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Marco Meneguzzo

Direttore dell'Archivio Gio' Pomodoro, punto di riferimento a Brera, Marco Meneguzzo ci parla di una scena colta dell'arte milanese

Geschrieben von Rossella Farinotti il 18 Juli 2016
Aggiornato il 23 Januar 2017

Abbiamo intervistato un bravo curatore, che si definisce tale per mettere subito in chiaro il presente in cui viviamo, dove ogni cosa deve essere incasellata in una definizione, ma che è anche un grande storico e critico d’arte. Di quelli che quasi non esistono più. Si tratta di Marco Meneguzzo, da più di trent’anni docente all’Accademia di Brera e studioso e creatore di mostre che hanno fatto storia. Marco si è mosso da Milano fino ad arrivare in Cina, poi India e poi ancora Iran – ricerca culminata nel Padiglione da lui curato alla scorsa Biennale di Venezia– è direttore dell’Archivio Mario Schifano, i suoi studi sull’arte Concreta, la Pittura analitica, Bruno Munari sono un punto di riferimento. Oggi è direttore all’Archivio Gio’ Pomodoro, che ha appena riaperto i battenti.

marco meneguzzo mario schifano

ZERO: Marco, partiamo dall’Accademia. Dal tuo rapporto con questa Istituzione che tu ha vissuto per tanti, tantissimi anni, e con il visibile decadimento di questo luogo storico. Mi piacerebbe sapere anche cosa pensi della formazione dei giovani artisti qui dentro, e dei giovani curatori, con cui tu lavori di più essendo stato per anni il coordinatore del Biennio di specializzazione in questo senso.
Marco Meneguzzo:
L’Accademia è una storica e ancora importante istituzione. A me piace molto stare a Brera. Penso che si, per gli studenti – sia per gli artisti che per gli aspiranti curatori – sia un passaggio ancora fondamentale. Prima di tutto è un percorso che obbliga a sviluppare doti di adattabilità, rispetto alle istituzioni efficientissime dei paesi nordici. Hai dei mezzi, delle visioni e dei docenti che devi gestire da solo. Un diploma lo possono ottenere tutti qui, non è quello l’ostacolo. Dipende da come l’hai ottenuto. Se hai passione e riesci a sfruttare al meglio gli insegnamenti offerti, allora hai delle possibilità di seguire il percorso che ti sei scelto. Anche perché, se frequenti sia l’Accademia, che i docenti, che le mostre, moltiplichi le chances di essere conosciuto, di costruire una rete, e quindi di attirare più attenzione rispetto a un aspirante artista che l’accademia non l’ha fatta.
Certo, c’è un grosso problema italiano: quello della burocratizzazione. I passi lenti, il bacino di docenza ampio e non sempre scelto in funzione dei percorsi. Però l’Accademia, dai tempi di Marino Marini, è stata un punto di riferimento, da quando appunto c’erano 100 alunni, e somigliava ancora al modello ottocentesco con il classico rapporto da bottega tra alunno e maestro, a oggi che gli iscritti a Brera sono 4000, di cui quasi un 30% straniero.
I punti di riferimento sono sempre stati quegli artisti che hanno creato una tradizione e continuità: dall’estero, o da altri parti di Italia, gli artisti si spostavano qui per studiare con Marino Marini o con Fabro. La burocratizzazione di qualsiasi movimento – una chiamata alla docenza, un Erasmus – è un ostacolo inaccettabile.

Marino Marini
Marino Marini

A Milano stanno nascendo, negli ultimi due/tre anni, moltissimi spazi indipendenti: spazi curati da artisti, da curatori, da fotografi; luoghi un po’ sperimentali; luoghi per nulla sperimentali, ma legati già a dei sistemi predefiniti. Pensi che siano la risposta alla mancanza di appoggio da parte delle istituzioni, come appunto Brera?
Non so, in fondo è sempre stato così. Anche Piero Manzoni ha fondato Azimuth perché non lo guardava nessuno. Sicuramente le istituzioni non appoggiano i giovani artisti, non lo hanno mai fatto. In un sistema come questo tutti si devono industriare molto di più, devono inventarsi modi nuovi per interagire e per produrre arte e pensiero, e poi il tempo decide chi aveva ragione, chi ha affrontato le problematiche nel modo giusto.

gianni colombo artisti nello spazio meneguzzo

Come è cambiata dal tuo punto di vista la comunicazione nel mondo dell’arte? E la scrittura? Questo in fondo è un momento di grande movimento: chiudono riviste storiche, ma ne aprono di nuove, e aprono persino case editrici indipendenti. Pensi che sia un buon segnale?
In passato le notizie vere giravano di paradossalmente di più. Per esempio il manifesto futurista apparve nel giro di pochissimo sulla stampa russa, e su Le Figaro. È difficile anche solo definire che cosa sia la comunicazione nell’arte. Per quanto mi riguarda è ancora veicolata dalla curatela di una mostra, cioè dal passaggio di informazioni su un determinato panorama artistico, o su un periodo all’interno di un luogo espositivo. E poi dalla scrittura, dalla ricerca. Oltre alle collaborazioni con riviste come Flash Art, ai tempi quasi della sua nascita, e Arte, Tema Celeste, Abitare, scrivo per Avvenire e per Artforum, da diversi anni. E poi credo ancora nella saggistica, quando riesco scrivo libri. Se parliamo invece di comunicazione da parte dell’artista, forse in questo momento ha preso il sopravvento un’idea eccessiva del suo ruolo sociale, che schiaccia talvolta la libertà e la creatività dell’immaginario. E sembra che il saper raccontare sia quasi più importante del saper fare. Fondazione Prada in questo senso è un indicatore importante: fanno mostre meravigliose, perfette sotto tanti punti di vista. Ma sono esposizioni mainstream e infatti, ultimamente, sono molto orientate al politico, perché è così che ora deve essere secondo alcuni canoni. Tranne, forse, per la mostra curata da Thomas Demand, L’image voleé, più di ricerca estetica e storica.

Fondazione Prada, "L'image volée", 2016
Fondazione Prada, „L’image volée“, 2016

Tuttavia sul fronte della critica e in particolare della scrittura, della sintassi addirittura, non ti pare che oggi rispetto agli anni Settanta e Ottanta, intrisi di tecnicismi politici e di linguaggi parasemiotici, si producano dei testi più leggibili, a volte più pieni di senso?
Non saprei. Quello è stato un momento di svolta sostanziale, non solo linguistica. L’era postmoderna ha imposto di affrontare la fine delle avanguardie, e ha stabilito – ancora oggi – il concetto “tutto può funzionare”. Che significa che non tutto per forza funziona, ma che può farlo. E questo ha complicato moltissimo la funzione e l’espressione della critica.

Scultura italiana, Chiara Dynis
Scultura italiana, Chiara Dynis

Con quali istituzioni hai lavorato meglio, a Milano e fuori?
Ho lavorato con diverse istituzioni, anche con molta libertà. Una delle esperienze più lunghe e fruttuose è stata la collaborazione al PAC di Milano dal 1982, per un lungo periodo, dove ho potuto sviluppare mostre di ricerca come la collettiva La forma del modo, la fine del mondo, o personali come quella dell’86 dedicata a Richard Long, o ancora nel 1998 Due o tre cose che so di loro. Ho curato padiglioni per le biennali, anche in Cina; ho curato mostre in diversi musei, ma mi considero sempre un borderline. Non sono mai stato il direttore di un museo o di una istituzione. È una questione, forse, di personalità. E del resto esistono dinamiche in questo settore davvero molto particolari, come ad esempio quelle che riguardano il mercato. Che in sé va benissimo, per carità, ma è tremendo quando assume una forza egemonica sull’opera. Mario Schifano, ad esempio: è stato uno dei più grandi artisti del Novecento, e dobbiamo sentircelo dire solo oggi dagli americani. Con l’arte cinetica e programmata negli anni Sessanta e Settanta eravamo i più bravi, e adesso escono fuori dal cappello dei flussi di mercato come se non ci fosse una storia critica.

Richard Long al Pac
Richard Long al Pac

Cosa insegni agli studenti?
Che esiste un quoziente di fisicità dell’arte, oltre la rete. Che va ancora fruita con gli occhi, dal vivo. Bisogna girare, vedere.

Marco Meneguzzo Padiglio Iran Venezia 2015

Sei favorevole alle residenze d’artista? È un’esperienza che consigli?
No, francamente mi pare un girare a vuoto, un’enorme perdita di tempo.L’Erasmus è fondamentale, ma poi è meglio girare per i fatti propri, in modo autonomo. Anche in maniera sbagliata, ma sempre meglio di quei circuiti preconfezionati.

Marco, sei veneto d’origine, ma cresciuto a Milano. Quindi sei un milanese doc. Che posti frequenti in città?
I luoghi che frequento sono quelli dove sto. Abito in zona Ticinese e quindi spesso vado in quei posti vicino alle Colonne di San Lorenzo. Mi piace vedere la gente che si ingozza con gli happy hour, mi piace per l’idea di socializzazione. Però preferisco i luoghi specializzati, ad esempio GinO12 sui Navigli, dove fanno un gin tonic pazzesco.

Conosci la libreria Verso?
No, dov’è? Librerie in zona ne conosco poche, forse vado più verso Brera, dove ci sono ancora quelle storiche.

E dove vai a mangiare, a parte negli studi di artista? (Mi ricordo ancora un “pranzo” alle undici della mattina con pasta e fagioli nello studio in Brera di Pino Pinelli!)
A mangiare vado ancora alle Cantine della Vetra, o dagli artisti che mi invitano.
E poi vado tanto al cinema sotto casa, all’Eliseo. Anche se preferisco andarci quando sono in Toscana, al cinema Dante o all’Aurora, dove i film li scelgo al buio, ma sono sempre di qualità.