Le sue dita scivolano con ritmo perpetuo e circolare sui tasti bianchi e neri come le braccia del nuotatore girano nell’acqua. Ma pure se Lubomyr Melnyk è considerato il pianista «più veloce al mondo», come per il nuotatore anche per il compositore ucraino non è una mera questione di potenza e rapidità. È tecnica. E meditazione. Una dimensione nuova tra il corpo e la mente, lo spazio e il tempo, il misticismo e la disciplina : «Quando suono mi trasformo in un’aquila che vola, un delfino che nuota, un ghepardo che corre. Mi trasformo nella pioggia, nelle nuvole, nel colore del cielo».
Lubomyr Melnyk che dopo anni da “outsider” è divenuto un culto diffuso oltre l’avanguardia e l’underground, Lubomyr Melnyk che dagli anni Settanta ha inventato una rivoluzionaria tecnica pianistica, chiamata anche “kung-fu piano” (oltre che “continuous music”), fatta di cascate di note dense eppure fluidissime, senza le quali non esisterebbero stelle della “modern classical” tipo Nils Frahm. Lubomyr Melnyk che come altri sperimentatori del linguaggio musicale, da Michael Rother a Kaitlyn Aurelia Smith, ha imparato la lezione di Terry Riley e l’ha liberata nel proprio personale abisso sonoro – e non a caso tra le sue opere ci sono titoli come “Rivers and Streams” e “The Pool of Memory”.
Il suo ritorno in città per Romaeuropa è legato alla presentazione dell’ultimo album “Fallen Trees” e alla performance di un altro “profeta” della musica circolare e ipnotica, in questo caso digitale: Craig Leon, con le origini extraterrestri del mondo civilizzato messe in musica in “The Canon”. “Immersivo” come quello di Melnyk, ma fatto di loop elettronici anziché pianistici, il flusso sonoro del produttore che ha lanciato parte dell’onda lunga americana dei 70 (Suicide, Talking Heads, Blondie, Ramones) sarà accompagnato da visual e dalla sensazione di farci scorrazzare per un paio di ore sul ponte di Einstein-Rosen.
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Written by Chiara Colli