quel discorso là, ma già con gli Odeon si cambia: sarà un miscuglio new wave 80 assieme alla colonna sonora 70. C’è anche Polysick nell’etichetta, ha remixato un brano, Niagara.
Che rapporto c’è tra Edizioni Mondo e Running Back?
Gerd Janson (già a capo della label Running Back, nda) è socio di Edizioni Mondo, l’etichetta siamo io e lui. Io mi occupo della parte artistica e creativa, lui di tutta la parte di produzione. Stavo cercando da un po‘ finanziamenti per far partire il progetto, un giorno lui stava in studio da me, ha sentito qualche traccia e mi ha chiesto quando iniziassi a farla uscire. Io gli ho risposto che non avevo soldi, lui ci ha pensato un po‘ e poi mi ha proposto di produrla in prima persona, entrando in società. Ovviamente ho accettato subito. Anche perché c’è il problema delle stamperie. Con la crisi del vinile tante stamperie hanno chiuso, quindi ne sono rimaste pochissime, ora che la richiesta è aumentata c’è una fila interminabile. Se arrivi dal nulla è capace che ci metti tanto a far stampare un disco, se lo fa una persona che già è nel sistema e stampa 15-20 dischi l’anno sei già dentro il meccanismo. Se avessi voluto fare Edizioni Mondo da solo c’avrei messo più tempo e più soldi.
Uscirete solo su vinile?
No, anche cd. E penso anche digitale.
Il nome dell’etichetta si ispira inequivocabilmente ai Mondo movie: sei un appassionato di questo genere?
Sì, c’è stato un periodo che vedevo solo quelli. Discorso documentaristico, anche pop, senza regole. Poi sono arrivate anche là, infatti dopo un po‘ sono diventati noiosi, andando a cercare qualsiasi cosa creasse scalpore.
Ti piacciono anche le colonne sonore di questi film?
Sì, certo. Quella di Mondo cane sicuramente, poi altre cose di Giombini.
Sono difficili da trovare?
Dipende, Mondo cane la trovi in qualsiasi formato. Africa addio anche si trova. Altre invece sono molto difficili da recuperare.
I tuoi Mondo preferiti?
Beh, il primo Mondo cane da ragazzino mi ha sconvolto. Che poi era la tecnica di come si faceva la cronaca nei telegiornali. Loro furono furbi facendo questo film strutturato come si faceva la cronaca, con la voce fuori campo, un po‘ ironica. A tratti ti diverte a tratti è distruttivo.
Qual è la tua colonna sonora preferita in assoluto?
Me ne viene in mente una perché ci ho un messo un po a trovarla: Tentacoli, di Cipriani, Da piccolo ero impazzito più per la musica che per il film. Il film è una sorta di versione italiana de Lo squalo, ma con la piovra. Quando ho trovato la musica ho fatto festa. Una colonna sonora molto mare, quando c’è Cipriani c’è sempre mare, o inverno torinese, nebbioso. C’è anche la colonna sonora di Triangolo delle Bermuda che ha un pezzo disco pazzesco.
Dove si registravano queste colonne sonore?
Qui a Roma. Molte negli studi Rai. Ci sono poi un paio di studi esterni, ma ora sono inaccessibili, hanno costi troppo alti. Prima i dischi si producevano tutti con costi alti, anche sul più piccolo 20 milioni ce li mettevano. Anche la roba sconosciuta, quella che ha venduto poco, nel disco ha gli archi, l’orchestra. Quei posti poi lavoravano tantissimo: facevano delle produzioni giganti e poi nei buchi facevano le cose minori, che costavano quindi un po‘ meno. Anche nel cinema era così: Bava utilizzava Cinecittà quando finivano di girare un colossal, stessa cosa per gli studi. Anche gli studi Rai erano potentissimi, dovevano fare colonne sonore, library, dischi, sigle. Per quello il suono è tutto bello o anche i film minori erano belli: i montatori erano due, lo stesso montatore che aveva Sergio Leone faceva anche Macchie solari, un film da due lire. Gli operatori erano gli stessi. Oggi non si usa tutta l’attrezzatura di una volta, per cui se vai a registrare in quegli studi ti massacrano (economicamente).
Vedi più film o ascolti più musica?
Dipende dai periodi, ho avuto quello tanto cinema e poca musica e quello inverso. Ora, ad esempio, sto vedendo La famiglia Bradford, tutte la stagioni. Sto in fissa. Nella puntata numero zero ci sta quello di Star Wars (Mark Hamill, nda), poi l’ha chiamato Lucas. Ho aperto ’sto canale, in streaming, e ho trovate tutte le puntate e mo le finisco.
Hai già un secondo album per il progetto L.U.C.A.?
Sì, già c’è, la grossa parte già c’è. Ho fatto tantissime tracce in questi anni, alcune le ho accorpate nel primo, quelle con un suono diverso andranno nel secondo.
La copertina l’hai scelta tu?
Si l’ho scelta io, mi sono rifatto a quei dischi che incidevano per il Vaticano, dischi cristiani un po‘ mistici. Anche i titoli li ho presi da là. C’è del misticismo voluto, quasi „fascio“, figurati che c’è un brano che si chiama Nuovo Ordine… Equilibrio….
Che tipo di canzoni c’erano in questi dischi?
Spesso beat. Alcuni brani sono anche fichi, ma dicono sempre cose tipo „Gesù è il tuo cammino“. Tipo i primi Pooh, anche più acidi e psichedelici. In quegli anni era tutta musica fica, anche quella cristiana. Un discorso di misticismo cristiano era perfetto con il discorso natura de I semi del futuro. Alcuni pezzi dell’album sono volutamente un po‘ „catechismo“, quindi anche l’estetica è un po‘ quella là.
Ti confesso che dai colori della copertina ci si aspetta qualcosa diverso?
Tipo?
Beh, dal nero e dal giallo non mi aspetto natura…
Be sì, ma questa è natura sofferente. Il primo pezzo, In principio, parla di un vulcano che erutta e distrugge la terra, poi acqua, inondazioni, ripristino di tutto quanto. Il discorso è quello, la natura e la vita comunque nascono da un disastro: eruzioni, esplosioni, inondazioni. La natura è super violenta, il discorso estetico è proprio quello: la natura come guerra continua. Anche il testo parla di questo, de ’sto vulcano che esplode. Il secondo album sarà meno natura, mi sa che passo a un discorso new age americano anni 80. Setta, coi cristalli e i prismi. Tipo Scientology, un concetto estetico di quel tipo là: piramidale, con tutti vestiti di bianco. E un suono meno catechismo.