Prendere a calci la storia, fare a pezzi i codici e i linguaggi „dei padri“, finire puntualmente a scazzottate con l’osservatore. In questo senso la pittura di Leonardo Crudi è pura avanguardia: una potenza anche fisica che esce letteralmente dal foglio o dal muro, stordendo l’interlocutore e costringendolo a pensare; una riconoscibilità che non ha uguali al momento a Roma (e probabilmente anche a fuori); una provocazione lucida, precisa, radicale, pensata per trasformarsi il prima possibile in azione. Eppure, ciò che rende oggi la pittura di Leonardo Crudi davvero audace e innovativa, non è tanto l’essere forma espressiva che si fa avanguardia in termini estetici nella capacità di mettere in dialogo forme artistiche diverse (pittura, cinema, fotografia), il rifiuto dei modelli tradizionali, l’impatto quasi violento delle sue immagini o l’evidente ricerca che c’è dietro ogni suo lavoro. Nel 2021, il suo lavoro può essere considerato „avanguardia“ per una questione etica ancor prima che estetica. Di attitudine prima che di talento. Fuori dall’accademia e da ogni tipo di intellettualismo, nella pittura di Leonardo Crudi concetti come coerenza e rispetto, studio del contesto, responsabilità sociale dell’artista si liberano da sovrastrutture astratte e boriose per farsi azione concreta, per innescare una reazione, per interagire e trasformare la realtà.
Il senso di quello che diciamo sta tutto nelle parole che seguono – intercettate tra i numerosi lavori che lo hanno visto impegnato tra marzo e aprile – dove a un certo rigore di pensiero corrisponde una spiccata refrattarietà al compromesso e all’autocompiacimento. L’espressione più recente ed eclatante di questo percorso è stata la „liberazione“ della Piazza dell’Immacolata a vantaggio dei più piccoli con „l’opera orizzontale“ Fantasia in Piazza a San Lorenzo (che verrà ufficialmente inaugurata a breve), inserita in un discorso di condivisione e ripensamento degli spazi comuni e in una visione della città più rispettosa delle esigenze di tutti. Prima e dopo, si sono aggiunte una serie di opere murarie realizzate su commissione in vari quartieri di Roma – due all’interno dell’VIII Municipio nell’ambito del progetto Cantieri San Paolo – e dal 15 aprile Leonardo sarà protagonista della sua prima personale al Contemporary Cluster, una ricerca sul cinema underground, d’avanguardia e sperimentale italiano intitolata „Cinepugno“. Unire i puntini tra pensiero e azione non è stato mai così facile.
Tutto il tuo lavoro ha come riferimenti e soggetti realtà e figure di nicchia, un metodo che unisce la ricerca e l'approfondimento su più piani artistici a un'attitudine totalmente underground e non allineata. Quando hai cominciato ad appassionarti alla pittura e alle immagini e in che rapporto sei con le sottoculture romane?
Ho cominciato a fare graffiti abbastanza presto, a dodici/tredici anni, tra fine Novanta e primi Duemila, avvicinandomi a tutta quella sottocultura hip hop che a Roma è stata molto viva e che poi più avanti è andata a mescolarsi alla scena rave nel corso e per tutti i Duemila. Da piccolo, quando frequentavo le bische (risate, NdR) stavo a Ponte Lanciani; poi ho iniziato a frequentare il quartiere Africano e sono entrato in contatto con tanti personaggi che in quegli anni facevano rap a Roma, tutto il giro del Quarto Blocco in particolare. Diciamo che non mi sono fatto mancare nulla, ho attraversato trasversalmente vari contesti romani con tutti i loro vizi e virtù e l’apice di questa serie di esperienze e di questo stile di vita piuttosto estremo è arrivato con “NEFASTO: Er mostro di zona”, film/documentario che raccontava della vita di eccessi di un writer romano. Quel writer ero io. Quella fu la chiusura di tutto un percorso di vita che ho avuto a partire dai quindici/sedici anni e fino all’uscita del documentario nel 2012. Un racconto di quello che stava succedendo a Roma – anche estremizzando in maniera critica quello che avevo vissuto nella post adolescenza – dal punto di vista di una persona non senza problemi, in un periodo in cui il rap entrava nei rave e la droga nei graffiti.
Che ruolo ha avuto questo film rispetto a quello che avresti fatto dopo?
„Nefasto“ chiude il periodo della post adolescenza. Per due motivi: uno è l’arrivo di mio figlio, che sarebbe nato di lì a breve, l’altro è la necessità personale di cambiare modus vivendi e obiettivi, di cercare di fermarmi un attimo e dare una forma un più pragmatica ai miei interessi. Da lì nasce il mio percorso di formazione personale, non solo estetico ma anche culturale. Ad esempio inizio a fare politica, cosa che faccio ancora. Da quando ho cominciato ho gravitato in vari partiti comunisti, ora da un po‘ di tempo collaboro con i ragazzi che erano prima parte del Partito Comunista e che poi in seguito si è distaccato e si è dato il nome Fronte della Gioventù Comunista. Per loro ho recentemente realizzato il manifesto per il centenario del Partito Comunista Italiano.
I graffiti, la politica, il cinema d'avanguardia e la fotografia connotano il tuo metodo di lavoro in maniera molto contaminata, rendendolo attualmente unico e riconoscibile, almeno a Roma. Quali sono stati i passaggi, gli interessi, gli elementi fondamentali di questo percorso artistico?
Il percorso è abbastanza semplice, a partire dal fatto che ho la terza media e non ho fatto studi specifici. Ma fin da giovane avevo una grande passione per le immagini e in particolare per il cinema. Quando ho posizionato una lente di ingrandimento su quello che stavo vedendo ne è scaturita una ricerca infinita che continua tutt’ora. Dal cinema, in maniera politica, mi sono avvicinato prima di tutto al cinema neorealista e piano piano sono arrivato al cinema sperimentale italiano, il cosiddetto “cinema underground”, e ho scoperto che in questo contesto, dai libri alle interviste, tutti citavano i vari Dziva Vertov o Sergej Ėjzenštejn. Quindi ho cominciato ad approfondire il cinema d’avanguardia russo dei primi del Novecento, avvicinandomi anche ad altre correnti artistiche – poesia e pittura soprattutto – di quel breve periodo: perché come sappiamo, una volta morto Lenin, Stalin fece tornare tutto come alla fine dell’Ottocento strozzando le correnti avanguardistiche e rivoluzionarie nate in quel frangente, si tratta di artisti attivi tra i 25 e i 30 anni. Da lì è partita la mia contaminazione con quello che sarebbe stato un percorso più vicino a me, sia dal punto di vista geografico sia temporale. In generale, tutte le cose che affronto con la pittura hanno sempre fatto parte di una nicchia che a partire dai dadaisti viene denominata “underground”. Le poche nozioni che avevo di pittura e di arte non erano certamente classiche: mi piaceva la scuola romana di Piazza del Popolo e anche lì, invece di prendere come riferimento i più conosciuti, come ad esempio Mario Schifano, mi sono fermato su Renato Mambor, che a mio avviso rimane l’artista più bravo della scuola romana, e che lavorava un po‘ come faccio io, chiaramente in maniera personale e diversa. Quindi sempre con una forte commistione tra l’astrazione della geometria, il colore piatto, e le forme umane che derivano da tantissime contaminazioni: oltre al cinema, amo molto anche la fotografia sperimentale e futurista, il fotodinamismo, le sovrapposizioni di pellicola; quasi sempre i volti che disegno sono segmentati, sovrapposti, spezzati, connotati da giochi negativo/positivo. E poi, usando la penna come strumento fondamentale per disegnare, questo sapore di fotografia analogica resta, la tecnica che uso – vignette realizzate con una penna molto fine, linee verticali sviluppate l’una vicina all’altra – restituisce questo sapore della fotografia del Novecento o della pellicola sempre di quel periodo, un po‘ sporca e offuscata. Per quanto riguarda la parte geometrica c’è un forte richiamo al suprematismo e al costruttivismo, a quel periodo che ha annientato un po‘ la forma umana e l’ha sostituita con quest’altra tipologia di dialettica e io provo a far funzionare queste cose insieme. Per quanto riguarda il colore, viene tutto dai graffiti: il modo in cui lo scelgo, le coppie di colore, le gradazioni, le scale, sono tutto il bagaglio che mi torna utile da quando facevo i graffiti da ragazzo. Cerco di creare un’armonia tra il colore spento della penna e il resto, il mio lavoro è molto grafico quindi provo anche a far coesistere le lettere con i volti, e in tal senso il colore è inevitabilmente una parte importante perchè ha il compito di cullare tutte queste cose che devono esistere contemporaneamente, che devono in qualche essere eleganti.
Nelle tue opere è evidente la connessione forte con la politica, ma anche l'esigenza di veicolare un messaggio che non sia fine a se stesso. La politica come inserisce nella tua visione di pittore ma anche di essere umano? Il periodo storico molto complesso che stiamo vivendo rende ancora più necessaria la scelta di fare politica attraverso l'arte in maniera non didascalica?
Come diceva Godard, non fare politica è già un atto politico. Il modo in cui mi esprimo è ovviamente fortemente politico, prima di tutto perchè faccio nel mio piccolo un atto divulgativo, riportando in auge o all’attenzione periodi, personaggi, correnti culturali meno conosciute. Il secondo aspetto è legato al fatto che le persone e i periodi che scelgo di sottolineare hanno una forte connotazione politica. D’altra parte penso che in questo periodo storico sia necessario mettere un cappello politico all’arte, in tutte le sue forme – scrittura, pittura, musica. La cosa che ora va di più è la street art e purtroppo la street art tratta la politica in maniera un po‘ stereotipata. Faccio un esempio: il bacio tra Salvini e Di Maio quando nacque il governo giallo verde l’ho trovato estremamente reazionario, poco rilevante, fine a se stesso. Il fine di quel disegno era finire sui giornali, non molto di più. È solo un esempio, cose del genere esistono in moltissimi campi artistici, non è solo colpa della street art. Per avere visibilità, in generale i giovani che dovrebbero fare la rivoluzione spesso sono costretti ad emulare artisti con venti anni di più, un meccanismo che succede molto anche nel cinema. Vedere un film di un regista di 30 anni e trovare delle similitudini con il cinema di Sorrentino mi mette estrema tristezza, perchè lui in realtà dovrebbe distruggere il linguaggio di Sorrentino e non emularlo. Adesso come non mai c’è bisogno di qualcosa di necessariamente politico. Io ne faccio un discorso anche etico e morale, nel mio piccolo cerco di fare politica in questo modo, provando a incuriosire le persone a un modo di pensare che non è quello attuale e dominante.
Tutti i tuoi lavori hanno questa connotazione/orizzonte grafico e politico che descrivi. Per San Lorenzo, però, hai recentemente realizzato un'opera nella Piazza dell'Immacolata che si discosta da tutto quello che hai fatto, per resa e per “target di riferimento”, ma che ha un'anima sociale e politica altrettanto importante e riconoscibile, a partire dal luogo in cui è stata realizzata.
La grande differenza tra “Fantasia in piazza” a San Lorenzo e il mio modo abituale di lavorare è che in genere cerco di essere iconografico e iconoclasta allo stesso tempo, di sottolineare le immagini però in qualche modo distruggendole. Il lavoro nella piazza dell’Immacolata è stato totalmente diverso, in primo luogo perchè si rivolge a un pubblico totalmente diverso – è un’opera dedicata ai bambini – e quindi ho dovuto un po‘ ammorbidire la mia dialettica: con i colori sul pastello, le forme geometriche semplici – non semplici da fare, ma semplici da interpretare. Il progetto finale è far leggere la piazza ai bambini, scatenare la loro fantasia in base a queste forme e fargli inventare dei giochi, quindi ho cercato di rendere il più leggibile possibile la composizione grafica e cromatica del lavoro finale.
Come è nato questo progetto e in che rapporto sei con il quartiere?
Il lavoro e la collaborazione su San Lorenzo è nata in maniera piuttosto spontanea perchè le associazioni che hanno partecipato e vinto il bando – quelle della Libera Repubblica di San Lorenzo, di cui fanno parte anche il Cinema Palazzo e l’Atletico San Lorenzo – sono composte da persone che conosco bene da anni: la rete di San Lorenzo è fitta ma molto familiare. Abbiamo deciso insieme di partecipare a questo bando, vicendolo, e abbiamo fatto un discorso che considero fondamentale quando si interviene su un territorio: abbiamo lavorato in base alle informazioni che avevamo da persone che vivono il quartiere e che ne conoscono le problematiche. Non lo vivo con impegno in prima persona come le realtà che compongono la Libera Repubblica di San Lorenzo, e negli anni sono stato letteralmente un nomade attraverso Roma abitando in zone diverse, ma San Lorenzo resta un quartiere a cui sono molto legato: mio figlio va a scuola lì, fino a due anni fa il mio studio era lì, la mia ex compagna abita lì, il mio secondo studio di tatuaggi era a San Lorenzo. È un quartiere che conosco, che ho vissuto e abbiamo cercato di lavorare in base a quello che era il territorio e a quello che noi volevamo che fosse un nuovo aspetto del territorio, anche in termini di vivibilità ed esperienze.
Da poco meno di un anno sei stato chiamato a “riqualificare” e arricchire alcuni territori attraverso le immagini, incluso questo di San Lorenzo ma anche a Casal Bernocchi, Garbatella, Viale Marconi e poi Roma 70, con opere murarie sempre molto coerenti con la tua ricerca. Sono tutti lavori che per la zona in cui si trovano o per i soggetti scelti hanno una connotazione sociale e politica evidente. Come ti sei trovato in queste esperienze e come vedi l'uso della street art per la riqualificazione urbana dei quartieri, in particolare se periferici?
Questo percorso che ho intrapreso è attualmente ancora breve: il primo muro che mi hanno chiesto di fare è stato Pasolini e “Mamma Roma” nell’estate 2020 a Casal Bernocchi, da lì sono stato chiamato per altri lavori ma sempre coerenti con il mio linguaggio e le mie scelte. Anche a Garbatella sono stato chiamato per fare Victor Cavallo, personaggio che ho trattato per più di un anno insieme ad altri poeti più o meno dimenticati di quell’epoca lì. Da questo punto di vista non so se sono stato più fortunato o coerente nel mio percorso, le proposte che ho ricevuto erano in linea con la mia visione. Il discorso è che non sono molto d’accordo con la riqualificazione urbana attraverso la street art per più motivi. O meglio: se si interviene in un quartiere – tanto più se periferico e con molte problematiche – non dico certo che non vada fatta arte e cultura, ci mancherebbe. Ma il punto centrale è il modo in cui si dovrebbero trattare queste tematiche in questi contesti: troppo spesso si usa eccessiva leggerezza nella scelta dei soggetti e degli spazi, e questo non fa bene né al quartiere, né agli artisti, né a chi il quartiere lo andrà a visitare magari solo per vedere queste opere. Rispetto a questo tema mi sento piuttosto di sollevare dei quesiti, mi sento di dire: confrontiamoci su queste iniziative e cerchiamo di fare meno danni possibile. Ad esempio, molti street artist sono soliti riprodurre alcuni loghi o facce che li rendono magari riconoscibili, ma se tu vai in una periferia romana per un lavoro di questo tipo è come se ti stessi imponendo sul quartiere e su chi ci vive. E quando ci si „impone“ su un territorio è necessario prendere in considerazione una serie infinita di fattori legati a quel contesto, fattori che spesso non mi pare vengano contemplati. Se mi chiamassero per un murales senza darmi delle indicazioni, per come lavoro mi sentirei piacevolmente costretto a fare uno studio non solo sull’immagine che andrò a riprodurre, ma anche e soprattutto sul contesto che la accoglierà. Vado lì per cercare una connessione etica – oltre che estetica – con il territorio che ho attorno. Questo è il mio modo di vivere opere di questo genere, non dico che sia giusto in assoluto ma per me è sicuramente necessario.
Uno degli ultimi lavori che hai realizzato è quello nell'ambito di Cantieri San Paolo al l'Istituto Cine e TV Roberto Rossellini, che hai realizzato con Elia Novecento. Insieme avete dato vita ormai da tempo a Collettivo 900, ce ne parli?
Ho fondato questo Collettivo con i miei amici di infanzia, con le persone con cui ho condiviso tutta la vita, ragazzi che conosco da almeno 20 anni. Abbiamo iniziato con i graffiti, ci siamo tutti evoluti e abbiamo fatto altre cose ma restiamo legati oltre che dall’amicizia anche da un modo simile di vedere l’arte e la divulgazione. Uno è Elia Novecento, che dipinge con me; poi c’è Giacomo Falciani, che fa musica sperimentale e colonne sonore, con cui collaboro sempre quando faccio film e video e che sarà presente anche alla mostra al Contemporary Cluster in arrivo a metà aprile. Infine c’è Giovanni Argan, che è i mio curatore ed è l’anello di congiunzione con la Russia: lui è ricercatore in Storia dell’Arte Russa all’Università di Venezia ed è la persona con cui continuamente mi confronto, scambio idee, libri e informazioni varie – da veri nostalgici quali siamo! Il Collettivo esiste ormai da un lungo periodo indefinito: ha cambiato nome nel tempo, da ragazzini quando facevamo graffiti ci chiamavamo “Push Style”, poi chiaramente abbiamo sentito l’esigenza di evolverci e trovarci un altro nome…
Il prossimo appuntamento, imminente, è con la personale “Cinepugno” al Contemporary Cluster. Di che si tratta?
La mostra, curata da Giacomo Guidi, è la chiusura del lavoro fatto sul cinema underground italiano, cominciato nel 2017; un progetto di arte urbana dedicato ai film underground italiani degli anni Sessanta e Settanta di cui non sono mai state realizzate le locandine, con manifesti sparsi sui muri della città. Nella mostra ci saranno tutti nuovi disegni: il primo passo del lavoro è stata la ricerca anche fisica di questi film, quindi mi sono ritrovato a scrivere email agli ultimi registi viventi attraverso passaggi improbabili o a fare ricerche capillari su internet. Il nocciolo del discorso è dare un’immagine che la maggior parte dei film non avevano per questioni di distribuzione, di mercato, o di volontà, a seconda del regista; film/mediometraggi/cortometraggi o film d’autore, con l’idea di avvicinarli a un pubblico più ampio. La mostra si chiama “Cinepugno” perché camminare per strada e vedere film e manifesti con questa estetica è un po‘ fuori dall’immaginario europeo e romano. Letteralmente un pugno in faccia. L’idea è quella di percorrere lo stesso percorso che ho fatto io nel cinema underground: parto da quelli più conosciuti o almeno meno scomparsi – da Caligari a Carmelo Bene – per poi addentrarmi in un sottobosco piuttosto vasto con nomi che magari hanno fatto solo un film o film proiettati solo nei cinema d’essai. Nell’ambito della mostra, dopo l’inaugurazione, ci sarà anche un evento nell’evento con Giacomo Falciani che musicherà dal vivo tre cortometraggi.