Come tutti (o quasi) la Bovisa ha un perché del suo nome. Basta pensarci un attimo per riconoscerci l’indubbia vocazione agricola contenuta nella radice del “bovo”, della vacca, dei buoi. Era infatti il nome di una cascina alle porte di Milano, dove – con ogni probabilità – c’erano dei buoi. Eppure, tutti conoscono la Bovisa per il suo passato industriale, per le architetture moderne e fasciste, per le fabbriche e i gasometri. Ma poi oggi la Bovisa per chiunque è Politecnica. Insomma, la Bovisa è stata tutte queste cose nel corso del secolo breve, ma soprattutto lo è tutt’ora. Per questo, ci sentiamo di dirvi: Benvenuti in Bovisa, il quartiere anacronistico di Milano. Sì, perché Bovisa è un’ucronia: il tempo scivola assieme ai binari del passante, accoglie i treni che arrivando da Malpensa incontrano il primo affaccio su Milano qui, ai piedi dei vecchi gasometri, e progetta blueprint per andare nello spazio.
Politecnica, archeologica, agricola e industriale: Bovisa è un’ucronia.
Ma andiamo con ordine, perché qui ce n’è bisogno. La Bovisa nasce come area agricola di Milano, e fin qua era chiaro a tutti. Buoi, campi, cascine, la scighera – che è il termine tutto peculiare con cui a Milano s’indica il nebbione, quello che bagna le barbe e i capelli, quel muro d’acqua sospesa che ottunde tutto e da tutte le parti. A testimonianza di questo passato, c’è la Cascina Albana, con un pozzo al centro della corte, una nicchietta dedicata a una Madonna della Frutta, adorna di uva, pere, mele e quant’altro, e un bel muro di palazzoni multicolore che le svettano alle spalle. Giusto per ribadire che la pizza con l’ananas piace un po’ a tutti.
Da lì, inizia la grande Bovisa dell’industria e della chimica, che è quella che ci rimane più nota. Lo stabilimento Candiani che faceva acido solforico a fine Ottocento, la Ceretti & Tanfani che intrecciava lunghi cavi di metallo per le seggiovie, la Cristalleria, l’Azienda del Gas e il trasporto del carbone in Ferrovia – quello che si racconta bene nel Ragazzo della Bovisa, unico romanzo di Ermanno Olmi –; insomma, c’è tutto un paesaggio industriale che cede il passo ai tempi, diventando a metà tra rovine e parchi giochi, spazi occupati e timide ma radicatissime attività come fabbri, ceramisti, macellerie – non mancano mai – fino alla fine del Novecento. Poi la botta, col raddoppio del Politecnico, da Piola a Bovisa: l’apertura del dipartimento di Design e della sede di Ingegneria Meccanica, Energetica e Aerospaziale, e la costruzione della Stazione Nord col passante ferroviario.
Siamo alla Bovisa che conosciamo tutti più da vicino: quella degli studenti, del via vai di persone, ma soprattutto del via vai di idee che gravitano e sedimentano nei vecchi complessi industriali. Le idee sono nell’aria, e lo testimoniano, come sempre, le figure che ci abitano: dagli artisti internazionali cresciuti a pane e graffiti nelle architetture industriali, come 2501 o Fabio Roncato, ai nuovissimi spazi di stoccaggio, recupero e reinserimento di materiali come le ragazze di Spazio Meta, per arrivare ai tanti musicisti che si radicano nel quartiere come Irbis e HÅN fino ai brand di moda tecnica DIY come Ekor Corp. Altro effetto della “studentazione” occorsa nell’ultimo ventennio assieme alla profusione di idee, sono le decine e decine di locali fieramente devoti al sostentamento dello studente: le strenue copisterie e i paradisi della schiscia, del pane, del pranzo furtivo.
È con tutto questo movimento cerebrointestinale che la Bovisa, assieme al Politecnico, si dispone come quartiere improbabile, che abbiamo chiamato “ucronico” ma che è, a tutti gli effetti, spettacolare. Nel dirvi questo pensiamo a una e una cosa soltanto: il dipartimento di Ingegneria. Parliamo dei grandi laboratori sperimentali dei dipartimenti di Ingegneria del Politecnico, quelli in cui il vento tira a duecentocinquanta km/h, in cui gli impatti di uccelli simulati da gelatine balistiche sventrano le fusoliere degli aerei di linea, in cui giacciono i simulatori di guida VR più celebri al mondo, in cui i silenzi sono tanto profondi da farti sentire il movimento del cuoio capelluto o di un battito di ciglia, o dove, si racconta, Godzilla sia tenuto in gabbia. E potremmo continuare per molto, molto più in là, fino allo spazio profondo con i propulsori aerospaziali, ma insomma, una cosa è certa: non c’è quartiere a Milano che abbia tutta questa spinta tecnica e tecnologica, sperimentale, che guardi tra le virgole di una particella e un’onda e comprima quarant’anni di fatica in cinque mesi di sforzi, al punto che a conoscerli tutti e a vederli tutti l’uno di fianco all’altro, l’impressione è quella di essere una specie di Parco a Tema Futuro, un Tecno Park.
Così come, dal lato dei designer, non c’è quartiere con cos’ tanto potenziale produttivo e di ricerca come questo. E non soltanto per il Politecnico, per i suoi laboratori, per la sua formazione prima in Italia e tra le prime al mondo, ma nemmeno per la legacy che ogni studente politecnico si porta appresso, no: sono gli Hub di innovazione attorno ai quali si raccolgono le comunità dei makers. Stampanti 3D, visori VR, laboratori di falegnameria e metalli, di coprogettazione e coworking. Bovisa per intero è anche un Makers Hub, non c’è dubbio.
Gilles Clement sarebbe di certo fiero dei risultati dell’incuria – e con questo non stiamo facendo dell’ironia; c’è un vero terzo paesaggio.
Insomma, la Bovisa è questo: immaginare futuro, drenare l’avvenire dagli scheletri dell’architettura industriale che non si capisce se infestano o arricchiscono il quartiere. Dipende sicuramente da dove la si guarda, ma è certo che il fascino dei ruderi postindustriale non passa inosservato a nessuno. Se c’è un simbolo sotto cui si possono raccogliere i bovisari non possono che essere i Gasometri. Giganti indiscussi di un’epoca passata, polmoni colmi di gas che gonfiavano bronchi di metallo fino al cielo, pasciuti e obesi, a un’altezza da cui veramente si vede tutta Milano scorrere a Sud e Sudest. Avventurarsi nei pressi di quella zona che è nota come Parco La Goccia è come entrare in un altro mondo, una realtà a parte, in cui i capannoni delle vecchie fabbriche, i benzinai abbandonati, i torracchioni di laterizio e anche i macchinari di controllo si ritrovano adorni d’edera, invischiati nel fogliame che spontaneamente, nel corso degli anni, ha occupato tutta quell’area. Parliamo di una delle rarissime zone di riboschivazione spontanea a Milano: ricchissima, Gilles Clement sarebbe di certo fiero dei risultati dell’incuria – e con questo non stiamo facendo dell’ironia; c’è un boschetto selvatico incredibile, un vero terzo paesaggio.
Ci viene alla mente quell’immagine che trova un bue – forse era una vacca – indossare un VR per trovar conforto e sollazzo in verdi pascoli. Un cyber-vacca, con le gambe ben piantate per terra ma proiettata al futuro. Ci siamo capiti. Insomma, Bovisa è uno strano posto. Un’anima popolare, agricola, un’anima futuristica, un’anima decadente. Forse tra i più strani – e interessanti – della città. Un quartiere ancora popolare ma non periferico, come testimoniano luoghi come La Scighera, il centro di aggregazione culturale di quartiere, o lo Spirit De Milan, legatissimo alla cultura popolare milanese della canzone, alla cadregata da osteria e alle sue figure, ma anche il gigantesco mercato nel piazzale della stazione, noto ai più per i felici ritrovamenti di biciclette inspiegabilmente scomparse.
In tutto ciò, il quartiere è oggi nel pieno dei lavori di rifacimento. Cantieri, muri, cantieri. Perché tra i tanti progetti di Reinventing Cities, c’è MoLeCoLa: una cerniera modernissima che abbraccerà la stazione, collegando entrambi i lati del quartiere con alti edifici vetrati, zone verdi, impianti commerciali e facilities del Politecnico. La stessa area dei Gasometri rientra nel progetto, con il nome di “Città Politecnica”. Ci auguriamo sul serio che venga fatto un Parco a tema “Futuro”, e che la “studentazione” trovi finalmente il modo di avere una piazza – che a Bovisa non è che ce ne siano – e non soltanto l’interno del Campus Durando.