Un viaggio a metà tra antropologia e arte contemporanea, in compagnia di una delle tribù che più hanno colpito l’immaginario e gli studiosi occidentali: i Pirahã. I Pirahã sono semi-nomadi, cacciano pesce lungo il fiume muniti di soli arco e frecce, raccolgono e non coltivano. La cosa che di loro più affascina, però, non è tanto lo stile di vita “pluviale”, quanto la loro cultura e, soprattutto, il loro linguaggio, tant’è che spulciando in rete li potete trovare anche descritti come la popolazione più felice sulla terra.
I Pirahã, infatti, non hanno numeri, ma solo il concetto di poco e tanto; conoscono solo due colori che corrispondono a “scuro” e “luminoso”; non conoscono date né hanno calendario; non concepiscono la proprietà e per loro la non coercizione ha un grande valore, per cui non stabiliscono gerarchie sociali di nessun tipo; hanno una cosmogonia complessa, ma nessun tipo di fede; dormono a intervalli più o meno regolari (dai quindici minuti alle due ore) per cui sono sempre proiettati nel presente. Aspetto, quest’ultimo, che si riflette moltissimo nel loro linguaggio e che ha messo in crisi niente di meno che la teoria sulla grammatica universale di Noam Chomsky.
L’artista Julien Bismuth ha trascorso assieme all’antropologo Marco Antonio Gonçalves diverso tempo assieme ai Pirahã e quello che proporrà in mostra alla Nomas sarà solo una parte del materiale prodotto: video, immagini, foto, testi, ma soprattutto domande su quello che è diventato il mondo occidentale e su come un rapporto con la terra che normalmente e velocemente viene classificato come primitivo, possa, grazie a una capacità di preservare le risorse piuttosto che sfruttarle fino all’esaurimento, mostrarsi futuribile. Specialmente se il presente fa rima con Bolsonaro.
Written by Nicola Gerundino