Qualcuno ha detto revival del folk revival? Di sicuro l’immaginario estetico di Richard Dawson si rifà a quella stagione d’oro della musica britannica ma per fortuna la faccenda è molto più complessa e intrigante. Lo hanno paragonato a una variante folk inglese di Captain Beefheart o di essere un novello Robert Wyatt. Ma quando si parla di influenze a lui piace citare il Qawwali (musica devozionale sufi), il chitarrista kenyota Henry Makobi o l’outsider folk Mike Waterson. Insomma un tipo eclettico e curioso, che non segue una linea retta per arrivare da “a” a “b”. Uno stile asciutto e ipnotico, a suo modo tradizionale ma pieno di trovate avant per non dire futuristiche, con l’uso di campionamenti e sonorità esotiche, esoteriche se non addirittura cosmiche. I suoi ultimi tre album, in ordine cronologico e di acclamazione crescente, The Glass Trunk (2013), Nothing Important (2014) e Peasant (2017) hanno convinto davvero tutti, anche gente esigente per non dire snob come Wire e The Quietus. In certi momenti Peasant mi ha fatto pensare a una versione british dei Gastr del Sol di Camoufleur, un caposaldo dell’avant folk degli ultimi venti anni. Ricercato, elegante eppure visionario e intenso, Mr. Dawson da Newcastle prende il folk e i suoi avventori e trasporta tutto e tutti in un’altra dimensione. Una sorta di stargate musicale e umano. Per la prima volta a Roma, come perderselo dal vivo?
Written by Matteo Quinzi