Invece di una recensione, vi proponiamo un’intervista al curatore Marco Scotini, che avevamo già intervistato un anno fa, a cura di Valentina Rossi in occasione della mostra:
ZERO: Il cacciatore bianco rispetto ad altre mostre in cui vi era un tentativo – riuscito o meno – di immedesimarsi in modelli artistici diversi, esplicita chiaramente la lettura dell’arte africana attraverso l’utilizzo di un canone occidentale. Quali sono i risultati della ricerca? Come è stata fatta la selezione degli artisti?
Marco Scotini: Fin dal titolo la mostra dichiara la posizione dell’osservatore. Cioè il luogo stesso da cui noi (bianchi e occidentali) stiamo guardando. Se la mostra non lo facesse si tratterebbe della riproposta di uno sguardo ancora colonialista che si autopresume universale e neutrale. Invece per noi quello sguardo è quello del Cacciatore Bianco: dunque piuttosto una mira, uno sguardo predatorio, ecc.; insomma tutt’altro che innocente. Per questo la prima sala di Pascale Martine Tayou corrisponde ad una capanna africana con tutte le attrazioni per il turista che, una volta percorsa, scopre nel proprio DNA di essere stato colonialista. Dunque la seconda sala lo catapulta nell’Italia degli anni ’20 e ’30 quando la nostra nazione aveva le colonie d’Oltremare. E questo aspetto del posizionamento lo ritrovo nel cinema. Quando tre anni fa ho curato una mostra sul Medio Oriente ero ricorso alla straordinaria coppia di filmmaker, Straub-Huillet. Pure in quell’occasione scrivevo che situarsi rispetto a un campo d’osservazione significa capire da dove stiamo osservando prima di poter rivendicare una presa qualsiasi (concettuale, esperienziale, ecc.) su quanto è osservato. Per questo motivo si accede alla mostra con la memoria rimossa del nostro colonialismo nell’Africa Orientale, con la mostra alla Biennale di Venezia del 1922, con la traduzione di scultura africana di Carl Einstein per le edizioni di Valori Plastici, attorno a cui muovevano Morandi, Carrà e de Chirico. Come si fa ad avere la pretesa di rappresentare l’altro (culturale o sociale) prescindendo dal proprio punto d’osservazione? Dalla propria condizione di lontananza o vicinanza? Dunque la mostra non è tanto sull’arte africana ma su quello che l’Occidente ne ha fatto. In tutto quello che si vede in mostra c’è una storicità costitutiva perché ci siamo affidati a una sequenza di rappresentazioni sull’arte africana che erano e sono nate da noi, in Occidente. Gli artisti sono presentati in rapporto alla loro emersione sulla scena artistica, attraverso una serie di configurazioni espositive del passato.
A differenza delle mostre di inizio secolo dove la negrokunst era utilizzata per rafforzare le ricerche occidentali attraverso il concetto di paragone e un sistema di cronologie d’influenze, come è pensata questa mostra?
La sala della Biennale di Venezia del 1922 (ricostruita per la prima volta in questa occasione) sta un po’ dentro quelle coordinate che collegavano Braque e Picasso alle maschere e alle sculture Fang o all’arte cosiddetta tribale in generale. Quello che però c’interessava ne Il Cacciatore Bianco è la costruzione del ‘primitivismo’ che prosegue intatta nella sala successiva che vorrebbe essere una citazione da Le Magiciens de la Terre e dunque non del 1922 ma del 1989. Dunque direi che non c’interessano le influenze artistiche ma come questa produzione tradizionale è stata valutata dagli artisti, dai curatori o dagli etnografi. Per anni abbiamo visto semplicemente che attraverso le avanguardie storiche l’arte negra (come si chiamava) diventa arte ma questo ci è sembrato insufficiente. Il giudizio di un’arte incontaminata, primitiva e originaria peserà di fatto molto e verrà a connotare una volontà di presa e cattura su quell’arte. Perché mai gli africani dovrebbero essere dei maghi o dei primitivi che dovrebbero essere educati da noi ad una condizione civile?
Nelle tue esposizioni la parte documentaria, archivistica e storica è spesso un fondamento portante del dispositivo espositivo, in questa mostra il nodo critico è la Biennale di Venezia del 1922 così come alcuni studi coevi quali Negerplastik di Carl Einstein. Ci sono altre fonti o modelli espositivi del passato – o del presente – su cui hai lavorato?
Sì, è stato fatto un grande lavoro di ricerca affidato ad un africanista come Gigi Pezzoli (che a sua volta ha convocato un decano come Ezio Bassani). Sfortunatamente, non sono state trovate foto della saletta numero 7 ma molti articoli e testi sul dibattito critico di allora in Italia e non solo. Le 33 opere esposte sono state tutte re-identificate con grande rigore a partire dall’insufficienza e aleatorietà delle etichette del tempo, come “negro affamato”, tanto per fare un esempio. La stessa cosa si può dire per la sezione con documenti di Zammarano, Pavolini, Carlo Enrico Rava che, in diverse maniere, cercavano di raccontare la loro Africa. La data del ’22 è fondamentale perché corrisponde all’anno in cui Mussolini sale al potere e sappiamo poi la grande importanza che avrà il modello imperiale per le sue conquiste d’Oltremare. Ma direi che l’idea dell’archivio è presente in vari altri modi. Penso al film di Gianikian e Ricci Lucchi, Pays Barbare del 2013, fatto con found footage così come il film, altrettanto straordinario, di John Akomfrah, Mnemosine del 2010. Poi Peter Friedl, Sammy Baloji, Kader Attia e molti altri artisti hanno fatto ricorso agli archivi. Ma, come nel caso della foto perduta della biennale, anche negli altri casi, le ricostruzioni sono immaginarie.
Lo storico delle mostre Bruce Altshuler definisce Magiciens de la terre “central node of the confrontation” anche se ne attacca il modello occidentale e il territorio incantato e misterioso in cui viene contestualizzata l’arte, come hai lavorato in rapporto ad una esposizione così importante e storicizzata?
Nel nostro caso si tratta di una piccola citazione da quella mostra con artisti come Seni Awa Camara, Bodys Isek Kingelez, Cyprien Tokoudagba, Chéri Samba, Bruly Bouabre, ecc. Quello che mi ha sempre colpito di quella mostra è come alle soglie della globalizzazione si senta – ancora una volta – la necessità di reinventare i primitivi di fronte ad una cultura emancipativa che promuove, all’opposto, la soggettività post-coloniale. Ma mi chiedo pure il senso nel mettere assieme in mostra artisti scaltriti e concettuali come Barbara Kruger o John Baldessari con figure che per la prima volta lasciavano il loro paese, se non la propria comunità. Come dire? L’esotismo e la rappresentazione non cessano mai di avere la loro presa e la figura del cacciatore (tutto il suo anacronismo) ritorna oggi ancora più che nell’89. Ma questa volontà di voler rappresentare gli immigrati, gli arabi, ecc la lascio volentieri allo spettatore della nostra esposizione, visto che come tale, lo vorremmo mettere realmente in discussione. Credo che l’uscita simultanea, nelle sale cinematografiche, di un film come I’m not your Negro ci dia ragione rispetto alla nostra volontà di opporsi e smontare la rappresentazione.
Dopo una mostra sugli anni Settanta, una sulle ricerche dell’est europeo e quest’ultima sull’arte africana quali sono le prossime esposizioni di FM?
Diciamo che finora la ricerca di FM si è concentrata sulla decostruzione del modello egemonico occidentale espresso dall’idea stessa di modernità. Non-Aligned Modernity implicava la domanda sul perché l’Est sotto il socialismo sia stato identificato integralmente con il realismo, non tenendo conto di tutto il resto. Il Cacciatore Bianco sposta la domanda dall’Est al Sud e si interroga invece sul perché il bianco abbia avuto bisogno di inventarsi il ‘nero’. Una delle prossime mostre sarà sul rapporto tra modernità e Cina a partire dall’inizio del Novecento: ma non voglio anticipare nulla.
Written by Valentina Rossi