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Ilaria Bonacossa

Chi è la direttrice di Artissima

Geschrieben von Lucia Tozzi il 7 Dezember 2016
Aggiornato il 20 Februar 2017

Foto di Anna Positano

Ci sono curatori che non fanno altro che mettersi in mostra, ingigantendo il proprio ruolo. Alcuni se potessero oscurerebbero artisti e opere per fare capire bene a tutti chi è la vera star. Ilaria Bonacossa si trova sul fronte opposto: all’incontro per la mostra L’apparenza di ciò che non si vede di Armin Linke  minimizza con un inusuale senso della sprezzatura: «In questo caso il mio ruolo come curatore è essenzialmente quello di facilitatore. Armin lavora sul progetto già da due anni con il suo team, tra cui Linda Van Deursen, una grafica olandese fenomenale che segue l’immagine dello Stedelijck e della prossima Documenta, oltre ad insegnare graphic design a Yale. Non è che io abbia scelto le foto o cambiato l’impostazione della mostra: ho protetto la macchina, ho tutelato la qualità artistica in tutti i passaggi». Direttore artistico da più di quattro anni al Museo di Villa Croce a Genova, dove alterna grandi monografiche di artisti italiani e stranieri a un’attività di costante ricerca e collaborazione con gli artisti, editori e collezionisti presenti sul territorio, Ilaria ha da poco iniziato a collaborare con la Fondazione La Raia, nelle colline del Gavi, all’incrocio tra la Torino dei suoi esordi (Ilaria si era trovata nel ciclone Bonami-Sandretto Re Rebaudengo) e la terra ligure.

Armin Linke, L'apparenza di ciò che non si vede, PAC
Armin Linke, L’apparenza di ciò che non si vede, PAC

ZERO: Nel 2014 sei entrata a fare parte del comitato scientifico del PAC coordinato da Torrigiani (mandato terminato a fine 2015). È un’istituzione complessa, di cui dall’esterno non si capisce mai bene chi è il responsabile in carica. Come ci hai lavorato? Sei riuscita a portare tutte le mostre e i contenuti che avevi pensato o sperato insieme agli altri del comitato?
Ilaria Bonacossa:
Il PAC mi piace, è uno spazio straordinario per ospitare mostre, anche se non è possibile fare una programmazione molto intensa: il calendario delle sfilate di TODS, che esigono che la struttura sia vuota, la occupano per periodi brevi, ma costringono ad aprire le mostre un po’ fuori tempo, soprattutto quella di luglio. Comunque, tra le mostre che abbiamo promosso, in particolare quella di Superstudio secondo me ha funzionato bene: la sua natura non filologica, l’apertura alle arti – perché volevamo mostrare Superstudio come l’ultima avanguardia, con le sue filiazioni, e non come un passaggio disciplinare – ha portato un pubblico molto ampio al PAC.

Super Superstudio, PAC, 2015
Super Superstudio, PAC, 2015

Perché hai scelto Armin Linke, e come avete costruito questa mostra?
Questa è l’ultima mostra che abbiamo votato e approvato. Nasceva a ZKM, l’abbiamo vista e abbiamo scelto di portarlo. Armin è un grande artista internazionale ma è pure milanese, e come Glitch o Superstudio intercetta pubblici diversi. Poi con Armin avevo già lavorato, fin dai tempi della Sandretto quando faceva Alpi, ho visto a suo tempo la mostra sul G8 da De Carlo.

Armin Linke, L'apparenza di ciò che non si vede, PAC
Armin Linke, L’apparenza di ciò che non si vede, PAC

L’allestimento sembra interrogare anche lo stato della fotografia contemporanea. Le foto non sono più oggetti puramente fisici, ma esistono in modo virtuale e artificiale, si perde totalmente il controllo di come saranno fruite: per questo qui si è scelto di obbligare al confronto con un oggetto fisico. Anche il fatto che i pannelli bianchi magari coprono un pezzo della foto retrostante ricorda il modo in cui guardiamo la foto sullo schermo del computer: magari ci da fastidio, vorremmo spostare il pannello. Qui è uno stimolo a guardare, mentre sul desktop vogliamo chiuderle, producono frustrazione. Le didascalie narrative hanno un numero di archivio, era importante dare la sensazione di come le foto provengano da un archivio, da altri progetti. In fondo è una specie di retrospettiva, solo che invece di scegliere le foto più belle si sono privilegiati i saperi, per raccontare la complessità del mondo: la visione di un unico soggetto, sia pure l’autore, non è sufficiente, quindi la lettura multipla aiuta a rendere la complessità di un’immagine e dell’opera di Armin in generale. In qualche modo siamo tutti diventati photo editor, veniamo a tal punto bombardati di immagini che siamo abituati a mappare, a pensare dove l’abbiamo già visto, a trovare l’equivalente.
Quello che mi piace di Armin è che però, nonostante la teoria, lui è intriso di cultura visiva, le sue foto senza che neanche lui ci pensi sono belle, hanno una composizione eccezionale. Non scatta come un fotoreporter, nonostante il substrato intellettuale scatta come un artista. I collezionisti vedono queste foto e le comprano, anche in parte infischiandosene di quello che rappresentano, della loro storia.

A proposito, ma come vende le foto?
Il gallerista di Berlino ha chiuso, e in Italia lavora solo con la Benedetta Spalletti a Pescara.

Ma con De Carlo non ha più niente a che fare?
Lui lavorava con lo Studio Massimo De Carlo, che era sostanzialmente la Paola Clerico.

Aldo Mondino, Moderno Post-moderno Contemporaneo, Villa Croce
Aldo Mondino, Moderno Post-moderno Contemporaneo, Villa Croce (qui una delle opere in città, sullo sfondo di Palazzo Reale

E Aldo Mondino a Villa Croce come sta andando? Come risponde la gente a questa incursione negli spazi urbani della città?
Molto bene: Genova è una città in crisi economica, senza fondi, come il mio museo, e quindi non sempre è facile organizzare eventi potenti, ma la gente è molto interessata all’arte contemporanea. In più per le dimensioni si riesce a costruire una mostra disseminata per la città che si può interamente girare in tempi ragionevoli, cosa che risulterebbe difficile a Roma o Milano. Funziona bene.

Jackie Saccoccio - Portrait Gallery, Villa Croce, 2014
Jackie Saccoccio – Portrait Gallery, Villa Croce, 2014

Tu come ti trovi in quel contesto?
Adoro Genova, mi sarei trasferita volentieri con la mia famiglia, ma purtroppo mio marito non avrebbe lavoro là: e quindi faccio la pendolare. La differenza di tono si sente rispetto a Milano, naturalmente, ma la continuità di questi anni a Villa Croce mi ha dato l’opportunità di costruire un rapporto abbastanza solido con i genovesi, che ora guardano molto di più ai nostri programmi. Abbiamo un ritmo piuttosto serrato, facciamo 4 mostre  principali e almeno tre più piccole.

Ilaria-bonacossa-milano-genova

Beh, hai portato degli artisti di grande qualità, da Susan Philipsz a Saraceno, a Grünfeld, e poi i giovani, le eccellenze editoriali come plug_in… È un museo molto seguito anche da Milano, Torino, dal resto d’Italia. Che programmi avete per il futuro prossimo?
Dopo Mondino abbiamo Alessandro Roma, che ha lavorato tra l’Italia e Londra e poi ha passato un periodo ad Albisola nei laboratori di ceramica, e poi a febbraio di nuovo un’incursione nel design con Joseph Grima: una personale di Cesare Leonardi, personaggio eclettico di Modena. I suoi mobili sono al MOMA, ma in generale è una figura ancora poco conosciuta al di fuori del giro degli specialisti. I suoi progetti di design e architettura sono bellissimi, ma quello che è eccezionale nella sua produzione è l’uso concomitante di tutti i media. Le sue sculture, i dipinti, le sperimentazioni fotografiche, i libri come L’architettura degli alberi sono belle e importanti quanto gli oggetti, e noi porteremo soprattutto quelli, i progetti concettuali, le catalogazioni, le serie fotografiche.

Mark Handforth, Smoke, Villa Croce, 2016
Mark Handforth, Smoke, Villa Croce, 2016

Stavo proprio per domandarti quando hai conosciuto Joseph, visto che di base sta a Genova (di base è una parola grossa, lui non sta fermo un attimo).
L’avevo conosciuto molto superficialmente anni fa, ma è a Genova che ci siamo veramente incrociati, anche se paradossalmente ci sto più io che lui: in questi anni ci sono state brevi incursioni sue e di Space Caviar a Villa Croce, poi lui mi ha proposto Cesare Leonardi ed è nata l’idea della mostra.
Dopo Leonardi, Anna Daneri cura una mostra di dialogo tra artisti giovani e artisti della collezione, che è anche uno dei modi migliori per esporre i giovani, visto che purtroppo le personali non sono sostenibili per un’istituzione come questa.

E a Genova hai stretto relazioni con altre istituzioni o gallerie?
Da poco ho avuto un progetto di consulenza per la Fondazione La Raia, un posto bellissimo nelle colline del Gavi, che prima era seguita da Frank Boehm. Negli anni scorsi hanno installato dei progetti site specific di Remo Salvadori e Koo Jeong A.

Fondazione La Raia, Koo Jeong A.
Fondazione La Raia, Koo Jeong A.

Non ti voglio fare le solite domande sul periodo in cui hai lavorato con la Sandretto e Bonami, perché ormai ti saranno venute a noia, ma come li vedi oggi? Secondo te quali sono le tracce visibili nel sistema dell’arte contemporanea adesso? Perché forse dieci anni fa erano più leggibili
Beh, prima di tutto direi che forse non esisterebbe neanche l’Hangar Bicocca senza la Sandretto. Prada è un’altra storia, ma l’Hangar è molto simile come modello. Lei ha questa capacità incredibile di non mollare mai, continua a intercettare ogni evento che capita in città, a tentare di valorizzarlo. Non è scontato, a distanza di tanti anni. Avrebbe potuto stancarsi, fare altro, e invece è sempre lì a costruire queste reti immense di rapporti, forse dovrebbe essere assessore ormai. A me pare che ci sia una coincidenza molto forte tra un momento in cui gli artisti italiani cominciavano ad andare all’estero, ad acquisire una visibilità internazionale, e la nascita della Fondazione Sandretto con Bonami. Dopo anni di intimità, chiusura, in cui l’artista quasi si nascondeva, all’apoteosi di Cattelan, Beecroft, e altri che magari non sono più di moda, però hanno cambiato il segno. Dagli storici dell’arte all’attrazione dei grandi curatori internazionali. Siamo un po’ tutti figli di questa rivoluzione: io ad esempio mi considero un curatore, ragiono per mostre, non per libri. La storia dell’arte l’ho studiata, ma mi muovo in un modo diverso.

Beh, da questo punto di vista mi pare che siamo passati a uno stadio successivo: oggi tutti sono curatori, gli artisti, i giornalisti, gli architetti. Anzi, volevo chiederti: che impressione ti fa la proliferazione incredibile di spazi indipendenti a Milano, a Torino e in altre città?
Naturalmente è un fatto positivo, è un segno di grande energia che alcuni anni fa non c’era. Un po’ è anche una risposta a una crisi, le istituzioni sono meno attive e quindi o fai tu o non fai niente. Però io la vedo anche dall’altra parte, e di fronte a questo fermento mi pare che ci sia una difficoltà enorme a inserire giovani anche competenti nel mondo del lavoro reale, quello retribuito. Mi domando come si può sostenere questa circolazione di idee, azioni, comunicazione culturale senza un’economia. Questa è un’anomalia italiana.

Come ti sembra in questo frangente il confronto Torino – Milano?
Torino secondo me è un po’ in crisi. È anche normale, non è facile per una città mantenere a lungo un ruolo accentratore della cultura. Il periodo d’oro di Rivoli, Sandretto, eccetera, è alle spalle. Però le basi sono più solide, anche perché hanno ancora Compagnia di San Paolo e CRT che versano milioni ogni anno nella cultura, mentre a Milano le fondazioni bancarie investono più nel sociale e i privati investono nel proprio progetto. Invece Torino è un posto dove se hai un buon progetto sei sicuro che il finanziamento lo trovi. Lì c’è una capacità di interagire con le istituzioni, a Milano se Miuccia decidesse di spostarsi potrebbe farlo senza lasciare la minima traccia.

A Milano riesci a seguire la scena?
Seguo molto i curatori giovanissimi, e poi mi documento molto via internet sulle mostre e gli eventi anche piccolissimi. Non riesco assolutamente ad andare a tutti gli opening.

E Casa Bonacossa invece?
In realtà non è un progetto mio, ma di Paola Clerico, con cui lavoro e ho lavorato molto. Noi dal 2009 abbiamo la società Art At Work, che fa arte contemporanea profit e no profit, committenza sia privata che pubblica, in luoghi sempre diversi. Prima eravamo di più mentre ora siamo solo noi due più una persona più giovane che ci dà una mano. Negli ultimi anni io sono un po’ troppo presa mentre Paola ha lanciato questo progetto Case chiuse di cui abbiamo molto discusso: perché è vero che vedere l’arte fuori dalle gallerie offre una chance di suscitare reazioni completamente diverse nelle persone, anche le più estranee al mondo dell’arte. Utilizzare una casa privata ti permette di astrarti leggermente dalle dinamiche di mercato. Finora ne ha fatte tre, di fatto è a cura sua, discutiamo degli artisti ma lo fa lei. Il mio contributo più rilevante fino ad ora è stato offrire la casa dei miei genitori col giardino per la mostra di Nico Vascellari – che poi mia mamma non mi ha parlato più per tre settimane.

Come si finanzia?
Con le vendite, se ci sono. Come tutto il no profit italiano, sta in quel limbo che non potendo ricorrere ai finanziamenti pubblici come negli altri paesi, ricorre al collezionismo. Per fortuna che c’è il collezionismo, è una boccata d’aria per chi non ha un magnate anonimo alle spalle (che però è raro).

Quali gallerie ti piacciono?
Sono una grande fan di Zero…, che ha un occhio eccezionale. Al di là di Massimo De Carlo c’è Francesca Kaufmann, che sta facendo delle mostre bellissime. Poi c’è Viasaterna, poi alle volte vado random, piuttosto che fidelizzarmi a un luogo: magari c’è una sorpresa incredibile da Cortina, o in posti meno noti.

Dove vai a mangiare e bere?
Adoro la pizza da Dry (pur senza mai avere collaborato artisticamente), poi c’è Cucchi, e da mamma di bimbi vado alle gelaterie, vicino Pagano c’è Amalo, con il gelato al risotto. Amo la Brisa, dove mi sono anche sposata.

E i libri dove li compri?
Alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, sotto casa