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PARCO

"Vado al Parco!" così la galleria e studio di graphic designer Parco ha rivoluzionato il “vado al lavoro”.

quartiere Centrale

Geschrieben von Annika Pettini il 21 Februar 2022
Aggiornato il 18 Februar 2022

Emanuele Bonetti, lucchese classe 1985 e Loredana Bontempi, bresciana classe 1985, sono i cuori fondatori di Parco – Studio e Gallery. Una realtà che si occupa di graphic design senza fermarsi allo schermo del computer.
Ogni tanto nella vita capitano incontri cruciali, che sono destinati a cambiarla per sempre, a influenzarne le scelte e la forma. Un po’ così è andata anche la storia di Emanuele e Loredana che hanno fatto del loro incontro al Politecnico la loro professione e del confronto la base per sperimentare, accogliere e creare contenuti impegnati attraverso il design grafico.
Ma soprattutto li ha cambiati il loro arrivo a Centrale, dove hanno aperto la nuova sede del loro studio e della galleria che li caratterizza. Parco è uno dei pochi progetti di graphic design che si prende la briga di non lavorare solo con i clienti ma anche con il pubblico, offrendo uno spazio per mostre, incontri e una curata selezione di libri. Il tutto si affaccia su quattro grandi vetrine in via Zuretti, per fondersi e dialogare costantemente con il quartiere e chiunque abbia voglia di sbirciare.

«la comunicazione può cambiare tante cose, quindi non riusciamo a non assumerci la responsabilità di questo ruolo e abbiamo scelto di veicolare contenuti che condividiamo.»

 

Noi adoriamo le persone. Crediamo davvero che gli esseri umani abbiamo delle storie bellissime da raccontare. Ci raccontereste la vostra? Che tipo di bambini eravate? Che scelte vi hanno portati qui oggi?

Emanuele

Sono originario di Lucca, mi sono trasferito a Milano a 19 anni per studiare al Politecnico Design della Comunicazione – dove ci siamo conosciuti.

Ho fatto il primo tirocinio da Left Loft, quindi ho passato un anno tra Oslo e Londra, al tempo ci si spostava all’estero a fare colloqui, che ripensato oggi fa quasi ridere, non esiste più, due anni a Rotterdam (anche lì eravamo insieme per la specializzazione in Media Design), poi Lucca, Genova, … tutti trasferimenti legati alla crescita e alla formazione. A Milano sono tornato tra fine 2011 e inizio 2012 e da lì sono rimasto.

 

Sono il più piccolo di 5 sorelle, da bambino avevo dei bellissimi boccoli neri ed ero super tranquillo, tipo soprammobile: disegnavo, giocavo con i Lego, scrivevo. Avevo una passione fortissima per il disegno iniziata con i fumetti, i Cavalieri dello Zodiaco e poi adoravo le scatole e le scatoline. Il passaggio dai Lego al computer è stato illuminante: quando ho scoperto Paint, ciao! Fantasticavo di farci un videogioco, anche se capivo che c’era qualche passaggio che mi mancava e non mi era chiaro.

 

Anche tra noi ci chiediamo spesso da dove sia nata la nostra passione per la grafica e abbiamo scoperto che entrambi eravamo fissati con le copertine: io rifacevo tutte quelle dei cd e delle cassette che avevo. Da adolescente avevo un compagno che vendeva cose pirata e mi dava fastidio che non avessero le copertine con immagine coordinata.

 

Loredana

Ero una bambina molto timida con una sorella molto più grande di me e quindi mi trovavo spesso a giocare da sola e disegnavo in continuazione. C’è una storia (per me quasi un trauma) che mi torna in mente tutti gli anni verso Natale: avevo circa 4 o 5 anni e all’asilo ci avevano fatto fare il classico lavoretto manuale da portare a casa. Dovevamo colorare Babbo Natale e io mi ero entusiasmata, mi ero concentrata tantissimo e alla fine ero felicissima del risultato, solo che quando ho alzato gli occhi mi sono resa conto che tutti gli altri lo avevano fatto del rosso giusto, mentre io avevo usato un magenta – che quindi non rispettava l’immagine corretta di Babbo Natale. Ho fatto una scenata pazzesca e non volevo assolutamente portarlo a casa. Credo di aver sempre avuto qualche fissa con i colori

Con l’arrivo del computer giocavo con il DOS a Lemmings e Prince of Persia ma il gioco che mi aveva stregata si chiamava Fine Artist e Creative Writer, che era un tipo di Illustrator per bambini e ci ho perso l’infanzia lì sopra. Il resto delle scelte le ho fatte seguendo le strade che mi permettevano di passare più tempo a disegnare: ho frequentato un bellissimo liceo artistico sperimentale a Brescia, ricco di attività, e poi il Politecnico in Design della Comunicazione. Da lì un tirocinio ad Amsterdam, poi Londra, poi Rotterdam per il MA e infine Russia, ma quasi per caso.

Siete soci da tanti anni. Come e quando vi siete incontrati? In che modo la partecipazione reciproca nelle vostre vite ha influenzato ricerca e lavoro?

(L) Ci siamo incontrati al Politecnico nel 2004 e mi ricordo di aver avuto un flash: era il primo mese di università e Emanuele stava facendo revisione e ho pensato “questa persona ha qualcosa” ed eccolo qui.

Abbiamo capito subito, fin dai primi scambi, che ci influenzavamo in modo costruttivo. Il primo progetto insieme lo abbiamo fatto solo al terzo anno, però già da prima avevamo iniziato a confrontarci su ogni lavoro, su cosa significa fare il graphic designer e su come la collaborazione, il confronto e i feedback, influissero in modo positivo su quello che producevamo. Abbiamo iniziato a capire l’importanza della collaborazione all’interno del processo creativo e del conflitto – anche se aspro e non facile – ma elemento fondamentale di crescita. Nel momento in cui questa dinamica è partita siamo cresciuti tantissimo e, se non fosse esistito questo confronto tra noi due, avremmo portato avanti progetti molto diversi.

Insieme siete Parco - Studio e Gallery. Domanda classicone: come mai questo nome?

Inizialmente avevamo due nomi diversi – come studio e come galleria – da quando siamo qui ci siamo resi conto che creava grande confusione e anche che eravamo cambiati, quindi abbiamo condensato e siamo arrivati a Parco, che ci rispecchia di più. Perché così quando vai a lavoro puoi dire vado al parco.

Ci spieghereste il ruolo della vostra figura professionale e il vostro modo di esserlo e realizzarlo?

È una ricerca, non è una verità. Abbiamo un’idea ma i confini sono labili e in cambiamento perché siamo in relazione con la società e in essa svolgiamo un ruolo. Vediamo il contenuto come fine principale della comunicazione, e il visivo può dare una mano a farlo arrivare alle persone. Ci siamo resi conto, grazie all’esperienza con Parco Gallery, che ci sono tanti “tipi” di graphic designer, che esistono tanti modi di esserlo con infinite sfumature per farlo e che il confronto con i colleghi, soprattutto quelli vicini, ci porta sempre lontano mostrandoci i diversi metodi e approcci.

Per noi il design grafico è uno strumento per organizzare i contenuti e renderli fruibili ancora prima che affascinanti. Anche se la bellezza ovviamente è fondamentale, è un innesco, è un modo per rendere qualcosa accogliente e non la diamo per scontata – ci deve essere – però non è il fine.

 

Nella nostra dichiarazione di intenti parliamo di “worth sharing content”: contenuti che valga la pena di condividere. Da un certo punto di vista è anche un’accezione anche molto personale, ma tutto nasce dalla consapevolezza del potere delle immagini. Il visivo, l’advertising, la tv, hanno un potere enorme sulle persone e sulla società, la comunicazione può cambiare tante cose. Quindi non riusciamo a non assumerci la responsabilità di questo ruolo e abbiamo scelto di veicolare contenuti che condividiamo.

Siamo anche molto affascinati dalla collaborazione: l’unione di più cervelli crea risultati innovativi, ciò che portano gli altri è stimolante e per questo crediamo molto nei processi con più input.

Portate avanti uno spirito molto accogliente, sia verso colleghi che progetti differenti. Che cosa vi spinge a farlo? Con quali principi e in che modo scegliete a chi e come avvicinarvi?

(L) Alla base c’è probabilmente il fatto che incontrandoci abbiamo capito la forza della collaborazione.

C’è stata anche un’altra esperienza che ci ha insegnato molto: non è l’unica motivazione ma crediamo che condividerla sia importante. Le tesi della triennale sono state le prime collaborazioni costruttive, passavamo tutto il tempo a parlarne. Durante il processo i professori si sono accorti di questo scambio e si sono convinti che Emanuele stesse realizzando anche la mia tesi in quanto donna. È stato il primo scontro duro con il maschilismo che pregna il nostro settore. Mi hanno chiesto in modo esplicito se lui aveva realizzato dei pezzi per me.

Non è stato facile, ti rendi conto che non hai gli strumenti per leggere quello che stai vivendo e te lo porti dietro per un po’.

Anche dopo, quando siamo entranti in ambito professionale, abbiamo incontrato spesso clienti che consideravano Emanuele più capo o più prezioso di me, quindi man mano abbiamo affinato la selezione. Però è dura perché devi imparare a riconoscere questi meccanismi senza darli per scontati, nel senso che spesso non riesci a vederli o sembra così normale che neanche te ne accorgi.

Internamente allo studio abbiamo lavorato tanto per garantire un bilanciamento crediamo nell’investimento del gruppo, che va al di là della bravura ma a favore di un sistema funzionale.

Stiamo riflettendo anche sull’essere riconosciuti nel valore che possiamo dare, deve esserci un ingaggio e una condivisione di principi da entrambe le parti. Questo ci ha portato nel tempo a lavorare soprattutto su temi artistici, socio culturali, design, design del prodotto, e con architetti e urbanisti. A selezionare i progetti e i clienti in base a qualcosa che da’ valore alla società e al mondo, prestando attenzione ai linguaggi contemporanei e al sociale.

Avete scelto una nuova zona della città per le vostre sedi: il quartiere Centrale. Come mai? Cosa vi ha spinto a scegliere questa zona?

Ci siamo capitati. Abbiamo trovato questo spazio ed era esattamente quello che cercavamo.

Era come avremmo voluto lo studio: quattro vetrine su strada.

Il quartiere ci è piaciuto subito, prima eravamo in Sant’Agostino/via Savona che è una zona un po’ sedimentata, molto ferma, qui invece c’è un senso di potenziale. Potrebbe succedere qualcosa in ogni momento, ma al tempo stesso speriamo che non succeda troppo in fretta o almeno che lo faccia in modo interessante.

Ci raccontate un po’ il quartiere dal punto di vista del vostro lavoro? È cambiato qualcosa da quando siete qui?

Sicuramente il cambiamento più influente è il fatto di aver portato nello stesso spazio la galleria e lo studio. Prima erano in due luoghi diversi di cui uno accessibile al pubblico, la galleria, e l’altro no, lo studio. Avendo tutto insieme siamo anche riusciti a fare della galleria uno strumento di ricerca personale: gli eventi, i talk, ma anche la selezione di libri, sono una risorsa infinita a cui possiamo accedere quotidianamente. Tutto è unito e possiamo trovare altre forme di noi.

 

E poi il fatto di avere quattro grandi vetrine ci obbliga ad essere più ordinati!

Essendo su strada si instaura un dialogo con la zona che altrimenti non avresti. Hai tante interazioni con il quartiere perché la gente ti prende come punto di riferimento – dalla signora del palazzo che saluta ai bimbi che corrono a vedere Hulk in vetrina.

L’attività della galleria deve andare dal pubblico del quartiere a quello internazionale, portiamo qui quello che sappiamo e facciamo e lo condividiamo con la gente attraverso la galleria e gli eventi, nella speranza di trasmettere un punto di riflessione altro sul design grafico.

Avete scelto Centrale anche come luogo per vivere. Quali sono i top e i flop della zona.

Sicuramente gli spazi pazzeschi abbandonati sotto la stazione: le ferrovie hanno un sacco di luoghi dismessi veramente enormi che hanno il fascino della potenzialità di cui parlavamo e che potrebbero diventare bellissimi o rimanere un buco nell’acqua.

Top: Reverend e la Martesana. Per andare a casa ti fai la ciclabile fino a via Padova e poi il Tram Vai è proprio qui dietro.

Questa zona sembra un pò una Milano di 15 anni fa, anche se sta già cambiando molto. È una Milano diversa – molto meno costruita e più autentica.

Flop: parcheggi parcheggi parcheggi, via Zuretti è un parcheggioneZero alberi e solo posti auto, rastrelliere per le bici non pervenute.

È un po’ indietro da un punto di vista di vivibilità quotidiana, è un crocevia tra posti lontani e mal collegati. Nel tunnel sotto la stazione poi non c’è neanche la pista ciclabile ma solo altri parcheggi.

Speriamo per Milano che nel giro di dieci anni ci siano più alberi che automobili. Più parchi – meno parcheggi.