A inizio lockdown, a marzo, uno striscione governa lo spazio del Pavese, nei pressi di via Gola. C’è scritto “The Power of Love”, che potevate anche leggere al contrario, una frase specchiata nell’acqua del Naviglio. Era Vittoria de Franchis, che tra performance artistiche, ecologismo e organizzazioni culturali del ballo come il Terraforma, racconta dei suoi Navigli e della sua ricerca.
Durante il primo lockdown hai realizzato una performance sul Naviglio Pavese molto “Manifesta”, concedimi il joke con la nota Biennale, puoi parlarci della sua genesi e della sua mise en forme?
La genesi di The Power of Love risiede in Spatialization-Narration (la spazializzazione della narrazione), la pratica che caratterizza le mie performance e installazioni. Il fulcro di Spatialization-Narration sono le parole, considerate come agenti topografici capaci di avere un impatto diretto sul nostro modo di intendere lo spazio e il contesto. Le parole come strutture architettoniche che ospitano narrazioni e ti invitano ad abitarle.
La spazializzazione avviene principalmente su superfici duttili, come la tela, che si adattano agli spazi nei quali sento sia necessario che compaiano determinate parole. La performance genera delle scene temporanee attraverso, in cui il narratore si ricongiunge con il suo ruolo di “architetto della storia”. La performance è il catalizzatore della trasformazione della narrazione in spazio narrativo. È come scomporre un libro, e creare con esso una piattaforma mobile per la metamorfosi.
The Power of Love ha avuto luogo l’8 marzo 2020, giorno in cui è uscito il primo DPCM che parlava di lockdown. È stata un’azione collettiva intesa a trasformare il ponte di Via Gola in un display di empatia, un gateway che trasformasse anche solo per un breve momento l’osservatore. L’unione di queste due parole “power” e “love”, spesso opposte, ha generato un nuovo spazio, un locus amoenus volatile.
La centralità della parola e dell’elemento acquatico sono due key-points della tua pratica artistica – come vivere qui, sui Navigli, ti ha aiutato a sviluppare queste due tematiche ontologicamente così interconnesse nel tuo lavoro?
Ogni luogo ha una sua narrazione intrinseca, a tratti più esplicita e a tratti silente. Il Naviglio è impregnato di tante storie, è una sua mappa emotiva, una Carte du Pays de Tendre. Penso che ognuno di noi rappresenti e immagini la città in modi diversi. Per esempio, io ultimamente faccio molta difficoltà a relazionarmi con le mappe geografiche, mi sembrano apatiche, delle immagini bidimensionali.
Ho sempre vissuto sui Navigli a Milano, prima sul Grande e ora sul Pavese. Qui l’acqua è ovviamente una presenza molto forte, una sorta di scrigno che cambia, e ogni giorno svela qualcosa di nuovo attraverso i suoi riflessi e le sue trasparenze. Il Naviglio è una casa che abito e che mi abita. E più uno conosce qualcosa, più si ripetono le visioni, più siamo capaci di approfondire e scoprire nuove cose. Come ha detto Vincenzo Castella in una conversazione con Domingo Milella per Fantom: “La città è un insieme di oggetti del desiderio, una grammatica del possibile che si dispiega in un mare di segni e forme”.
L’ecologismo è una delle tue bandiere. C’è una dimensione green nei tuoi Navigli e come la coltivi nel tuo quotidiano? Hai ceduto a qualche piacere gourmet take-away in zona in questo periodo?
ll fulcro della mia pratica green sta in Via Gola da Soul Food, un piccolo negozio di alimentari biologico dove faccio la spesa da un paio di anni, da quando ho deciso di evitare il più possibile i supermercati. Penso che cambiare i nostri consumi e renderli consapevoli e sostenibili siano scelte politiche essenziali se vogliamo cambiare qualcosa.
Soul Food è gestito da Andrea, un signore napoletano che conosce tutte le storie delle sue verdure, le uova, il vino, i formaggi. Tutto ciò che c’è in quel negozio è completamente naturale, proviene da cascine limitrofe e produttori indipendenti. Ogni volta che vado a ritirare il mio ordine finisce che chiacchiero a lungo con Andrea, e l’aspetto del dialogo è fondamentale, per certi versi profondamente legato al commercio del cibo. Basta pensare che originariamente il mercato era il centro della vita sociale: non avremmo metropoli senza un porto o una grande piazza per il mercato. Con lo sviluppo dei trasporti, in primis la ferrovia, il cibo ha cominciato a essere processato fuori dalle città, così lontano che sono diventati necessari conservanti e packaging. Abbiamo progressivamente perso il contatto con ciò che mangiamo. Soul Food è il cuore della mia Sitopia (Carolyn Steel).
I Navigli mi sono sempre sembrati un crocevia di temporalità; adesso che sono epurati dal caos cosmico della Movida, secondo te in che periodo ci troviamo?
Ci troviamo in un limbo. Non penso che nessuno si ricorderà il Naviglio svuotato e sospeso com’è adesso, tendiamo a cancellare immediatamente i nostri traumi. È interessante che usi la parola “Movida”. Non se n’è mai parlato così tanto come durante la pandemia, come se anche la Movida fosse diventata virale. Come se il virus fosse anche quello dell’informazione, della notizia mediatica che ha trovato nella festa il capro espiatorio. Trovo tutto questo piuttosto preoccupante, se prendiamo anche in considerazione il fatto che ci si interessa davvero poco degli effetti emotivamente devastanti che questa crisi avrà sui giovanissimi e gli adolescenti. Seppur siano solo una parte dello spettro delle persone colpite, c’è da dire che liceali e universitari sono tra quelle categorie per certi versi censurate: non possono esprimersi e non vengono proposti nemmeno strumenti adeguati a comprendere questo momento. Piuttosto, mi pare vengano sollecitati a chiudersi e nascondersi, a sentirsi colpevoli, a chiudersi. Ecco forse in questo momento i Navigli riflettono a pieno questa problematica, non a caso è stato il luogo preferito della televisione negli scorsi mesi.
Qual è secondo te il ruolo dell’arte in un periodo come questo? Cosa dovrebbero fare le istituzioni museali per supportare gli emergenti? E c’è un museo a Milano al quale guardi con ammirazione per come si sta comportando in questo periodo o vedi un certo torpore e impreparazione ad affrontare la contingenza generalizzata?
Questa è una cosa su cui ho riflettuto molto ma non penso ci sia una risposta univoca. È ovvio che in un momento di crisi il ruolo dell’arte è ancora più fondamentale. L’arte è forse l’unico strumento che permette all’individuo di trasformare il presente, di immaginare, di capire e andare oltre il trauma. Vorrei qui citare Beuys che è una tra le mie maggiori fonti di ispirazione di sempre:
„Un momento di crisi è avvenuto in ogni fase della storia. Io l’ho sperimentato nella guerra. L’aspetto positivo è l’inizio di una nuova vita, il tutto è un processo terapeutico. Per me è stato il momento in cui ho capito il ruolo dell’artista nell’indicare i traumi di un’epoca e avviare un processo di guarigione. Con questo voglio dire che ho visto la relazione tra il caos che avevo vissuto e il processo di scultura. Il caos può avere un carattere curativo se è accoppiato con l’idea del movimento aperto per incanalare l’energia caotica in altre forme„. (Joseph Beuys, Transformer, 1979)
Non penso che abbia senso giudicare i musei su come stanno approcciando l’incredibile difficoltà in cui si trova il mondo dell’arte, soprattutto nel suo ruolo marginale che ricopre oggi. C’è chi ovviamente sta portando avanti dei formati digitali che trovo interessanti, come i progetti online della Fondazione Prada a Milano, dal percorso multidisciplinare legato agli studi del cervello Human Brains e i saggi visuali di Finite Rants.
Penso piuttosto che questo sia un momento di riflessione sul ruolo del museo rispetto alla collettività e alle sue trasformazioni, discorso che pur essendo in atto già da vari anni si è intensificato durante la pandemia, grazie a questa corsa accelerata verso la digitalizzazione.
Come ha detto anche Carolyn Christov-Bakargiev, in occasione dell’iniziativa del Castello di Rivoli Digital PTSD, La Pratica Artistica e il Suo Impatto sul Trauma Digitale, “Il Museo del futuro potrebbe essere un luogo di negoziazione in cui sia possibile sperimentare un sistema meno binario di quello che vede contrapporre il digitale al fisico, un luogo in cui interpretare il nuovo regime epistemico in cui troviamo (come suggerisce Paul B. Preciado), uno spazio in cui all’improvviso quello che apparteneva prima all’ordine del simbolico – come un dipinto – diventi l’immaginario al quale accediamo tramite il simbolico”.
Last but not least vorrei menzionare l’incredibile lavoro che sta facendo Art Workers Italia per gli artisti. AWI è un’associazione autonoma e apartitica nata con l’obiettivo di dare voce allз lavoratorз dell’arte contemporanea in Italia, nata l’anno scorso in piena pandemia, in un momento in cui finalmente chi aveva possibilità ed energie per dare forma a un movimento di questo tipo, lo ha fatto. Art Workers Italia ha come obiettivo quello di diventare un riferimento per art workers, ponendosi come interlocutrice di policy makers e istituzioni. In questo senso spero in un progressivo miglioramento delle condizioni e delle possibilità dellз artistз emergenti e in un’auspicata regolamentazione dei lavoratori dell’arte. “Not an artwork but art work”.
Stai progettando un qualcosa di nuovo che ci vuoi anticipare?
Sto lavorando a due progetti a Bomarzo, un borgo incredibile e mitico della Tuscia, centro del parco archeologico più grande d’Europa. E’ un luogo al quale sono legatissima sin dalla mia infanzia e in cui vado più volte all’anno. A Novembre 2020 ho passato lì un mese per fare ricerca durante il lockdown, ponendo le basi per la realizzazione di due interventi ai quali pensavo da tempo.
A giugno avrà luogo a Bomarzo, in un palazzo storico parte del Palazzo Orsini, la seconda edizione di Nuova Atlantide: un workshop in formato residenziale che ho fondato l’anno scorso insieme a Francesca Mariano. Nuova Atlantide è un esperimento pensato per un gruppo di quindici persone che ha come fulcro il movimento, il linguaggio e il rapporto con il paesaggio. Il programma si sviluppa lungo una settimana ruota intorno a una continua sperimentazione tra ricerca e fantasia attraverso workshop, lectures, proiezioni, performance collettive, dibattiti e Misteri di Atlantide. Ogni edizione esplora un enigma archeologico e le sue realizzazioni nel presente.
Sto anche lavorando insieme ad un altro progetto che dovrebbe realizzarsi in uno dei luoghi più suggestivi che conosco: il Sacro Bosco di Bomarzo (anche noto come Parco dei Mostri). „Una Cosa Mostruosa“ avrà luogo il 17 luglio attraverso contributi di Etrusca 3D (Francesco Cavaliere e Spencer Clark), Giulio Scalisi e Antonio Rocca, storico dell’arte e ricercatore tra i maggiori esperti del Sacro Bosco. Non vediamo l’ora di svelare di più!
Sei da anni impegnata nella comunicazione di Terraforma; come siete sopravvissuti in questo ultimo anno e come vedi il futuro del clubbing “sostenibile” o no nel futuro prossimo della nostra città?
Con Terraforma stiamo trasformando questo momento difficile in un’occasione per riflettere e sviluppare progetti in sintonia con quello che stiamo vivendo. Ad aprile 2020 abbiamo iniziato un programma biennale di piantumazione di cento alberi, tra querce, frassini e tigli nell’area del campeggio di Terraforma. È stato bellissimo ritrovarsi in piena pandemia a Villa Arconati e piantare degli alberi giovanissimi che vedremo crescere negli anni: un segnale di una rinascita. Un altro progetto è stato quello di Radio Safari e i “Sounds of Villa Arconati”, un prezioso lavoro che ha portato gli ascoltatori in una passeggiata immaginaria, nel parco che ospita il festival, attraverso i suoni degli animali che lo abitano. Inoltre, a settembre abbiamo inaugurato una nuova linea progettuale: Il Pianeta come Festival. Il primo episodio ha trasformato Milano in una mostra a cielo aperto attraverso una serie di affissioni con le re-interpretazioni dell’omonimo, iconico lavoro di Sottsass di TCF, Alessandro Bava, Natália Trejbalová e una sonorizzazione di Piezo. L’intento in quest’anno è stato quello di terraformare nuovi paesaggi attraverso gli elementi che ci contraddistinguono: il suono, l’architettura e la sostenibilità.
Il ballo è intrinsecamente sostenibile: una pratica attraverso la quale si perde un equilibro per trovarne uno più libero, empatico, collettivo. I club sono tra i pochi luoghi che rendono una città vivibile, umana, alla pari dei parchi, lì è permesso lasciarsi andare e riconnettersi al corpo. In questo momento tutto il sangue è concentrato principalmente nella nostra testa, la perdita di connessione con il corpo (il nostro contesto) implica ancora di più un allontanamento rispetto alla vitalità e energia di tutto ciò che circonda e di cui soprattutto siamo parte! Sin dalla sua nascita il club è stato un luogo fondamentale per l’emancipazione, soprattutto per tutti coloro che non si sentivano accettati nella società, per i movimenti LGBTQ. Sul dancefloor vengono meno le differenze di genere, di razza, le discriminazioni di qualsiasi tipo, è possibile sentirsi “parte” di un movimento che è unito dalla musica, dalla condivisione di un momento di estasi e rilascio. I club saranno sostenibili quando saranno parte fondante composizione sociale-istituzionale. Questa integrazione rappresenterà anche un’accettazione di tutte le minoranze che sono riuscite a trovare uno spazio di libertà nella musica. Il futuro sta in una progressiva e sempre maggiore tutela dei club come luogo essenziale per l’equilibrio della società.
Per chiudere ti chiederei di comporci un haiku dedicato a questi canali artificiali?
Meta
È
Metamorfosi