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Giuseppe Genna

L'anno scorso a Book City «ha partecipato al suo ultimo incontro dal vivo». Infatti quest'anno ci torna! La verità è che lo scrittore ed editor milanese non farà più presentazioni di libri, ci racconta in questa chiacchierata che spazia fra letteratura, editoria, immaginari collettivi e fascismo spontaneo

Geschrieben von Simone Muzza il 20 Oktober 2015
Aggiornato il 23 Januar 2017

È un onore poter intervistare Giuseppe Genna, a mio parere il miglior scrittore milanese vivente. Lo sento in occasione di Book City, dove giusto un anno fa Giuseppe «ha partecipato al suo ultimo incontro dal vivo», per farmi raccontare il perché di una tale decisione: una scusa per parlare di letteratura ed editoria, ma anche della sua Milano.
Oltre alla qualità dei suoi libri, al suo stile non convenzionale e alle sue storie che partono quasi sempre dall’esperienza personale, ho sempre amato la sua conoscenza e interpretazione della storia italiana degli ultimi 50 anni (ahimé, a scuola non te la insegnano, e dei giornali meglio tacere) e i suoi spunti e racconti su Milano, dove Genna è nato e vive tuttora.
Una volta sono riuscito a imbarazzarlo tantissimo solo perché alla presentazione del suo romanzo Assalto a un tempo devastato e vile 3.0 gli ho portato tutta la sua bibliografia da autografare: la cosa può sembrarvi superflua, ma è una bellissima fotografia del suo carattere. Ed è anche il motivo per cui non ha potuto negarci questa intervista, o almeno così mi piace pensare.

Zero – Cominciamo con un vezzo à la Marzullo: chi è Giuseppe Genna?
Giuseppe Genna: Rispondo adagiato e sonnambolico, come gli ospiti di Marzullo, allora. Sono un intellettuale milanese quarantacinquenne, che scrive e al momento lavora in editoria.

Come, quando e perché ti sei avvicinato alla scrittura?
Credo fosse il dicembre 1979 e sul neonato terzo canale Rai, dove si avvicendavano incredibili testimonianze della realtà italiana, vidi un documentario sull’insegnamento di un testo poetico a bambini disabili. Il maestro, specializzato in pedagogia di supporto, leggeva e ripeteva a loop un testo che mi lasciò senza fiato. Scoprii in seguito trattarsi di Felicità raggiunta, così come è conosciuta una lirica degli Ossi di seppia di Montale. Formulai istantaneamente il desiderio di scrivere sempre e solo poesia.

September 1972:  Italian poet Eugenio Montale, (1896 - 1981), at a flower show at Milan.  (Photo by Keystone/Getty Images)
Settembre 1972: Il poeta italiano Eugenio Montale (1896 – 1981), a una fiera di fiori di Milano. (Foto di Keystone/Getty Images)

C’è un romanzo/autore che ti ha fatto dire: «io voglio fare questo mestiere»? Perché?
Eugenio Montale mi sembrava allucinare se stesso e me con i testi del suo libro d’esordio. Mi pareva un’ipnosi senza trance, che argomentava per allusioni a una verità indicibile eppure pratica, concreta, alla mano. Non pensavo alla scrittura come mestiere, il che è invece stato per tre anni, grazie alla bolla speculativa e assolutamente irragionevole degli anticipi editoriali. Va detto comunque che per me l’incontro con il poeta milanese Antonio Porta è stato poi decisivo, si pone lì il momento interiore e storico in cui mi sono convinto che la pratica della scrittura era per me primaria per lavorare su me stesso e, per quanto potevo nel mio piccolissimo, sul mondo.

A che romanzo/progetto stai lavorando ora?
Alla continuazione con altri mezzi di un mio romanzo che risale al 2007, Dies Irae.

A proposito, scriverai mai un romanzo fantascientifico nello stile delle tue Argonautiche (romanzo nel romanzo contenuto in Dies Irae)? O è un esperimento concluso? Se sì, perché? Forse non sai quanti tuoi lettori se ne sono innamorati!
La fantascienza non ha più alcun senso: la fantascienza è sociologia, è vera, sta per accadere. Il romanzo argonautico è un testo totale, che veniva ispirandosi a un’intenzione dichiarata di Pasolini, che mi colpì quando fu pubblicato il postumo Petrolio. La fantascienza intesa come sociologia tento di praticarla appunto nel libro cui sto attualmente lavorando.

Canenero dei Subsonica (ispirata a Dies Irae di Giuseppe Genna) – dall’album L’Eclissi, 2007, Virgin Records

Che cosa stai leggendo ora?
Testi di futurologia, i libri di Roberto Cingolani e Harmonium di Wallace Stevens.

Puoi parlarci del tuo lavoro nel campo dell’editoria? Com’è la tua giornata lavorativa tipo?
Sono editor at large presso il Saggiatore di Luca Formenton, dove ho iniziato come responsabile dell’area narrativa italiana, per occuparmi poi di saggistica e narrazione straniera e italiana, a supporto dell’editore e della direzione editoriale. La mattina e, da mesi, anche il pomeriggio sto in casa editrice, situazione che ha assunto la consistenza di un’autentica officina culturale. È un lavoro che mi piace tantissimo, mi ritengo molto fortunato e grato nei confronti dell’editore.

Giuseppe Genna nel 1999, primi giorni di lavoro a Clarence
Giuseppe Genna nel 1999, primi giorni di lavoro a Clarence

Come vedi la situazione dell’editoria italiana 1.0? Mi dicevi prima che proprio oggi stavi andando alla Mondadori «per parlare del nuovo libro».
Ci sono andato, ho parlato, un progetto non ha ottenuto il gradimento, un altro lo ha avuto, e si tratta appunto del prosieguo di Dies Irae. Due giorni dopo il responsabile della narrativa, con cui ho parlato, si è dimesso. Direi che c’est tout.

Sei considerato uno dei primi a esserti affacciato sull’editoria online, intesa sia come mera pubblicazione di testi/audio/video/blog che come scrittore=media. Anche in questo caso vorrei il tuo punto di vista sulla situazione italiana. Che cosa leggi, cosa ti piace, cosa non ti piace, varie ed eventuali.
L’editoria on line non esiste, è soltanto un passaggio, una transizione. Non sono stati individuati né sviluppati lavori che abbiano legittimità artistica con la “materia” di cui l’attuale on line è fatto. Della situazione italiana direi malissimo; non esiste nulla che mi interessi, a parte la case history costituita da Wu Ming e dal loro Giap, comunità e blog e forum e irradiazione permanente di testualità e atti performativi in continua evoluzione. La Rete italiana secondo me è Wu Ming. Leggo “Lercio”. Il giornalismo italiano on line è totalmente insufficiente, i quotidiani sono aggiornati troppo poco, i giornalisti on line lavorano troppo poco, si sta tutti a cercare incredibilmente impression o share, manco fossimo in un 1999 che è il 2010. Da anni non vedo alcuno sviluppo dell’on line, bisogna aspettare nuovi device e l’esplosione imminente della nanotecnologia e dell’ibridazione. Il gaming è tutto, attualmente. Non vedo altro.

lercio
Una delle notizie geniali di Lercio

C’è qualche scrittore di Milano che ti piace? Esiste secondo te un circuito di scrittori milanesi in senso proprio?
Giorgio Falco, Aldo Nove, Andrea Gentile, Milo De Angelis, Antonio Riccardi, Maurizio Cucchi, Mario Benedetti: tre prosatori e quattro poeti. Non è mai esistita una comunità letteraria milanese così come la si intende a Roma.

Nessuna donna?
E perché ci deve essere una donna? Che, esiste la parità in fatto di genio?

In passato hai lavorato anche a Montecitorio. Se non facessi lo scrittore, cosa ti piacerebbe fare? Il politico (o chi sta dietro, e decide)? Altro?
Io non faccio lo scrittore: lavoro in editoria e collaboro con un neurolaboratorio. A Montecitorio ero consulente culturale, organizzavo eventi artistici. Che l’inesistente iddio mi scampi dall’orrenda sorte di lavorare in politica.

L’anno scorso durante Book City hai partecipato al tuo ultimo incontro dal vivo. Puoi spiegarci perché?
Non è che non faccia incontri dal vivo, ma evito oramai le presentazioni, con alcune eccezioni. La costumanza degli eventi letterari in epoca di inizio digitale, cioè in questi anni, è semplicemente vomitevole. Non è più quello il luogo dello scambio esperienziale, è tutto clamorosamente dilettantesco e antiumanistico. A me non piace, ma non sto esprimendo un’apodissi.

Bookcity alla Biblioteca Nazionale Braidense
Bookcity alla Biblioteca Nazionale Braidense

Perché in Italia negli incontri pubblici bisogna (parole tue) «volare basso, bisogna essere dorotei e cioè ipocriti, non bisogna fare sfoggio di cultura, bisogna essere simpatici». Perché non si può parlare di letteratura? Sono convinto che molte persone non si annoierebbero (io sono una di quelle, per esempio, come la maggior parte delle persone che comprano libri belli).
Questa è la media imposta, che corrisponde a un’idiozia tipica di tanta grande editoria. Un conto sono gli incontri pubblici à la Wu Ming e un conto è una presentazione in Feltrinelli, con la direzione eventi che ti chiede certi autori e non ne vuole altri. Generalmente è avvilente ogni incontro di questo tipo e, da anni, verifico esistere soltanto questo tipo di incontri. Quindi: ciao.

Quest’anno parteciperai a Book City come spettatore? Perché?
C’è un programma ricchissimo. Book City richiede un dispendio di forze, da parte degli organizzatori, che è ammirevole. Credo sia l’unica manifestazione all’avanguardia nell’Italia editoriale, in quanto è diffusa, non ha una forma gerarchica, è partecipata, non impone alcuna tassonomia.

Tre cose belle di Book City.
Gli incontri di poesia, andare al Planetario, quello che avviene al Castello.

Ci sono altri festival di letteratura in Italia che frequenti? Perché? E nel mondo?
Mi piacciono molto Pordenonelegge e La grande Invasione a Ivrea. Credo la competenza degli organizzatori si faccia sentire.

Anche al Trap piace Pordenone Legge
Anche al Trap piace Pordenonelegge

Nelle storie del tuo romanzo Dies Irae, non solo in quello (penso anche a La vita umana sul pianeta terra o ai libri che vedono come protagonista il detective Guido Lopez), ma lo cito perché l’ho letto ben due volte (non ti preoccupare per la mia salute mentale, sei secondo solo a Infinite Jest che ho letto tre volte, ndr), ci sono molti luoghi di Milano (bar, ristoranti, discoteche, vie della prostituzione transessuale e molti altri). Quali ricordi come cruciali? Ci sono ancora? Li frequenti?
La crucialità, del luogo o del momento, è esattamente ciò che è evaporato negli ultimi cinque anni, con una repentinità per me sorprendente. Milano è l’Area X in cui si sperimentano la vaporizzazione e l’impatto del futuro, in questo senso. Enunciato questo, che pertiene alla mia sensibilità, si pone proprio il problema dell’impossibile continuazione del Dies Irae.

Un’altra delle storie di quel fantastico romanzo parla della Berlino tossica e della scena rave anni 90 di Amsterdam. Vorrei soffermarmi soprattutto sulla seconda, essendo “la notte” un tema importante per noi di Zero. Hai vissuto in prima persona quel periodo, o te l’hanno raccontato? Ce ne puoi parlare? Cosa è rimasto? Cosa ne pensi dell’evoluzione di quella scena? La frequenti e/o la studi? La musica (elettronica ma non solo) può essere considerata alla stregua della letteratura: un arricchimento interiore, una forma di evasione e conoscenza che porta ad accettare, comprendere e magari superare questo «tempo devastato e vile»?
Ho smesso di frequentare, da profano e testimone oculare del tutto privo di attaccamenti, le scene che nei Novanta mi sembravano anticipare il futuro o, per dirla con il gergo di quei tempi, mi facevano vivere l’avant-presente. Soltanto la scena sadomaso, in quanto non si è ancora compiuta radicalmente la rivoluzione sessuale che mi immagino, e cioè la fine del sesso, è per me ancora interessante e la frequento sporadicamente. La musica elettronica è per me la poesia, se scrivo è perché, insieme con Montale, vidi e ascoltai i Kraftwerk, e mi piace restare a frequentare ciò che precocemente ha identificato il mio immaginario. Ho molto seguito l’etichetta indipendente Irma Music, ma mi pare che la vaporizzazione delle forme, una sorta di dopobomba estetico e politico, dica che oggi tutto, cioè nulla, è possibile, poiché il perno dell’esperienza non sta più nell’attuazione di ciò che è possibile, bensì nel fare surfing di ciò che è possibile e basta.

https://www.youtube.com/watch?v=VXa9tXcMhXQ
Kraftwerk – Die Roboter/The Robots, 1978, Kling Klang (EMI)
«We are programmed just to do/anything you want us to/we are the robots»

Hai scritto: «sono uno scrittorino secondario, che pubblica in una lingua oggi secondaria, in una nazione meno che secondaria». Ne sei convinto al 100%? È una pietra tombale o se ne può uscire? Nella letteratura siamo sempre stati tra i più importanti. Siamo o non siamo «il-paese-che-amo-l’Italia»?
Non ho il benché minimo dubbio che io sia uno scrittorino e per di più secondario. Tantomeno dubito del fatto che la lingua italiana sia secondaria. La nazione, poi, che per me si identifica con la lingua, è deprimente, mi pare la feccia dell’occidente, il peggio del peggio, ed è primaria soltanto se si considera quale indice la sperimentazione del futuro come passato: l’Italia è all’avanguardia in quanto antichissima. Io credo si vada in un luogo, il futuro, in cui la lingua parlata, cioè fonica, smette di essere centrale, realmente, quotidianamente. Il legame tra individuo, ma anche collettività, e testo è destinato a mostrare un indebolimento fatale. Si passa ad altro, l’arte sarà anzitutto un’altra cosa.

Come stai vivendo questa nuova Milano? Expo a parte, è cambiato qualcosa? Non solo dal punto di vista architettonico, dico. La percezione generale è che Milano stia diventando più europea, o mondiale se vogliamo (può essere anche un difetto, sia ben chiaro). O è solo una farsa e siamo ancora alla Milano-da-bere che hai già raccontato alla grande?
La novità di Milano è per me costituita da un laghetto dalle sponde che sembrano le pareti esterne dell’Esselunga e da tre grattacieli orrendi, ai piedi dei quali hanno installato una botticella di legno che sembra aspettare un enorme San Bernardo. Fa schifo. Milano non è affatto una città europea, mondiale non so davvero cosa significhi. Alla gente, che si crede hipster anche a cinquant’anni con il lavoro a tempo indeterminato garantito da un contratto renziano che abolisce il tempo indeterminato, constato che piace molto. Utrecht dà le miglia a questo posto angosciante, dove l’assessore al traffico ha deciso di abolire una parte del codice stradale, per fare andare le biciclette contromano e permettere che Google sperimenti coi taxi abusivi la sostituzione dell’istituzione comunale con forme private di assistenza burocratica.
Milano mi faceva schifo nei Sessanta, nei Settanta, negli Ottanta, nei Novanta, negli Zero e nei Dieci. Mi pare incredibile si discuta del luogo in cui si crede di vivere, quando per dodici ore al giorno vivi dentro un piccolo schermo iridescente: ormai il luogo è quello, il politico non sta più nel luogo realistico. Ciò significa che bisogna più che mai militare nel luogo realistico, ma non discutendo: c’è soltanto da emendare il luogo del fascismo spontaneo che l’Italia secerne con gioiosa nonchalance.

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Piazza Gae Aulenti, uno dei «nuovi luoghi di fascismo spontaneo che l’Italia secerne con gioiosa nonchalance»

Sei ancora legato al quartiere di Calvairate? Lo frequenti ancora? Come sta cambiando? Quali sono i luoghi che frequenti?
Da quando è morto mio padre, che continuava a vivere nella casa in cui sono cresciuto, ho mollato quella zona, che mi sembrava infame e splendida. Ultimamente ci ho rimesso piede, perché ho un caro amico scrittore che vive lì. Mi pare tutto silenziato e privo di enfasi drammatica, il che non significa che sia privo di dramma.

Quali sono i tuoi luoghi cult a Milano per: bere, mangiare, comprare un libro?
Bere: il Nottingham Forest di viale Piave. Mangiare: Osteria del Treno in via San Gregorio. Libri: Gogol & Company in via Savona.

Hai mai pensato di fare una guida alla città di Milano coi luoghi dei tuoi romanzi? Ti piacerebbe?
No, la cosa sta al contrario: io ho utilizzato un personaggio in certi finti thriller dei miei esordi, Guido Lopez, chiamandolo in questo modo perché Milano in mano, una guida pazzesca alla città, campeggiava centrale nella libreria dei miei e l’autore era appunto Guido Lopez.

https://www.youtube.com/watch?v=ZIIac0MLg04
La tragedia di Alfredino, raccontata da Genna in Dies Irae, secondo i Baustelle in Alfredo – dall’album Amen, 2008, Atlantic Records

Le ultime domande, ma non le meno importanti, anzi. Davvero Alfredino l’han fatto fuori i servizi segreti? Davvero la storia dell’Italia è cambiata quel giorno? Davvero al centro dell’Universo c’è un infante?
L’immagine Alfredino, sì; il piccolo Rampi, no. Alfredino è una svolta non soltanto italiana, è un’esperienza di mutazione genetica dell’immaginario, che termina nel 2010, anno di fine dell’esistenza della centralità della televisione e dell’immaginario collettivo in genere. Infatti il 2010 è l’anno indicativo dell’inizio della crisi, che è stata un derivato di accelerazione tecnologica proiettata al futuro imminente, calamitata da esso. Al centro dell’universo, sì, c’è l’Infante. L’universo è l’Infante. Il centro è ovunque.