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Luca Ravenna

Lo stand up comedian timido, eroe di due (piccoli) mondi: Milano e Roma

Geschrieben von Beatrice Atzori il 14 März 2022

Luca in RGB

Quando ci sentiamo ha appena finito un riposino pomeridiano e non trova le cuffie. Ci sta, prima dell’intervista ha incontrato per la prima volta Beppe Sala per parlare di teatro. Luca Ravenna, comico milanese classe ’87 di base a Roma, è stata “la quota indie” della prima stagione di LOL, ed è ora in tour con il suo spettacolo 568, prodotto da The Comedy Club e in scena il 16 marzo a Napoli, poi a Bologna e a Milano.
Ha tutta la grazia e la sprezzatura del cortigiano: mentre parliamo un po’ si stupisce perché ascolto Cashmere, il podcast (morbidissimo) che scrive e conduce con Edoardo Ferrario, e confessa di essere, in realtà, un timido, un osservatore per natura. A Zero racconta i segreti dell’improvvisazione, lo stato della comicità italiana, e i suoi posti preferiti a Milano e a Roma.

«La comicità è un po’ come osservare un acquario all’interno del quale succede qualcosa, e poter dire “per fortuna non è successo a me”.»

 

Ciao Luca, dove sei?

A Milano, stamattina ho fatto un incontro con il sindaco. Mi ha fatto molto piacere perché mi ha proposto lui di vederci per discutere di come risolvere il problema dello stadio di Inter e Milan (ride, ndr). Scherzo, abbiamo parlato di teatro leggero, sia dal punto di vista dei contenuti sia dell’organizzazione. Vediamo se è una chiacchiera che avrà solo il piacere di aver preso luogo o se invece avrà un seguito. Non avevo mai incontrato Sala di persona.

Immagino che sia stato un bel momento per te. Tu sai di essere registrato, vero?

Si, infatti sto parlando in modo misurato (ride, ndr). È stato senza dubbio un bel momento di orgoglio meneghino.

Non ti nascondo che in questi giorni, mentre preparavo l’intervista, mi sono immaginata che la conversazione tra noi sarebbe andata un po’ come va nei tuoi Improv., e cioè che saresti stato tu a fare le domande a me e che sarebbe filato tutto liscio. Quindi, per cominciare, ti chiedo di svelarci i trucchi del mestiere. Come si improvvisa?

È una bellissima domanda: non lo so. Penso solo con molta fiducia in quello che si può dire e in come reagirà la persona del pubblico che stai tirando in mezzo. È un tipo di spettacolo che si basa molto più sul dialogo di quanto non sia un monologo classico. Anche quando fai un monologo stai di fatto parlando con il pubblico, ma nell’improvvisazione hai a che fare con una persona che ti può aiutare, o magari no. Il bello è avere fiducia e sperare che si ricavi qualcosa di divertente. In uno spettacolo normale spesso i momenti più divertenti sono proprio quelli in cui si parla con il pubblico. Perché avvengono solo quella sera e solo in quel momento, sono una testimonianza del fatto che la serata stia accadendo. Vedendolo fare tanto in America e in Inghilterra, mi sono detto: perché non fare queste Improv. secche anche in Italia? Ovviamente non è tutto così divertente. I pezzi che carico online sono ben tagliati, ci sono anche cose molto poco divertenti, anzi noiose, ci vuole il coraggio di tagliarle.

 

A proposito di coraggio, hai paura prima di salire sul palco? Che non ti venga nulla di interessante da dire, poche battute brillanti, che il pubblico non collabori con te?

Certo, hai voglia. Sarei un pazzo se pensassi che una volta sul palco sarà tutto una grande risata. Ho sempre paura che qualcosa non vada. Poi ovviamente col tempo impari che è una collaborazione con il pubblico, che le persone vengono lì apposta e partecipano anche volentieri. E poi ci sono sempre quei 20 minuti di materiale già pronto, un po’ nascosto, che cerchi di tirar fuori quando serve anche per dare più ritmo alla serata. Nel pubblico trovi poi persone simpaticissime, ma anche quelli un po’ strambi e quelli che vogliono fare i fenomeni. Tutto è lecito, l’importante è avere dei salvagenti, cioè dei pezzi che sai che puoi fare e non c’è niente di male a tirarli fuori. La bravura sta nel nasconderli.

Quindi non è uno spettacolo per timidi. E Luca Ravenna è timido quando non è sul palco?

Sì, direi tutto il resto del tempo.

Che cos’è per te la comicità? Cosa rende una storia una buona storia per un comico?

Noi ridiamo più volentieri quando una persona fa qualcosa di inatteso con il corpo, più che con le parole, ad esempio quando qualcuno cade. Riuscire a ricreare questa dimensione anche con le parole è una grande obiettivo. Le cose che fanno ridere sono quelle per le quali noi ci immedesimiamo in una situazione scomoda e siamo contenti di non essere noi a viverla. La comicità è un po’ come osservare un acquario all’interno del quale succede qualcosa, e poter dire “per fortuna non è successo a me”.

E puoi tirare un sospiro di sollievo.

Esatto, anche il mio nuovo spettacolo si basa anche in modo molto didascalico su questo: le cose brutte le pensiamo tutti, ma stiamo attenti a non dirle in contesti che possono metterci in pericolo. Poi, l’idea che tutti le pensiamo dovrebbe essere consolatoria e farci ridere in modo più condiviso.

Sul ridere a proposito di cose fisiche, come si fa nella stand up comedy? Mi pare che sia una forma di spettacolo abbastanza minimal: un palco, un comico, un microfono, e fiumi di parole. Che differenza c’è tra la stand up e il cabaret tradizionale?

Direi che ci sono piccole differenze che riguardano il punto di vista che si esprime e al come lo si esprime. Nella stand up comedy è evidente cosa accade: c’è una persona sul palco e sotto ci sono delle persone sedute che ascoltano. Qui la quarta parete non è rotta, è proprio fracassata. C’è poi una differenza rispetto al punto di vista che si esprime, perché, anziché parlare dei grandi luoghi comuni della comicità, come il traffico, nella stand up si parla del traffico che tu vedi, che tu conosci. Al contrario nel cabaret si tende a ridere in modo più superficiale, senza che questo abbia un’accezione negativa, ma nel senso di “più condivisibile”, stereotipato. Il punto di vista nel cabaret è più legato alla maschera che alla voce del comico. Tutte sfumature legate al genere e non, ovviamente, al valore di quello che stai vedendo.

Un amico ha sempre sostenuto che lo stereotipo fosse la sola vera forma di conoscenza possibile. Tu cosa ne pensi?

Sono d’accordo, al 100%. La stand up comedy con gli stereotipi ci gioca, però non si vuole basare solo su quelli. Per farti un esempio: della suocera, che è un topos del cabaret, si sa che è un po’ invadente. Ma tu non racconti l’invadenza della suocera, ma di tua suocera.

 

E quanto c’è di vero in quello che racconti sul palco?

È quasi tutto realmente accaduto. O quanto meno, tutto parte da situazioni vere, poi sta a te raccontarle in un modo o in un altro, così come riuscire a slegarsi dalla realtà. Uno magari pensa che spiattellare sul palco le cose che gli succedono sia divertentissimo, ma quello è il ruolo del paziente dal terapeuta, non del comico.

Qual è lo stato della comicità italiana? In questo momento pensi che goda di buona salute?

Credo che stia bene perché ci sono tanti generi e c’è tanta attenzione. Pensa all’anno scorso durante il lockdown – quindi senza i live –, e a tutta l’attenzione che c’era verso i programmi comici come Una pezza di Lundini o LOL e ai podcast comici, e poi alla grande estate che è stata per le serate dal vivo: c’è molta voglia di ridere, sia in modo leggerissimo sia meno leggero. Mi sembra che la comicità sia al centro dell’attenzione, e lo è anche in senso non proprio positivo con tutte le menate sul politically correct. Questo tipo di attenzione al linguaggio è fisiologico ma anche un po’ perverso secondo me, a volte.

È un tema che mi sarebbe sembrato banale per una domanda della nostra chiacchierata ma ti ringrazio per averci detto la tua anche su questo.

Sappi però che è una domanda che viene sempre fatta perché sembra che se uno fa il comico allora debba necessariamente essere un esperto dei limiti del linguaggio. Da una parte è ovvio che, quando sali su un palco, non si possa dire sempre tutto. È giusto, perché non sei con quattro amici al bar a dire minchiate, ma le persone pagano per sentire e i tempi cambiano e tutto il resto. Quindi conoscere il linguaggio è giusto, ma dall’altra non va bene neanche andare a vedere le serate con il fucile puntato. Non è giusto per gli spettatori, che si perdono il divertimento.

Ci dici chi sono i tuoi modelli di riferimento in fatto di comicità?

Da piccolo sono cresciuto vedendo la Gialappa’s e Aldo Giovanni e Giacomo. Ma anche Guzzanti e tutto il mondo della Dandini. In particolare i primi tre film diretti da Massimo Venier, che hanno cambiato il mio modo di percepire la comicità. Quando ho visto al cinema Tre uomini e una gamba avevo 10 anni, e vedendo le persone ridere in quel modo ho pensato che quella fosse la cosa più bella che si potesse fare al mondo: ridere insieme in modo orchestrato davanti a un’opera. E poi la Gialappa’s e il multiverso che hanno creato.

E quindi starai guardando la seconda edizione di LOL…

Non ho visto la mia – perché sapevo com’era andata – ma questa sì, la sto vedendo.

 

Forse in LOL è venuto fuori il Luca Ravenna timido di cui sopra.

Sì, sicuro. Il punto è che lì non era richiesto di essere come sei nella vita di tutti giorni, solo che io, un po’ per attitudine e un po’ anche per mancanza di esperienza, l’ho fatto. La realtà poi è che stavo con dei pezzi da 90, gente stra brava e abituata a lavorare anche in gruppo, mentre io per carattere sono uno che osserva. E nell’economia del programma l’ho pagata. Per quanto riguarda invece la mia esperienza, è stato non utile: di più.

Chi era Luca Ravenna prima di essere il Luca Ravenna che conosciamo?

Io ho fatto il primo open mic otto anni fa, e fai conto che non c’erano così tante serate come ce ne sono oggi. Ce n’era una all’anno e me le andavo a cercare in posti assurdi, com’è giusto che sia quando si inizia. Prima facevo l’autore. Ho studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia, ho lavorato coi The Pills per tre anni e poi a Quelli che il calcio, facendo ogni tanto qualche sketch. Ho lavorato anche con la Gialappa’s e Massimo Venier, cosa di cui sono molto contento, e con Edoardo Ferrario. Poi mi sono reso conto che volevo stare sul palco, ho smesso di far finta che non fosse così e ho iniziato a farlo.

 

Raccontaci qualcosa del tuo nuovo spettacolo 568, che ha un titolo che so che deve rimanere misterioso.

So che sembra antipatico non spiegarlo, ma ho scelto di fare così anche stavolta. Nello spettacolo – è sempre difficile spiegare cosa succede, perché poi ho paura che se non ridi non è divertente – parlo di diversi argomenti, tipo che sono stato cleptomane da piccolo, il dramma di non venire da una zona difficile di una città tosta ma di essere cresciuto molto fortunatamente in una zona centrale con tutti annessi e connessi.

Tu sei milanese, ma vivi a Roma da quindici anni. Secondo te in che cosa sono due città profondamente diverse?

Ci sono tante rivalità fra città, ma direi che Roma e Milano sono le due vere rivali italiane. Hanno degli aspetti molto differenti: Milano è una città molto curiosa, Roma lo è molto poco. Quello di essere curiosi è proprio un pregio dei milanesi: se c’è una cosa nuova in genere si tuffano e vogliono saperne di più. Se poi quella cosa nuova non vale, la gettano per sempre. Roma invece mi pare una città molto diffidente, conoscere i romani è difficile, ma probabilmente dipende anche dalle dimensioni della città. Penso però che Roma sia una versione piccola dell’Italia. Milano invece prova a essere una versione piccola d’Europa.

Quali sono i tuoi luoghi a Milano? Ti manca?

Ci torno talmente tanto spesso che non può mancarmi. Sono nato e cresciuto tra Corso di Porta Romana e Corso Italia, in Crocetta. Anche se il quartiere più bello, secondo me, è quello che si trova tra Corso Magenta e Via Vincenzo Monti. Sono molto legato a quelle viuzze come via della Chiusa, via Olmetto, dietro Piazza Vetra e la Basilica di San Lorenzo o via Orti, che ho visto cambiare tantissimo negli anni. Sono molto affezionato al Teatro Parenti, dove ho fatto il mio primo spettacolo teatrale delle medie, a 13 anni.

Beh, una cosa notevole da aggiungere al tuo curriculum.

Sì (ride, ndr). Ecco, un altro luogo a cui sono molto legato è l’Istituto per Ciechi che frequentavo all’epoca, in via Vivaio. È una scuola media pubblica sperimentale, che so che vorrebbero chiudere, dove ho potuto incrociare ragazzi di tante realtà differenti, non solo del centro di Milano, che poi è un luogo anche mefistofelico e dannato. Milano ha questa cosa di particolare, che è concentrica in modo pazzesco, mentre Roma è sviluppata in alto. Il centro di Milano, ripensando anche alla domanda di prima, rischia sempre un po’ di rapirti, perché sembra che ci sia solo quello al mondo.

 

E di San Lorenzo, il quartiere dove vivi a Roma, cosa ci dici?

È un quartiere spettacolare, con un’identità molto diversa tra il giorno e la notte. Potrebbe essere come era Kreuzberg a Berlino nel 2006 e invece purtroppo è come San Lorenzo nel 2022, cioè può essere un luogo inutilmente violento, mentre ha delle realtà di quartiere molto fighe e a cui sono molto affezionato. È un quartiere che non ha forse più l’identità di una volta, per l’avidità delle persone che affittano le case a prezzi fuori di testa – per un quartiere popolare in centro a Roma –, ma è un posto bello dove osservare le persone, che alla fine è la cosa di cui ci si nutre quando si fa comicità.

Diccene qualcuno di questi posti che ti ispirano.

Il mio bar di riferimento per bere è il caffè San Lorenzo, mentre il mio baretto della mattina è il Bar Marani, il cuore un po’ radical del quartiere. Mi piace che ti trattino un po’ male fino a che non diventi un cliente abituale, è una cosa che io adoro. Mettici anche che il mio accento è un po’ respingente a Roma, almeno all’inizio, ma a me va bene così. Mi piace molto anche il Chiosco al Parco dei Caduti, soprattutto d’estate. Per mangiare – purtroppo ha chiuso Pommidoro – vado sempre ai Colli Emiliani, una trattoria vecchio stile bellissima, in via Tiburtina.

Al Verano ci vai mai?

Certo, ci vado perché serve a rimettere un po’ i piedi per terra. In più, è come un grande museo d’Italia.

Tornerai mai a vivere a Milano?

È una cosa a cui ogni tanto penso, mi farebbe anche piacere. Però Milano è una città dove è molto bello raccontare storie, Roma è una città dove è molto bello rubarle. Penso che la mia vita sarà ancora per un po’ divisa tra le due città, e va benissimo che sia così.

 

Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2022-06-01