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Line Ulrika Christiansen

La nuova Head of School della Domus Academy intervistata sulle scuole di design

Geschrieben von Fabrizio Gallanti il 8 März 2017
Aggiornato il 28 März 2017

Geburtsort

Copenaghen

Wohnort

Milano

Alla fine dell’impero romano fu la discesa di successive tribù nordiche a rimescolare e irrobustire il sangue indebolito da secoli di raffinata decadenza e a gettare le basi dell’Italia come la conosciamo oggi. Agli attuali paladini razzistelli di un’idea bislacca di purezza etnica, va sempre ricordato che invece, da millenni, è l’ibridazione a fare la forza dell’Italia. Negli ultimi anni non sono pochi gli stranieri che si sono installati a Milano per fare migliaia di cose fantastiche e insufflare energie nuove nel corpaccione un po’ stanco del Belpaese. Siccome i Longobardi, da cui viene il nome Lombardia, erano probabilmente una tribù scandinava, si potrebbe pensare che la designer danese Line Ulrika Christiansen non abbia fatto nient’altro se non seguire tracciati già percorsi da qualche antenato intorno al 560 d.C. E come le popolazioni nomadiche di allora, prima di arrivare nell’estate del 2016 come nuova “Head of School” della Domus Academy, ha vagato, prima a Ivrea, presso l’oramai mitico Interaction Design Institute, poi a Doha, in Qatar, dove è stata “associate dean” di una facoltà di arti e design, parte di un’università statunitense.
Gli storici ci raccontano che i Longobardi abbiano varcato le Alpi non da soli ma accompagnati da numerosi alleati dai nomi quasi magici: Avari, Gepidi, Sarmati, Turingi, Rugi, Sassoni, Alani, Eruli, e pure Unni, proprio quelli di Attila. E così, Line, come tutti la conoscono (i milanesi, ovviamente dicono “la Line”, letto all’italiana) non è sbarcata da sola, ma insieme al gruppo statunitense Laureate International University che dal 2009 è proprietario di Domus Academy e della Nuova Accademia di Belle Arti. Questo nucleo di invasori gentili che si è accampato dalle parti di Porta Genova è solo una porzione della moltitudine di designer, artisti, professionisti, intellettuali (ci tocca usare l’orrendo termine “creativi”) stranieri che hanno scelto Milano o come base permanente o come bivacco temporaneo. E tra qualche settimana, le infinite tribù del design si incroceranno per il loro raduno annuale, il Salone del Mobile.
Abbiamo chiesto a Line come si trovi a Milano, ultima tappa di un itinerario sino ad ora affascinante.

Tasmeem conference a Doha
Tasmeem conference a Doha

ZERO: Ultimamente c’è stata una polemica sulla qualità dell’insegnamento scolastico, e mi ricordo di commenti del tipo “se non si interviene sarà enorme il danno all’italiano, la lingua più bella del mondo”. Un po’ come gli statunitensi quando blaterano che “USA is the greatest country on Earth”. Questo tipo di auto-celebrazioni per nulla ironiche, mi ricordano quando si dice che Milano sia la capitale mondiale del design. Secondo te è un’etichetta giusta?
LINE ULRIKA CHRISTIANSEN: Per me è veramente strano arrivare a pensare che esista qualcosa come una “capitale” del design. Senz’altro Milano è una città dove il design ha un ruolo potente, non solo il design ma pure la moda. Ho la sensazione che, in effetti, ci sia una comprensione piuttosto diffusa delle questioni estetiche. Si nota nei dettagli, in come si vestono le persone, per esempio. A Copenaghen, da dove vengo, il design è più legato a questioni di efficienza e dello spazio domestico, mentre qui è un’atmosfera diffusa, difficile da descrivere con precisione che avvolge un po’ tutto.

Ma non credi che sia una condizione legata alle classi suppostamene colte e certamente benestanti tra le quali ci muoviamo? Questa convinzione dell’eleganza e dello stile italiani mi convince fino a un certo punto, c’è anche una quantità di trash e volgarità, che sfugge a questa lettura. Farsi un giro per la pianura padana non è proprio il massimo della bellezza.
L’altro giorno ero al mercato, e mi sono sorpresa a vedere che si vendono ancora tovaglie o asciugamani, sovraccarichi di decorazioni. Ce n’erano a tonnellate, coperti di fiori o di ricami non troppo belli il che vuol dire che qualcuno li compra. Credo che la maggioranza cerchi ancora gli stessi oggetti che piacevano alla nonna. Nella vita di tutti i giorni a Milano, il design si nota ma direi che fa parte dei gusti e dell’interesse di un gruppo ristretto di persone.

Questa schizofrenia tra sofisticazione e volgarità fa parte però dello stile italiano, no? Un amico canadese pensava che i film di Fellini fossero pura fantasia, prima di visitare Roma e capire che è la realtà a essere proprio così.
Beh, ma forse è proprio la forza del design italiano, quella di aver operato prevalentemente sui codici della comunicazione, mescolando quello che è basso con quello che è alto. Mentre i giapponesi si contraddistinguono per la semplicità minimale, gli scandinavi per un funzionalismo prossimo alla natura, con l’attenzione ai materiali, qui invece c’è sempre stata una carica di provocazione molto più forte, dove si sono combinati diversi linguaggi. Penso soprattutto ad autori come Mendini o Sottsass.

Doha Skyline
Doha Skyline

Sei a Milano da sei mesi, dopo aver vissuto in Medio Oriente per parecchio tempo ma se non mi sbaglio il tuo è un ritorno. Cosa hai trovato di cambiato?
Ho vissuto in Qatar per sette anni, ma precedentemente sono stata in Italia per otto anni, gli ultimi due, in effetti, qui a Milano. Mah, a parte la skyline dove sono spuntati un po’ di torri modaiole e alcuni quartieri che sono stati rilanciati, mi pare che sia cambiato assai poco. Dopo l’Expo, mi sarei aspettata una trasformazione più radicale.

E come mai sei arrivata in Italia, quindici anni fa?
Avevo studiato comunicazione visiva in Danimarca e pensavo di andare al Royal College of Art a Londra. In quel momento, però, era stata appena lanciato a Ivrea, l’Interaction Design Institute, che era diretto da Gillian Crampton Smith, che era la persona con la quale avrei voluto studiare a Londra. Questa nuova scuola era un vero e proprio esperimento, per cui presi la decisione, un po’ strana, che studiare a Ivrea sarebbe stato più interessante che a Londra. In realtà avevo pensato soprattutto che il cibo sarebbe stato migliore in Italia. Il periodo a Ivrea è stato incredibile, perché si trattava di un’ambiente incredibilmente cosmopolita ma soprattutto perché nessuno sapeva bene in che direzione muoversi, né i docenti né gli studenti, per cui sono stati anni di sperimentazione e ricerca estremamente liberi e quasi avventurosi. Mi sentivo un po’ come una delle cavie su cui provare un nuovo modello di insegnamento: studenti da tutto il mondo, insieme a professori da tutto il mondo, vivendo tutti insieme in una cittadina sperduta ai piedi delle Alpi.

Da quella scuola sono uscite parecchie idee incredibili, come Arduino, per esempio. La scuola era una sorta di ultima conseguenza della grande storia dell’Olivetti ed è esistita solo per cinque anni, giusto? Dopo aver concluso i tuoi studi hai fondato Interaction Design Lab, tra Torino e Milano. Di cosa ti occupavi?
Dopo quattro anni a Ivrea, quando Telecom che possedeva Olivetti cambiò di proprietà, la scuola fu assorbita dalla Domus Academy e poi chiuse. Mentre lavoravo con Id-Lab di cui sono stata una dei soci fondatori, insegnavo design interattivo presso la NABA. Con Id-Lab avevamo sviluppato diversi progetti dove architettura, design e nuove tecnologie digitali si incrociavano. Il Museo delle Arti Femminili di Vallo della Lucania, per esempio, è uno degli interventi di cui vado più fiera, perché la comunicazione interattiva permetteva di accedere ai contenuti in una maniera nuova. Appena dopo la conclusione del cantiere, nel 2009 ricevetti una offerta per partire a Doha in Qatar dove sono diventata rettore associato della facoltà di arti e design della Virginia Commonwealth University in Qatar. Il mio ruolo era quello di stabilire le line guida dei corsi, selezionare i docenti e occuparmi della ricerca e delle biblioteche, all’interno di un formato piuttosto tradizionale, tipico dell’università statunitense.

Museo delle Arti Femminili di Vallo della Lucania
Museo delle Arti Femminili di Vallo della Lucania

Più o meno è il lavoro che fai alla Domus Academy?
Non esattamente, perché il modello pedagogico, che deriva dalle idee del design radicale italiano degli anni ’70, è molto diverso. C’è un rapporto con le aziende e i designer molto più diretto e pratico, per cui l’insegnamento non si basa su semestri, crediti e corsi nella maniera tradizionale ma su progetti specifici. Quello che è simile è il fatto che si stabilisce una visione generale del tipo di insegnamento che si vuole sviluppare, e il mio ruolo è di garantire che questa visione sia implementata, giorno dopo giorno.

Tornando al museo del quale parlavi, ho notato che il tema femminile è molto forte nei tuoi progetti e nei tuoi scritti.
Per me è fondamentale. Non si tratta solamente di una questione legata al design, ma più in generale di una maniera di vedere le cose e di lavorare che è particolare, diversa da quella maschile. Credo che stiamo assistendo a una svolta, dove le donne stanno scardinando le norme che erano imposte secondo le quali dovevano vivere e lavorare in un certo modo. Stiamo raggiungendo posti di responsabilità per cui le nostre voci, cominciando a farsi sentire, e c’è in giro abbastanza voglia di non ascoltare i soliti sospetti, sempre maschi. Le donne sono portatrici di una capacità di empatia, molto utile nel mondo contemporaneo. È da molto tempo che coltivo il sogno di studiare accuratamente il tema delle supereroine nei fumetti e di capire se ci siano dei tratti, anzi dei superpoteri, che si potrebbero applicare nel campo del design. Spero prima o poi di potermici dedicare.

La maggioranza degli studenti della Domus Academy sono stranieri, per cui il modello sembra continuare ad attrarre gente da tutto il mondo. E ci sono parecchie altre scuole analoghe a Milano, dedicate alla moda, la fotografia o il design. Che opinione hai in genere di questa scena?
Paradossalmente, c’è una situazione particolare: sia NABA sia Domus Academy sono state acquistate da un colosso statunitense dell’educazione la Laureate International University per cui continuo a lavorare per gli americani, anche se la autonomia delle scuole qui a Milano è notevole. Domus Academy agisce come una piattaforma che collega un’azienda o un’istituzione, che vuole esplorare un tema o ha un problema da risolvere, con un professionista del design, che è un professore invitato e un gruppo di studenti internazionali. La combinazione tra il mito del design italiano e il tipo di esperienza che si può fare qui continua a essere ancora attraente per un pubblico internazionale. Anche se devo dire, che a volte l’intensità di Milano rispetto al design mi sembra controproducente, perché ti distrae dallo studio e dalla ricerca. Mi chiedo se non sarebbe più utile avere una scuola in un luogo più tranquillo e poter “usare” la citta con un sistema di incursioni puntuali. Si può dire lo stesso di altre grandi metropoli come New York o Parigi, non so quanto siano produttive per pensare e studiare, tra inaugurazioni, conferenze ed eventi vari.

BigGadget_W.Marchetti
BigGadget_W.Marchetti

Quante nazionalità diverse avete a scuola?
Abbiamo 45 nazionalità rappresentate, con una maggioranza di studenti provenienti dall’Estremo Oriente.

E in cosa consiste esattamente la collaborazione con le aziende di cui parlavi?
Per esempio abbiamo fatto un workshop, all’interno di una serie intitolata “Entrepreunership 2.0” con Kickstarter dove gli studenti dovevano proporre un modello di azienda start-up. Hanno quindi sviluppato una traccia di incarico, identificato quale era la sfida rispetto al tema del design e poi proposto concetti e prototipi. Ogni gruppo ha consegnato a Kickstarter dei progetti molto intriganti, dalla ricerca etnografica, all’analisi delle tendenze o alla fabbricazione 3D.

E perché ti sembra che sia stato un successo?
Perché la controparte degli studenti era un’azienda, molto coinvolta nel processo, che forniva costantemente un feedback concreto sul valore delle proposte. E per Kicksarter era interessante ricevere idee fresche che coniugavano realtà e visioni sperimentali, come solamente degli studenti, che sono più liberi e giovani, possono fornire.

Le scuole private, come la Domus Academy o NABA si occupano di design da molto più tempo delle università pubbliche italiane. Che ne pensi?
In effetti, credo che ci siano ottimi corsi e lauree in design anche in altre città italiane, non necessariamente solo qui a Milano. Noi offriamo una formazione post-laurea con un taglio più professionale, e in questo senso il meccanismo funziona perché la rete delle aziende intorno alla città è ancora fortissima.

Se potessi invitare due o tre professori dei tuoi sogni, morti o vivi, chi sceglieresti?
Mi è piaciuto molto lavorare a New York con Red Burns, la fondatrice di ITP (Interactive Telecommunications Program) a New York University, per cui, se fosse ancora viva la inviterei subito. Christine Ortiz, che lavora al MIT a Boston, è un’altra persona che sto seguendo con interesse e sono curiosa di saperne di più del nuovo sistema educativo che sta sviluppando. E poi, se si potesse viaggiare nel tempo, sarebbe fantastico avere come docenti Buckminster Fuller, John Cage e Josef Albers.

Christine Ortiz
Christine Ortiz

Adesso arriva il Salone del Mobile: cosa ne pensi in generale?
È da un po’ che non partecipo, per cui sono molto incuriosita dalla prossima edizione. Mi pare che ogni anno diventi più grande. Apprezzo molto il fatto che in questa espansione costante, il Salone e il Fuorisalone si stiano occupando di nuovi temi e di nuovi concetti, dove il design non è solamente quello del mobile o degli interni, ma un campo in costante movimento, che si incrocia con altre discipline e pratiche. Comunque prima del Salone, il 21 marzo, abbiamo organizzato un incontro, Designer of What, When and Why?. Il grande teorico John Thackara coordinerà una discussione con Alice Rawsthorn, Arthur Huang, Alexandra Deschamps-Sonsino, Brooke Roberts-Islam, Cristiano Seganfreddo sull’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo sul design, sempre più onnipresente nelle città, nelle case, in ogni dettaglio del mondo antropizzato.

Se dovessi, in una giornata, mostrare a un visitatore quello che ti pare riassumere il design a Milano dove lo porteresti?
Mah, perché capisca il fatto che si tratti di un tema già consolidato nella storia, senz’altro lo Studio Castiglioni. Non ho mai incontrato Castiglioni, ma avevo lavorato al progetto per trasformare il suo studio privato in un luogo aperto al pubblico e mi era sembrta, la sua, una storia affascinante.
Quando vivevo a Milano prima del Qatar, mi piaceva molto esplorare i vari quartieri della città senza nessuna meta precisa. Dopo la brutalità del primo impatto, cominciano a emergere degli aspetti più nascosti, che rivelano la ricchezza della città, e parecchie sorprese inaspettate. Avrei un suggerimento generale: perdersi per la città tenendo gli occhi ben aperti.

E cosa fai nel tempo libero? Ci sono luoghi ai quali sei affezionata? Bar, ristoranti? Oppure da buona milanese, scappi via il fine settimana?
In una metropoli di oggi il tempo libero è il vero lusso. Come madre di due bambini piccoli e Head della Domus Academy, direi che il tempo libero quasi non esista. Nei weekend, andiamo con la famiglia sul lago di Como oppure partiamo per visitare amici. Quando è possibile mi piace molto andare a sciare, specialmente nelle Alpi Francesi.

E rispetto ai tuoi figli piccoli: come ti sembra Milano per loro?
Terribile! Ci sono pochissimi spazi verdi, e i parchi sono in pessime condizioni. Troppi brutti giochi in plastica, spesso poi coperti di graffiti e sporchi. Ecco quella sarebbe una bella sfida, riprogettare le aree giochi degli spazi pubblici milanesi.

Hai cambiato casa e vita un sacco di volte. Cosa porti sempre con te?
Non molto. I miei libri e alcuni piccoli oggetti che ho accumulato con il tempo, spesso dei regali che mi ricordano alcune persone.