La domenica è notoriamente votata al riposo. La fede dell’ultimo giorno del Signore, del lavoratore e del cittadino va all’ozio; e ovviamente il suo luogo di culto è il parco. Prendendo a riferimento questa sorta di preghiera settimanale che dura secoli, la preghiera all’ozio, possiamo immaginare la geografia di Milano – un po’ come tutte le altre città – come una mappa stracolma di parrocchie verdeggianti le cui maggiori istituzioni sono le cattedrali di Sempione, Montanelli e Forlanini. Nominiamo queste giusto perché sono le prime che vengono in mente, e soprattutto sono luoghi che competono con il parco di Monza come i nuotatori professionisti nei 200 metri competevano in vasca con Micheal Phelps. Abbiamo detto tutto.
Tuttavia, abbracciando con un sincero sentimento di umiltà questo mondo, ci sentiamo di dire che amiamo il piccolo. L’espressione della semplicità in fondo è la dimensione degli impeti felici, dell’inatteso. Com’è il caso di quegli sprazzi di verde in città che solitamente si ritrovano adombrate da cappe giallo-grigiastre. Insomma, parliamo di giardini che sanno spezzare il cielo e recuperare poco a poco un colore turchese. In particolare di terzi spazi. Di terzi paesaggi, con pace all’anima di Gilles Clement.
Già lo sappiamo, ma lo ripetiamo: Milano ne è colma; negli angoli, dietro ai cartelloni pubblicitari, sotto alle tangenziali, in mezzo ai gorghi delle curve d’uscita in autostrada. E in prossimità di Chinatown, contrapposto all’immensità del parco Sempione e del suo arco trionfale, ai piedi dell’architettura sforbiciata e della cuspide inclinata di Herzog & De Meuron, c’è uno spiazzo verde incastonato tra vecchie mura in laterizio. I Giardini Lea Garofalo non si vedono immediatamente. Bisogna passarci davanti con una certa lentezza e guardare con una certa attenzione dietro le feritoie, oltre a qualche buco tra i laterizi, in mezzo alle ringhiere che ogni tanto lo chiudono.
Se al di fuori domina asfalto, pavè e sanpietrini, commercio all’ingrosso, qui si reimpara a camminare sui prati.
C’è erba, terriccio, micro-arbusti che nonostante tutto danno l’idea di tenere testa a tutto il resto. Se al di fuori domina asfalto, pavè e sanpietrini, commercio all’ingrosso, qui si reimpara a camminare sui prati. Ma la storia dei Giardini è un’altra, e sarebbe riduttivo parlarne solo in termini di verde pubblico – per quanto comunque in una città come Milano rimanga un tema importante. Nati dalle ceneri di case di ringhiera che hanno visto la guerra, sono state bonificate dell’attività mafiosa nei primi anni Dieci, e hanno poi resistito alla minaccia del profitto. Questa una storia con lieto fine un po’ come al Segantini: un’associazione di cittadini resiste alla marea di cemento di un parcheggio privato, sospinta dai motori notoriamente incazzati di Milano, e si riprende lo spazio verde che gli spetta. La formula esatta per lo spazio pubblico: collettivo e lotta.
Lo stesso nome dei giardini, si sa, è un omaggio alla resistenza: Lea Garofalo fu una vittima di mafia, ma forse non tutti sanno che l’accaduto si riferisce proprio alla storia dei Giardini. Testimone di giustizia, denunciò la sua famiglia e le faide interne al clan, dando un contributo fondamentale al blitz di via Montello 6, dove appunto sono situati i giardini.
A partire dalla figura e dal ricordo di Lea, unitamente alla storia dei Giardini, questo luogo non poteva che occuparsi di “cura”. Nel senso più ampio del termine. Riferito allo spazio pubblico, alla collettività, al vicinato, alla cultura. Basti pensare al lavoro che svolge l’associazione Libera in merito ai temi di giustizia e socialità positiva nei presidi a Milano sempre dedicati a Lea. Oppure la definizione che Giardini in Transito – associazione che si occupa dei Giardini – si dà: “spazio terapeutico”. Perché la terapia, se proprio vogliamo, parte sì da una definizione positiva del sociale ma per realizzarla sono prima necessarie le infrastrutture, insomma, degli ambienti adeguati. E i Giardini sono questo, non soltanto uno strumento di integrazione, ma uno spazio ibrido in cui la coprogettazione e la cooperazione – all’insegna, anche, di un’idea di giustizia e di gestione dello spazio – svolgono il ruolo fondamentale di pedagogia sociale assieme a realtà come “Diamoci la mano”, associazione italo-cinese di Sarpi, o Lato B.
Tutti sono indaffarati a far crescere radici: si consolida la terra; quella dove si cammina e quella dove si pensa.
Insomma, come i concetti che vale la pena coltivare e portare avanti anche la “terapia della natura”, dei giardini, trova spazio nella modernità con gli “healing garden” – luoghi che inizialmente hanno accolto i reduci del Vietnam – ma che si sono dimostrati spazi validi, appunto, terapeutici e dato che “squadra che vince non si cambia”, questi modelli resistono anche oggi, in forme diverse e più collettiviste. Nelle parole di Pia Pera (cognome adeguatissimo al contesto): “Il giardino, immagine miniaturizzata del creato, ha confermato di essere l’unica duratura, profonda, appagante relazione possibile”, il concetto è questo: stringere legami, relazionarsi con la natura che è poi il “creato”. Slittiamo sulle connotazioni religiose, e concentriamoci piuttosto sul fatto che questa cura, questa relazione, è innanzitutto sociale. E qui sono tutti indaffarati a seminare, perché far crescere radici è importante: rende più solido il terreno; quello su cui si cammina, e quello su cui si pensa. Ci si rende conto in fretta, così, che la coltivazione degli arbusti, la cura delle piante e dei fiori è anche il risultato di un pensiero classico per l’ecologia: se al dominio dell’uomo sull’uomo corrisponde il dominio dell’uomo sulla natura, a invertirne uno s’inverte anche l’altro. E così, forse, è più chiaro che i Giardini Lea Garofalo sono innanzitutto uno spazio comunitario, collettivista, di coltura e cultura.
Tornando all’inizio, possiamo dire con certezza che in questi luoghi “piccoli” dove le cose sembrano “piccole”, si insediano i movimenti più grandi. Forse quelli più duraturi, che lasciano sempre qualche cosa. Non è una questione di massa, di imponenza, di monumentalità. Ma di ciò che si riesce a fare con poco eppure con forza, affidandosi al collettivo. È una trascendenza.
Una volta, percorrendo la pedana dei giardini Lea Garofalo, ho pensato a un paragone azzardato, ma ve lo dico lo stesso. Pensavo a Floating Piers di Christo. Passeggiando su una pedana di legno su un giardino. Se la prima può far riflettere sui grandi temi dell’umanità – anche rispetto alle sue dimensioni, al lago – tipo l’ingerenza umana sulle cose della natura, questo piccolo sentiero di legno, più minuto e meno fastoso, invece che occupare il lago e abbracciare tutto lo sguardo sta lì a dire che esiste soltanto perché decine, centinaia di persone si sono spese per quello spazio. Quello è il bacino di relazioni, quello è il giardino, ed è grande. Trascendenza. Una pedana su un appezzamento di terra che è la sintesi della cura in termini di cittadinanza.