Holly Herndon che prende a calci sempre più forti la „retromania“ con le riflessioni evolute e avventurose sulle interazioni fra tecnologia, uomo e comunità di „PROTO“; Kate Tempest che entra in gamba tesa sulla Brexit meglio di Corbyn con „The Book of Traps and Lessons“; FKA twigs che riesce a essere sempre più aliena e rivelatrice irrompendo nel mainstream con un disco che parla (anche) di fede e vulnerabilità, „Magdalene“. Difficile negare che la popular music di fine decennio tocchi alcuni dei suoi picchi massimi di comprensione e rilettura artistica del presente nei lavori profondamente contemporanei, personali, di spessore tanto nella forma quanto nella sostanza di artiste donne – tre, ma ce ne sarebbero varie altre per ogni genere, da Little Simz a Caterina Barbieri. Peccato che in termini di superamento degli stereotipi, l’industria musicale (a ogni livello) sembri più vicina a quella amaramente derisa dalle Slits, presa a spallate da Grace Jones o empiricamente confutata da Suzanne Ciani già quarant’anni fa. Dalla presenza delle artiste donne nei cartelloni dei festival alle opportunità lavorative e di visibilità in ogni altro anello della catena dell’industria musicale (dalla produzione al giornalismo), lo squilibrio tra presenze femminili e maschili è un dato di fatto, principalmente legato a défaillance di dimensioni varie nella buona pratica della meritocrazia e del superamento di tic mentali più o meno radicati nella cultura occidentale. Più che un effettivo problema di business, di vendite o artistico, una questione culturale – matrice comune di gran parte dei grandi problemi della nostra epoca, dalla crisi ambientale all’integrazione.
Senza scomodare (troppo) i massimi sistemi, il bilanciamento del „gender gap“ trova la soluzione non certo nell’inasprimento dei cliché, delle sovrastrutture o delle battaglie, ma in un’informazione chiara e trasparente e nella ricerca di alternative pratiche, inclusive e di rafforzamento della rete di collaborazioni come della valorizzazione delle diversità. Il tema è reale, tangibile e relativamente delicato in ogni settore professionale e la risposta concreta in quello musicale si chiama shesaid.so, rete di professioniste della musica attivissima in ambito internazionale, con diverse declinazioni local in vari Paesi (i „chapter“) e da poco più di un anno viva e presente anche in Italia con shesaid.so Italy. L’occasione per parlarne arriva non solo per il primo anno di attività, ma anche per l’importante presenza del network nell’imminente edizione di Linecheck, festival e meeting dedicato ai professionisti della musica che quest’anno si concentra proprio sul tema della diversità e dell’inclusione, della necessità di multiculturalismo e dell’ugualianza di genere, riassunto nell’hashtag #soundslikediversity e supportato dal progetto internazionale Keychange. Un po‘ di chiacchiere, ma soprattutto molti fatti, che abbiamo chiesto di raccontarci a due professioniste attive ormai da oltre dieci anni nell’industria musicale: Nur Al Habash e Irene Tiberi, rispettivamente Chapter Director e Projects Coordinator di shesaid.so Italy.
Cominciamo con un’introduzione generica su shesaid.so, la rete internazionale prima ancora di quella italiana. Come e quando nasce, sulla spinta di quali esigenze, criticità e obiettivi in particolare?
IRENE: La rete globale nasce dalla mente di Andreea Magdalina, fondatrice del network shesaid.so. A seguito dell’ennesima avvilente riunione di lavoro in cui si trovava a essere l’unica donna tra decine di uomini, ha pensato bene di provare a contattare altre professioniste nella sua situazione. Pochi giorni e una manciata di telefonate dopo, ha messo su le basi di quella che a distanza di 5 anni sarebbe diventata una community globale di oltre 10.000 professioniste provenienti da Europa, Stati Uniti e ogni parte del mondo, comprese India, Turchia, Sudafrica e naturalmente l’Italia. Più che un’esigenza, è stata una vera e propria urgenza nata dal voler creare una rete di contatto per le professioniste della musica, e per cercare in qualche modo di ri-bilanciare il monopolio decisionale maschile in questo settore. Nella rete, tra le altre cose, si promuovono valori concreti e condivisi, che trovano senz’altro ispirazione nel criterio delle pari opportunità per tutti.
Il periodo in cui nasce, nel 2014, è antecedente al movimento Me too, che seppur con qualche stereotipo di troppo ha innescato un’attenzione internazionale necessaria rispetto alle ancora persistenti discriminazioni o comunque alla non effettiva parità tra donne e uomini nel mondo del lavoro e più in generale sotto molti aspetti della vita quotidiana delle società occidentali. Spogliato dell’urgenza di affrontare alcune criticità/cortocircuiti specifici del mondo del lavoro e dal fatto che si tratta a questo punto di un “tema caldo”, in che maniera credi che la piattaforma possa far crescere, valorizzare, per certi versi anche ampliare i punti di forza, le peculiarità delle donne nel mondo della musica?
NUR: Il manifesto di shesaid.so, pubblicato sul sito ufficiale, è molto chiaro a questo proposito. L’accento delle attività e discussioni all’interno della rete è posto su tre concetti fondamentali che hanno a che fare con la positività: collaborazione, diversità e inclusione. Tre concetti che si perseguono attivamente nel network attraverso la rottura degli stereotipi di genere e la creazione di modelli vari e differenti per le future generazioni, aumentando la consapevolezza sulla disparità salariale, dando spazio e visibilità alle professioniste che già raggiungono obiettivi importanti nel loro lavoro e in generale abbattendo ogni tipo di barriera che impedisce alle donne di lavorare serenamente nell’industria musicale. Per raggiungere questi obiettivi shesaid.so ha sviluppato in tutto il mondo tante iniziative, programmi e partnership che stanno dando ottimi frutti, iniziative che coinvolgono ovviamente anche gli uomini. Sempre nel manifesto, infatti, c’è scritto bello grande “men are our allies”. Personalmente non credo che ci siano punti di forza oggettivi e intrinsechi in una forza di lavoro femminile: ogni persona, a prescindere dal background, educazione o genere, può apportare talenti o contributi diversi in un team. Quel che è evidente è che il mondo del lavoro, e quello in ambito musicale non fa eccezione, si priva spesso del talento delle lavoratrici a causa di tare culturali, a volte consciamente a volte no. Oltre che uno svantaggio per le professioniste, è una sorta di auto-sabotaggio delle stesse aziende e dell’industria tutta, perché si sprecano risorse molto preziose.
Passando a shesaid.so Italia: quando è nato, come è cresciuto in un anno, come si sta strutturando e che tipo di feedback sta ricevendo?
IRENE: shesaid.so è arrivato in Italia nell’agosto 2018 e nel giro di pochissimo tempo è diventato un punto di riferimento e una piattaforma stimolante per molte artiste e professioniste del settore che hanno oggi la possibilità di confrontarsi su tantissimi temi, sia all’interno del gruppo Facebook sia e soprattutto durante gli incontri che si svolgono nelle principali città italiane. Il network stimola attivamente la collaborazione: dalla sinergia tra le iscritte sono nati diversi progetti, e c’è spesso uno scambio reciproco di opportunità in uno spirito propositivo e costruttivo che è quello su cui cerchiamo di investire maggiormente. Nel corso di questo primo anni infatti, oltre agli incontri in tutta Italia, abbiamo organizzato dei workshop su temi specifici del settore musicale e, così come avviene per gli altri chapter internazionali, cerchiamo di creare quante più occasioni possibili per sviluppare programmi di mentoring che mirano a creare un ambiente formativo sereno, senza intimidazioni o giochi di potere, per le nuove leve o aspiranti tali, che possono così chiedere consiglio e informazioni alle colleghe più senior. Uno dei nostri slogan è infatti “If she can see it, she can be it”.
Rispetto alla vostra esperienza credete che in Italia questa "tara culturale" sia più accentuata? In che maniera si esprime? Siamo più indietro di altre realtà, come quella americana e anglosassone, anche un po’ in relazione a quelli che storicamente sono i trend musicali, tradizionalmente più legati alla musica leggera/pop e poco propensi alla contaminazione e alla sperimentazione, almeno a livello più emerso?
IRENE: Da questo punto di vista è abbastanza difficile stabilire quale Paese possa davvero dichiararsi all’avanguardia! Certo è che in Italia il divario è piuttosto tangibile. Credo che questo derivi da una cultura sessista talmente radicata – direi di tradizione – e giustificata su più fronti, non ultimo dal condizionamento religioso, che per la maggior parte dei professionisti e professioniste è davvero raro essere pienamente consapevoli dei propri limiti culturali e riuscire a scrollarsi di dosso questi pregiudizi. Nell’ambito musicale questo si traduce spesso nell’apprezzamento di quelle artiste che restituiscono una certa tranquillità, un’aderenza al ruolo della classica cantante che interpreta – e non scrive – grandi canzoni melodiche. Se si sperimentano nuovi orizzonti c’è il rischio di rimanere relegate, nella migliore delle ipotesi, a una dimensione intermedia ma senza raggiungere vette di visibilità. Un discorso valido anche per gli artisti, certo, ma che credo sia ancora più estremo e totalitario per le artiste. Insomma, per fare un esempio concreto, non credo che una FKA twigs italiana avrebbe avuto il suo stesso successo planetario.
Entrando più nello specifico: come responsabile della piattaforma italiana di shesaid.so e con l’esperienza presente e passata prima come editor di Rockit e ora come responsabile dell’ufficio che segue l’export di musica italiana, quali sono le maggiori criticità in Italia per le donne che lavorano nella musica?
NUR: Credo che le maggiori criticità in Italia per le donne che lavorano nella musica siano del tutto simili – se non identiche – a quelle di qualsiasi altro ambito lavorativo. Per fortuna nel nostro Paese sono tante le persone e le aziende progressiste e attente alla diversità che costruiscono ambienti lavorativi sani e inclusivi, ma è innegabile che ci siano dei problemi generalizzati su questo fronte. Di base le donne vengono ritenute, spesso inconsciamente, meno competenti degli uomini, meno degne di responsabilità e soprattutto meno degne di visibilità, riconoscimento e gratificazione. Qualsiasi posizione, ruolo o partecipazione che implichi potere e/o prestigio viene inconsciamente associata alla figura maschile. Da questo „mindset“ tradizionalista deriva a cascata una serie infinita di azioni e comportamenti, con varie sfumature di intensità, talmente tipici da poter essere spesso “codificati”: succede sempre che durante i nostri meeting le professioniste, pur provenendo da città o ambiti lavorativi diversi, riconoscano al volo certi meccanismi sempre uguali. In generale c’è un atteggiamento paternalistico nei confronti delle donne, anche in caso di loro maggiore seniority o anzianità; le professioniste vengono spesso appellate per nome, mentre i loro colleghi presentati con il cognome e/o con il titolo professionale; in caso di occasioni di visibilità o rappresentanza, vengono generalmente preferiti gli uomini alle donne, anche se con minore esperienza o conoscenza della materia; a parità di mansione, succede di frequente che lo stipendio della donna sia più basso. Negli scambi lavorativi quotidiani, accade non di rado che si dia per scontato che la professionista sia un’aiutante qualsiasi e non la persona in charge – a volte addirittura qualcuno continua a voler parlare con “un uomo” nonostante questo. Dopo la maternità, succede spesso ahimé che la professionista venga sostituita e demansionata, punita lavorativamente per il solo fatto di essersi presa dei mesi per partorire. La lista è infinita. Si tratta di una serie di input anche psicologici che minano progressivamente la sicurezza e la fiducia in se stessi: se tutto intorno ti suggerisce che non vali abbastanza e che certi ambienti non sono fatti per te, finirai per convincertene. Questo vale anche se ancora non hai ancora cominciato a lavorare: sono pattern pervasivi nella nostra società ben visibili anche da “fuori”, che motivano a monte le scelte di studio e professionali e che spiegano, almeno in parte, la minore partecipazione femminile anche in ambito musicale. A questo c’è da aggiungere che gli uomini – che solitamente sono in posizioni di potere – tendono spesso a circondarsi di altri uomini per i motivi di cui sopra, creando di fatto un circolo vizioso, una forza centrifuga che lascia un sacco di gente “fuori dal club”. Si tratta di meccanismi mentali, il più delle volte inconsci, che possono adottare indistintamente tutti, a prescindere dal genere o background politico o lavorativo. Nasciamo e cresciamo in una società tradizionalista e cattolica, accorgersi di determinati “tic mentali” ed eliminarli progressivamente non è semplice e non tutti sono disposti a mettersi in discussione in questo senso.
Che tipo di feedback sta ricevendo invece dall’esterno, in Italia, shesaid.so?
NUR: Il feedback è talmente ampio che quasi non riusciamo a gestirlo. Riceviamo in continuazione proposte di collaborazione da parte di festival e varie realtà, oltre che richieste di interviste, documentari, etc. L’interesse su questo tema è maturato nella nostra società molto di recente, non solo al livello degli addetti ai lavori ma anche nel dibattito pubblico – basti pensare alle polemiche su Sanremo o Primo Maggio. Non sempre è veramente costruttivo e non sempre ha delle radici solide, ma già il fatto che si sia sviluppata una flebile sensibilità su questo argomento è positivo.
Come è nata la collaborazione con Linecheck e con che tipo di contenuti e proposte sarà presente shesaid.so Italia nell’edizione di quest’anno?
NUR: Con Linecheck abbiamo sviluppato una partnership importante che include, ad esempio, un supporto nell’individuazione delle speaker e la curatela di alcuni panel. Linecheck è un festival che è stato da sempre molto attento al tema dell’inclusione e del bilanciamento, e già lo scorso anno ci aveva messo a disposizione degli spazi per una riunione generale durante i giorni dell’evento. Da quest’anno sono anche partner italiani di Keychange, un programma europeo sviluppato da PRS Foundation, dal Reeperbahn Festival di Amburgo e tanti altri attori internazionali, che mira appunto al bilanciamento professionale nel mondo della musica. Per questo hanno anche deciso di scegliere questo come tema portante dell’edizione 2019 del festival. In questo senso la collaborazione con shesaid.so Italy è nata in maniera del tutto organica. Oltre al coinvolgimento di diverse speaker, curiamo due panel, uno sulle line up dei festival e uno più generale che affronta questo argomento all’interno della realtà musicale italiana.
Ci sono delle differenze nella gestione della tematica sulla diversità di genere tra "underground" e "mainstream"? Ovviamente considerando tutti i cliché del caso, mi chiedo se nell’underground – un po’ per una vocazione che dovrebbe essere strutturale verso le “minoranze” e il “diverso” - ci sia una reale maggiore reattività e concreta propositività sull’argomento, o se invece i contesti più emersi si trovano a dover fare più attenzione visto il momento “storico”. O se invece poi concretamente la differenza non la fanno i concetti di “nicchia” e “popolare”, ma la fanno i singoli, i casi che fanno tutti storia a sé a prescindere da una specifica tendenza.
NUR: Faccio un po’ di fatica nel 2019 a dividere l’industria musicale italiana tra mainstream e underground, l’unica differenza a cui posso pensare è che il mondo mainstream ha storicamente lavorato con molte più artiste rispetto a quello indipendente, che invece si è relazionato negli anni a un’idea tecnica di “artigianalità” che spesso ha una connotazione molto maschile. In ogni caso credo che la maggiore o minore reattività su questo argomento sia assolutamente trasversale alla tipologia di “scena” o azienda e riguardi invece la mentalità dei singoli professionisti.
Posto che l’aggregazione, la capacità di lavorare insieme e fare rete come persone valorizzando alcune skill o permettendo una circolazione di idee e proposte più libera, in termini di settore e geografici, come fa shesaid.so è sempre un elemento di forza, utile alla costruttività e alla comunità, se pensate a shesaid.so in prospettiva come lo immaginate? la strada è ancora lunga e quindi manterrà perlopiù un ruolo di aggregatore e di tentativo di tutela/rafforzamento delle figure professionali femminili, o pensi che possa aspirare a diventare altro, un aggregatore che non deve preoccuparsi di adempiere a mancanze/lacune/vuoti creati dalla società ma un modo di potenziare, semplicemente favorire delle figure professionali dotate di competenze specifiche?
NUR + IRENE: Già nelle nostre attività presenti cerchiamo di favorire queste figure professionali di cui parli, quindi continueremo su questa strada. Per il futuro ci piacerebbe anche fornire strumenti pratici per sviluppare l’imprenditoria o alcune competenze specifiche – ad esempio la produzione e il mastering musicale. Un altro settore in cui ci piacerebbe espanderci è quello dell’educazione delle generazioni più giovani, per dare l’esempio e far passare il messaggio che la musica e l’industria musicale ha ruoli aperti a tutti, e non solo ai maschi. Per il resto, da un lato il nostro intento è sicuramente quello di supportare le professioniste, fare rete, aiutarle a essere sicure di sé e visibili. Dall’altro è evidente che la creazione di un habitat lavorativo sano non può prescindere dalla collaborazione attiva di tutti, e da un percorso condiviso di autocritica e di crescita umana e relazionale. Solo così l’attenzione si sposterà da “chi è chi” o da “chi sta con chi” a “chi sa fare cosa”, ovvero la tanto citata meritocrazia dalla quale siamo ancora lontanissimi.
I PANEL DI LINECHECK A CURA DI SHESAID.SO ITALY:
GIOVEDì 21 NOVEMBRE 16:00-18:00 (BASE)
„Diversità e inclusione nell’industria musicale italiana: il futuro del femminismo sono gli uomini“
Con: Giulia Mazzetto (Carosello), Maria Giulia Trippa (Goigest), Antonia Peressoni (Indie Pride Aps), Sara Colantonio (shesaid.so Italy, A&R Bassa Fedeltà, Production Manager ‘Na Cosetta), Pietro Camonchia (Metatron/Inri), I’m Not A Blonde
SABATO 23 NOVEMBRE 16:45-17:45 (BASE)
„Line up dei festival italiani: quote rosa o quote blu?“
Con: Maria Antonietta, Gianfranco Raimondo (Ypsigrock Festival), Massimo Bonelli (iCompany), Joslina Cipolletta (Indiegeno Fest/Leave Music)