Nel XIX secolo John Dalton era assolutamente sicuro che la materia era formata da atomi indivisibili e indistruttibili. Tuttavia durante i primissimi anni del 900 arrivò Joseph John Thomson a dire che le cose non stavano proprio così e che l’atomo era composto da particelle più piccole positive e negative; ci pensa subito dopo Ernest Rutherford, seguito a ruota da Niels Bohr, a postulare che ci siamo sbagliati tutti e ci sono anche le particelle neutre.
Spoiler: dagli anni 60 in poi scopriamo la presenza di altre particelle sempre più piccole gli adroni, i bosoni, i mesoni, ben sei tipi di quark, gli antiquark e c’è chi giura di aver visto citofonare sotto casa anche il selettrone, lo smuone e lo sneutrino.
Tutto questo, oltre a farci seriamente dubitare del metodo scientifico, porta ad un altro tipo di riflessione. Quanto in piccolo possiamo scalare? Quanto possiamo frammentare, sminuzzare, analizzare, circoscrivere qualcosa?
Vivere in una grande città può portarti a considerazioni del genere, per fortuna siamo a Milano, ovvero la città piccola.
I vostri amici di ritorno dalle loro vite nelle varie Londra, Berlino, New York, Mexico City ve lo hanno detto subito “Comunque a Milano è un’altra cosa, ti muovi facilmente perchè è piccola”.
C’è stata in questi anni, una vera e propria ossessione per il movimento, inteso non solo come mi sposto dal luogo A al luogo B, ma proprio come una costante circolazione di persone, di idee, di fatti e Milano ha fatto fortuna come “il giusto compromesso” (reale quanto opinabile).
Vivere in una grande città può portarti a considerazioni del genere, per fortuna siamo a Milano, ovvero la città piccola
Poi è successo il 2020 e ci siamo rimpiccioliti ancora.
Nel manga e anime L’attacco dei giganti di Hajime Isayama, il mondo è composto da una serie di mura concentriche che suddividono il territorio in tre anelli per proteggere l’umanità dai già citati giganti. Un giorno questi riescono a fare breccia nel muro più esterno e la popolazione per non essere mangiata si riversa nel territorio più interno, ancora protetto.
Nell’universo descritto da Isayama la minaccia esterna porta le persone a una reclusione volontaria con una relativa e costante tensione alla vita al di là delle mura, al mondo esterno.
Come di facile intuizione i giganti e il Covid-19 si somigliano molto.
Questo strano anno ha cancellato lo spazio urbano nel suo conglomerato in movimento costante, riducendo ad esterno e minaccioso qualsiasi cosa si trovasse al di fuori della nostra soglia. Barricarsi dentro ha comunque alterato la nostra percezione “di ciò che c’è fuori le mura” con la conseguente e significativa attenzione per tutto quello che abbiamo trovato nelle nostre vicinanze subito dopo.
Secondo Forbes la pandemia non sta causando la “morte della città”, ma l’ascesa del vicinato, questa maggiore attenzione per lo spazio piccolo, ha fatto della prossimità prima oggetto di discussione al bar per poi dibattito online, trend divulgativo su Instagram e infine in elemento di marketing.
A ben vedere però si tratta di un processo già in atto che l’emergenza ha avuto l’onore di velocizzare.
Gli sviluppi tecnologici, la globalizzazione, gli stili di vita individualizzati, le forme contemporanee di socialità contribuiscono da anni a mettere in discussione le capacità e i relativi servizi che ci aspettiamo dalle città e l’unica difesa messa inconsciamente in atto è stata quella di circoscrivere il territorio di azione per combattere la dispersione e l’appiattimento.
Il quartiere si presta a diventare una presa di posizione identitaria, lo specchio con cui facciamo i conti, nonché la porzione di città che ci spetta e a cui sentiamo di appartenere
L’iniziativa del sindaco di Parigi, Anne Hidalgo della “città di 15 minuti” è un’idea pre-Covid ed un chiaro esempio di quello che abbiamo detto. Ridistribuire la città in un gruppo di quartieri in cui i parigini hanno accesso a tutto ciò di cui hanno bisogno entro 15 minuti di viaggio in bicicletta o a piedi da casa loro.
Il quartiere si presta a diventare una presa di posizione identitaria, lo specchio con cui facciamo i conti, nonché la porzione di città che ci spetta e a cui sentiamo di appartenere.
Sempre pre-2020 ed esempio azzeccato sono le sciarpe che Burro Studio ha realizzato con i loghi dei quartieri e che abbiamo visto per più di una stagione sfoggiate sopra i giubbotti di fieri milanesi. Cosa è questa se non un’altra prova del bisogno di radicarsi e identificarsi?
É la collettività ad assegnare una narrazione precisa al quartiere in base a fattori variabili come le comunità insediate, i negozi, i servizi ma anche o specialmente in base alle leggende o i fatti di cronaca, per cui: Porta Venezia è queer così come NoLo è giovane e multientica.
Insomma abbiamo capito che la città non è pezzo unico e ne scopriamo ogni giorno parti diverse, più piccole e più uniche. Adesso proviamo a scindere l’atomo e capire che energia ne viene.