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Periferie temporaneamente autonome: la seconda pelle dei RAVE

Eventi e luoghi che hanno cambiato le città: Roma, capitolo 6

Written by Nicola Gerundino il 14 May 2020
Aggiornato il 13 May 2020

Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?

Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.

Non c’è niente di più potente di un’idea di cui è giunto il tempo. In rete questa frase la si trova accostata a Victor Hugo – anche se non ci sono riscontri certi che l’abbia pensata e scritta letteralmente così – ma per recepirla in tutta la sua potenza e liricità non è necessario scandagliare l’opera omnia dell’autore francese; basta andare su Youtube, cercare “Talk to Strangers” di Saul Williams e ascoltare il brano fino all’ultimo secondo. Non c’è niente di più potente di cui è giunto il tempo e questa idea può anche essere un suono, un modo di fare festa, un’azione comune in cui confluisce l’energia di più individui creando qualcosa di nuovo.

SpazioKamino 1998, Ostia

La techno aveva rotto gli argini: nel giro di pochi anni a cavallo tra gli ultimi 80 e i 90 aveva invaso un’intera città, aveva acceso artisti, animato studi di registrazione, affollato negozi e riempito spazi di persone festanti. Un torrente che nel pieno della sua irruenza si era però riversato in altri argini, dove le acque erano diventate più torbide. Ma l’idea era ormai matura: era stata colta ed era difficile da abbandonare. Infatti, a partire dalle seconda metà del ’93, ci fu un importante processo di (ri)approriazione e ricodificazione: se i rave “legali” si erano tramutati in una promessa mancata di liberazione “commercializzandosi”, fu istintivo passare all’“Illegalità”.

Bisognava saperlo, bisognava volerlo e bisognava anche essere consapevoli che l’atto che si compiva non era semplicemente uno dei tanti modi di passare il weekend, ma era un atto illegale che richiedeva una presa di coscienza

I margini di manovra erano pochi: i locali del circuito avevano subito un rapido processo di massificazione e nei centri sociali della prima ora, che erano la grande nuova risorsa di spazio ed energie all’epoca, l’elettronica non aveva preso piede, anche a causa delle dinamiche di cui sopra. D’altra parte, catalizzando la maggior parte dei fermenti urbani, fu proprio quest’ultima area a essere determinante, attraverso singole individualità e gruppi che si ritrovarono uniti nel comune intento di liberare spazi e trasformali in luoghi orizzontali, dove ascoltare e ballare la musica sentita nel resto della settimana. Parliamo di ragazze e ragazze che facevano parte del Break Out di Primavalle – fondamentale anche per il movimento punk hardcore -, del Pirateria a Ostiense, di Zona Rischio a Casal Bertone, Spaziokamino a Ostia e altre realtà ancora, con alcuni di loro che portavano avanti anche una trasmissione radio che si rivelò molto importante: Hard Raptus, trasmessa da Radio Onda Rossa – storica emittente della sinistra romana, le cui frequenza all’epoca erano ancora sui 93.3, disturbate da quelle di Radio Vaticana e con una conseguente contesa che portò a diverse iniziative.

Siamo fuorilegge perché non sguazziamo nei soprusi e diamo alla vita un valore che non sia quello della merce, perché pensiamo che non tutto abbia un prezzo. Siamo fuorilegge perché non amiamo le gabbie. Un rave illegale nasce un po’ da tutto questo e mentre ballate e vi divertite pensate a una cosa: state commettendo un reato

Le parole nell’aria erano quelle della mercificazione delle vite, dell’alienazione metropolitana, dell’oppressione autoritaria su gesti e corpi e del tentativo di spezzare queste dinamiche ponendosi al di fuori della legge. Perché, effettivamente, era questo quello che succedeva quando non era uno dei centri sociali più attivi – Forte, Spaziokamino, Auro e Marco per esempio – a ospitare le feste: si individuava uno spazio da liberare, si facevano dei sopralluoghi, lo si preparava pulendolo e sistemandolo, si affittavano generatori e sound e si davano comunicazioni su come arrivare cercando di dribblare quanto più possibile l’ufficialità. Insomma, bisognava saperlo, bisognava volerlo e bisognava anche essere consapevoli che l’atto che si compiva non era semplicemente uno dei tanti modi di passare il weekend, ma era un atto illegale che richiedeva una presa di coscienza:
“Siamo fuorilegge perché non sguazziamo nei soprusi e diamo alla vita un valore che non sia quello della merce, perché pensiamo che non tutto abbia un prezzo. Siamo fuorilegge perché non amiamo le gabbie. Un rave illegale nasce un po’ da tutto questo e mentre ballate e vi divertite pensate a una cosa: state commettendo un reato” recitava un flyer dell’epoca.

Le consolari a ridosso del Raccordo, nelle loro zone (de)industrializzate – Tiburtina, Tor Cervara, Pontina, eccetera – si iniziarono quindi a riempire di musica, creando un cortocircuito – neanche troppo inaspettato, in realtà – tra un centro città morente e una periferia incredibilmente attiva, dove succedevano “le cose”. Il perimetro dell’idea di rave venne sempre più a coincidere con la T.A.Z – la Temporary Autonomous Zone preconizzata da Hakim Bey – acronimo che iniziò a comparire su diversi flyer e sul cui concetto si andarono a innestare elementi di sottocultura hacker e cyberpunk, anche se, in realtà, i due maggiori lasciti culturali made in Rome dell’epoca, nati dentro i rave e da chi era nel giro rave, andarono decisamente oltre questi filoni e si concretizzarono nei clash allucinati e alterati di “Torazine – Capsule policrome di controcultura pop” e “Peti nudi”, zine decisamente più scura, caratterizzata da un irriverenza tutta particolare tra il queer e il black metal.

Le consolari a ridosso del Raccordo, nelle loro zone (de)industrializzate – Tiburtina, Tor Cervara, Pontina, eccetera – si iniziarono quindi a riempire di musica, creando un cortocircuito – neanche troppo inaspettato, in realtà – tra un centro città morente e una periferia incredibilmente attiva, dove succedevano “le cose”

Anno spartiacque per l’esperienza degli illegali fu il 1996 quando un altro movimento, quelle delle tribe, che già gravitavano in Italia e all’epoca erano principalmente composte da inglesi e francesi, furono attratte da tutto quello che stava succedendo a Roma – decisamente un unicum sul territorio nazionale – e furono sempre più presenti all’interno dei party fino a tentativi di co-organizzazione che però si rivelarono tutt’altro che armonici. Si potrebbe quasi parlare di incomunicabilità culturale: da una parte un mix di nomadismo, trucking post atomico, neo hippismo – e molte sostanze narcotiche – che assumeva i contorni di uno stile di vita a tempo pieno, dall’altra dei tentativi lampo di liberazione urbana, con un’intelaiatura politica ben determinata. Le tribe, inoltre, avevano i propri soundsytem autocostruiti, spingevano una musica dai bpm altissimi e dalle sonorità appiattite e non avevano grande feeling con l’idea di inclusività rispetto al pubblico, cosa che invece si era sviluppata fin da subito in ambito romano, dove contava molto di più la partecipazione che non le dinamiche di sottoscrizione all’ingresso.

AntiCop-Rave 1994

Il 31 dicembre di quell’anno si scrisse metà della parola fine, con il famigerato Capodanno in alcuni spazi a Via Naro a Pomezia; l’altra metà ebbe una gestazione più lunga, a poche centinaia di metri di distanza e nei mesi immediatamente successivi: negli spazi dell’ex Fintech, dove una festa in onore di un raver passato a miglior vita, Sasha, divenne un “presidio” permanente, assumendo i tratti di un occupazione e dando vita a delle feste – free party, per distinguerle dalle esperienze precedenti – che prendevano tutto il fine settimana e oltre, anch’esse rimaste nella memoria. Il fermento cittadino a quel punto però aveva già iniziato a spostarsi altrove e l’elettronica avrebbe trovato spazio nei club e in altri spazi autogestiti più radicati che nel frattempo stavano anch’essi mutando pelle.

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