Ad could not be loaded.

Paola Antonelli

La senior curator del MoMA racconta la sua Triennale Broken Nature

Geschrieben von Lucia Tozzi il 21 Februar 2019

Foto di Gianluca Di Ioia

Wohnort

New York

Attività

Curatore

La scelta di nominare Paola Antonelli – senior curator del dipartimento di architettura e design al MoMA da moltissimi anni e protagonista assoluta dello star system globale del design – come curatrice della XXII Triennale ha determinato l’irruzione nella roccaforte milanese di ricerche e interpretazioni del progetto di design molto diverse da quelle che siamo abituati a vedere. Un modo di esporre e di pensare che abbiamo conosciuto in qualche mostra laterale, o in qualche Biennale di architettura a Venezia, ma che per via della forza culturale e imprenditoriale della nostra tradizione di design non ha mai fatto realmente breccia fino a ora nelle nostre Design Week e nei grandi eventi legati al design che si susseguono senza sosta. Vale quindi la pena di studiarsela bene questa Broken Nature, per cogliere a fondo lo scarto ed elaborarne i contenuti.

 

Una sua recente intervista su FastCompany ha fatto scalpore per la sua dichiarata convinzione che l’estinzione dell’uomo sulla terra sia ineluttabile: uno statement percepito da molti come un eccesso di durezza, una forma di pessimismo radicale e indigeribile. A me pare invece che il senso dell’affermazione e in generale della mostra esprima, al contrario, un pensiero positivo, legato alla fine della famigerata era dell’Antropocene. Mi sbaglio?

Non si sbaglia! È proprio così. A nessuno piace pensare alla morte, né individuale, né collettiva, ma è un fatto di natura. Tanti filosofi, medici, e scrittori hanno cercato di aiutare tutti ad avere un rapporto più “naturale” con l’estinzione e la morte, soprattutto nelle culture occidentali, ma siamo ancora lontani da una vera familiarità con il concetto.
Nel momento in cui accetteremo il destino ineluttabile della nostra specie, potremo cominciare a pensare alla nostra eredità, a quello che vorremmo ricordassero e pensassero di noi le specie del futuro, nello stesso modo in cui quando ci avviciniamo alla nostra morte pensiamo a figli, nipoti, e generazioni future.
C’è grande libertà e creatività nella posizione che propongo al pubblico, trovo.

Due dei concetti cardine della mostra sono l’empatia e la collaborazione, che il design che lei chiama ricostituente dovrebbe contribuire a diffondere tra le persone e gli organismi governativi per trasformare la relazione “rotta” (broken) con la natura, e tra esseri umani, oggi dominante. In quali modi questo può accadere secondo lei? Quali progetti in mostra sono più efficaci da questo punto di vista?

Ce ne sono davvero tanti. È impossibile selezionarne solo uno o due perché è proprio la base della mostra. Ma proviamoci!
Per esempio, una delle opere di Neri Oxman, il Padiglione della Seta, è una collaborazione con i bachi da seta, che diventano gli operai e gli ingegneri di nuove costruzioni architettoniche interamente sostenibili perché fabbricate secondo “leggi di natura“.
Un altro esempio, Agua Carioca di Ooze Architects, cerca di sfruttare tradizioni e stratagemmi naturali per risolvere, almeno in parte, il problema dell’acqua potabile e della sanità a Rio de Janeiro.

Puntare su valori incontestabilmente positivi non pone il rischio di sottovalutare il ruolo fondamentale – e la presenza strutturale – del conflitto nelle dinamiche di cambiamento?

Io considero il conflitto molto positivo! La vera negatività è la pigrizia, mentale e politica.

Con Broken Nature ha sempre ribadito la volontà di presentare, accanto alle ricerche più contemporanee, dei progetti ormai considerati “classici”, pubblicati e conosciuti, se non dalle grandi masse, dalla grande maggioranza degli esperti del settore, dagli informati. Come ha scelto di presentarli, nella loro veste originale o nella loro evoluzione, con tutti i segni del tempo?

Come classici, per la verità, non andiamo oltre i vent’anni fa… All’inizio avremmo voluto fare una stanza separata per questi casi, ma poi ci siamo resi conto che la narrazione richiedeva che alcuni di questi pilastri fossero proprio parte del percorso museale. Sono quindi disseminati tra gli altri oggetti in mostra, senza segni particolari.

Broken Nature è una mostra molto densa, sia fisicamente che concettualmente. Come ha organizzato questa densità?

L’importante è restare fluidi, non separare la mostra in troppe sezioni, ma passare quasi impercettibilmente dall’una all’altra, con cambiamenti di scala che sono suggeriti e non prescritti. È difficile spiegarlo a parole, lo vedrete nelle gallerie.

Molto spesso, nei discorsi più diffusi sull’utilità di apprendere da ecosistemi umani e naturali considerati - spesso a torto - deboli, inferiori o svantaggiati, ricorre l’insidioso termine “resilienza”, per mostrare le straordinarie strategie di sopravvivenza nelle situazioni più disperate ed emergenziali. Quello che viene costantemente rimosso da questa galassia di pensiero è il dato della competizione feroce che presiede ai processi di sopravvivenza, scarsamente compatibile ad esempio con quelle forme di democrazia che vorremmo preservare, fondate sulla protezione dei più deboli. Che ne pensa?

Questa è una dichiarazione, più che una domanda, e richiederebbe una conversazione lunga. La lasci nell’intervista, però, è un modo provocatorio di aiutare la gente a pensare (ed è giusto che anche lei esprima le sue convinzioni!).

Quali sono state le mostre o eventi di design passate, nel mondo, che lei ricorda come più interessanti, e perché?

Ce ne sono tante!
Mi ricordo per esempio Design Miroir du Siècle al Grand Palais di Parigi nel 1993, una mostra sterminata e ambiziosa, piena di capolavori, di errori, e di coraggio.
Modern Masks and Helmets al MoMA nel 1991, curata da Cara McCarty, la curatrice che mi ha preceduto. Sembrava una mostra di antropologia.
Utopian Bodies alla Liljevalchs Konsthall di Stoccolma nel 2015, una mostra di moda e politica meravigliosamente installata e molto provocatoria, curata da Sofia Hedman e Serge Martynov.
E anche Neo Preistoria – 100 verbi di Andrea Branzi e Kenya Hara alla Triennale nel 2016, una mostra splendida che mostra come l’idea di progetto moderno sia antica come il mondo.

Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2019-03-01