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Michael Anastassiades

L’objet trouvé come nuova pratica di design

quartiere SouPra

Geschrieben von Elisabetta Donati De Conti il 8 September 2021

Fondazione ICA. Ph. credits Eirini Vourloumis

Michael Anastassiades ha rivoluzionato il modo in cui il mondo del design immaginava le lampade, oggetti tecnici che lui progetta in maniera estremamente artistica e multidisciplinare. A Milano però non espone al Fuorisalone 2021 in uno showroom del centro o allo stand di qualche azienda pettinata, ma negli spazi defilati di Fondazione ICA, a sud. La mostra in questione, Cheerfully Optimistic About the Future, presenta alcune sue riflessioni formali inedite, accompagnate dal desiderio di costruire un racconto dalla forte componente handmade. Ecco perché, rispetto agli oggetti rigorosi ed essenziali che normalmente firma Anastassiades, le due installazioni che porta da ICA sono sorprendentemente organiche e con un’impronta spiccatamente naturale, tra una foresta luminosa (al piano terra) e una disposizione quasi tassonomica di sassi e altri piccoli elementi naturali inanimati (nella saletta esterna).

 

Ci racconteresti, dalla tua prospettiva, come mai troviamo il design nei musei?

Prima di tutto, sai, non mi piace mai molto la distinzione tra ciò che è design e ciò che è arte. Il design è nelle istituzioni perché è una tra le tante espressioni creative e anche chi visita le mostre non penso dovrebbe fare tanta differenza tra un’espressione creativa e un’altra. All’arte normalmente, è vero, si dà più credito, ma il design è la nostra realtà quotidiana. A mio avviso quindi, le piattaforme che espongono e valorizzano qualsiasi tipologia di linguaggio creativo, sono elementi fondamentali all’interno delle città ed è importante che i luoghi come ICA facciano mostre. Al piano superiore per esempio, in concomitanza con la mia, c’è la mostra di Simone Fattal e così tra i nostri lavori prende vita una sorta di conversazione. Non è per forza una conversazione consapevole, ma c’è un dialogo che va avanti e che è sorprendente.

Potresti spiegarci la tua mostra?

Nella prima parte dell’allestimento c’è una collezione di lampade da terra, il cui punto di partenza è il bambù. La matrice espressiva quindi in questo caso è partita dalla materia, perché il bambù si trova in natura così com’è e non richiede l’intervento dell’uomo: dal momento in cui lo si taglia può immediatamente diventare un oggetto autonomo o uno strumento. In questo caso gli steli di bambù sono diventati semplici strutture che tengono insieme gli elementi luminosi in questa configurazione. Le fonti di luce sono l’unica componente tecnologica dei pezzi e per questo motivo per me l’installazione rappresenta una foresta. In più le lampade da terra sono disposte nello spazio secondo un tipo di griglia che normalmente si usa per piantare gli alberi; una griglia virtuale in questo caso, che non si può vedere perché non ci sono “segni” a terra che la suggeriscono. E per me è importante che tutte queste metafore coesistano nel mio lavoro.

Le lampade fanno riferimento a diverse specie di alberi o si tratta di un'installazione astratta?

Le lampade non si riferiscono a diverse tipologie vegetali, e per me è fondamentale che diventino ciò che i visitatori decidono di vedere in loro, senza un precondizionamento specifico.

 

Queste lampade si discostano molto dal tuo modo di lavorare con le aziende d’arredamento: questa installazione è l’inizio di uno sviluppo di un nuovo linguaggio? Qual è la tua sensazione?

È un nuovo linguaggio che si basa sul materiale stesso, in termini di imprevedibilità e di come effettivamente lo si guida durante l’elaborazione dell’oggetto finale. Il bambù è un materiale naturale che noi progettisti non possiamo controllare, si piega e dà vita ai suoi anelli nella posizione del fusto che più gli aggrada. Ma il punto è come effettivamente si può lavorare attorno a un materiale con queste caratteristiche e questo penso sia un esercizio molto interessante, diverso dal modo con il quale normalmente agisco. E poi non bisogna dimenticare che l’intera mostra è nata durante il primo lockdown, quindi in un certo senso non avevamo accesso all’industria e volevo che tutto per questa esposizione fosse realizzato da me e il mio team nel mio studio di Londra – abbiamo solamente comprato il bambù su internet!

E la glossary room?

Sono “oggetti” trovati in ambienti naturali o selezionati dalle mie collezioni personali. Insieme formano una costellazione di elementi che, posizionati in relazione dimensionale, di prossimità o di colore gli uni rispetto agli altri, sono parte della sintassi dell’intero progetto.

Cosa diresti per incoraggiare i visitatori a venire a visitare la tua mostra qui a ICA?

Direi soprattutto che ICA è un’istituzione fantastica che penso tutti dovrebbero scoprire e sostenere. Lo spazio è meraviglioso e il programma è fitto e ricco, anche se si trova un po’ fuori città.