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Roma 2024: in che città ci troviamo?

Inauguriamo il nuovo anno con pensieri e considerazioni sullo stato della Capitale, letto attraverso la lente della produzione e del consumo culturale.

Written by Nicola Gerundino & Giulio Pecci il 16 January 2024
Aggiornato il 18 January 2024

Foto di Stefano Caggianelli

 

di NICOLA GERUNDINO

L’inizio del 2024 può essere una buona occasione per cercare di scattare una fotografia alla vita culturale della città. Non una di quelle immagini che immortalano fatti storici e fenomeni naturali incontrovertibili, che possono quindi avere carattere scientifico o di testimonianza; piuttosto una di quelle in grado di catturare sensazioni e sfumature.

Siamo alla vigilia di un nuovo Giubileo, venticinque anni dopo quello che ha sancito il passaggio tra i due millenni. Una ricorrenza che ci porta indietro nel tempo, a quell’epoca tra i Novanta e i Duemila caratterizzata dall’impronta del tandem Rutelli-Veltroni. Senza un tessuto industriale diffuso e con il rischio di appiattirsi su politica e il terziario, i due sindaci – anche spinti dal proprio vissuto biografico e politico – si giocarono la carta della cultura sfruttando anche l’afflato economico giubilare. Anni segnati dalla nascita di centinaia di iniziative, di festival e rassegne alcune delle quali ancora in essere – La Festa del Cinema ad esempio. Anni di riconversione del patrimonio immobiliare pubblico – le tante Case che ancora oggi esistono e sono attive – e anche di edilizia ex novo, con Auditorium e MAXXI in prima fila.

In maniera uguale e contraria, si muovevano tantissime cose anche nel sottosuolo (leggi underground), con le due parti che si sono a lungo annusate: qualche volta piacendosi, tante altre no. Entrambe le spinte si sono ugualmente esaurite nell’arco di un decennio, parallelamente allo svilupparsi e diffondersi della narrazione criminale/favelara della città – ahinoi, nulla di inventato, anzi – e all’affermarsi di Milano sul panorama nazionale e internazionale grazie al traino Expo, con anche un’inedita migrazione lavorativa che ha riempito parecchi treni tra Termini e Centrale. Roma, nel frattempo, ha visto sfilare via la candidatura per le Olimpiadi del 2024, che invece quest’anno saranno ospitate da Parigi, e l’Expo 2030 – che sia stato un bene o male, non lo sapremo mai – ritrovandosi in una condizione di perenne galleggiamento al ribasso. Condizione che è sembrata irreversibile fino a quando non è arrivato il Covid a rimescolare le carte.

Proprio quattro anni fa iniziavano a comparire i segnali di quello che sarebbe diventato il primo lockdown globale, con il Covid-19 che avrebbero costretto l’intero mondo a muoversi a scartamento ridotto e con modalità anomale (perché mai sperimentate fino ad allora) per i due anni successivi. Quella del Covid è stata una delle grandi cesure degli anni 2000, dopo l’accoppiata di inizio millennio G8 di Genova-11 Settembre del 2001 e dopo la crisi dei subprime del 2008 che stava quasi per spazzare via l’intera economia mondiale – la quarta sta arrivando di gran carriera sotto forma di guerra: tra Russia e Ucraina e tra (per ora) Israele e Palestina.

Chiuso in casa e in preda all’incertezza, il mondo in quei giorni del 2020 lanciò la sua preghiera e la sua voglia di redenzione, promettendo di essere più solidale, di riaffidarsi al sapere scientifico e di tutelare come noi mai la biosfera. Buoni propositi finiti nel cestino più velocemente delle diete e dei detox alcolici di inizio anno (tanto per rimanere in tema). Il mondo aveva promesso anche che sarebbe stato più “glocale”, più attento alla prossimità. Tentativo complessivamente fallito, ma che, per mille paradossi e giravolte, sembra poter invece descrivere perfettamente quella che è l’attuale dimensione culturale della città.

In maniera uguale e contraria, si muovevano tantissime cose anche nel sottosuolo (leggi underground), con le due parti che si sono a lungo annusate: qualche volta piacendosi, tante altre no.

Mai come in questi mesi l’offerta di Roma sembra essere dominata dal fattore locale: nel mondo dell’arte il fermento è tutto negli spazi indipendenti e gestiti direttamente dagli artisti; nel clubbing sono le crew locali e i dj (ormai non) più resident a tirare la volata fino al mattino; i palchi per i comedian si sprecano e anche nell’orbita live la presenza internazionale si è ridotta a poche presenze, quasi tutte appartenenti a una dimensione micro/underground e non macro/pop (l’elenco può allargarsi al teatro, all’editoria, alla fotografia etc.). Una metropoli ai margini dell’impero che ha deciso di divertirsi con quello che ha, riuscendoci anche discretamente. Insomma, dopo anni in cui spesso ci si è lamentati di una saturazione esterofila, per chi vuole e si mette di buzzo buono c’è spazio. E la cosa si percepisce anche – forse soprattutto – dall’esterno.

Tutto rose e fiori? No. Roma non si è trasformata nell’utopia do it yourself perfetta e definitiva. Basti pensare alla sempre spinosa questione degli spazi, che sono sempre troppo pochi: da loro dipendono le carte del gioco e se non vengono date bene e con il giusto spirito e dialogo ecco che il castello viene giù in pochi secondi. Non girano poi molti soldi in questo calderone “autarchico”, quindi è difficile parlare di autosufficienza e autonomia, così come di possibilità egualitarie. Sulla qualità delle proposte in circolazione, infine, la bilancia è in equilibrio: per una cosa che va ce n’è un’altra che potrebbe essere tranquillamente cestinata. Forse, allora, è più giusto definire questo stato di cose come una piacevole anomalia, una congiuntura che, se vorrà essere preservata e non dissipata nei suoi elementi positivi, dovrà essere gestita facendo attenzione a diversi aspetti. Ad esempio, bisognerà fare attenzione a non prosciugare tutti canali internazionali (e anche nazionali) costruiti negli anni, costringendo al confinamento territoriale quanto di buono è emerso ed emergerà; bisognerà scongiurare l’adagiarsi, preferendo sempre e comunque quello che è più vicino ed economicamente vantaggioso a ciò che può essere rischioso ma stimolante; bisognerà evitare di abbassare la curiosità del pubblico attraverso una ridondanza di proposte che può accelerare l’esaurimento del ciclo, così come il pubblico dovrà essere oltremodo ricettivo verso ogni variazione e novità, pena il ritrovarsi a correre sempre sulla stessa ruota come un criceto. Insomma, qualcosa è successo, vedremo cosa accadrà e se la necessità si trasformerà veramente in virtù.

 

 

di GIULIO PECCI

Quando abbiamo stabilito di scrivere questa news ho deciso di non pensarci subito direttamente, ma di mettere la questione in quella stanzetta del cervello dove posiziono le cose un po’ troppo grandi da prendere subito di petto. Come un pugile basso che deve fronteggiarne uno alto, infilarmi piano piano nella guardia serrata della materia sembrava più facile. Scioglierne le difese avvicinandomi con circospezione e colpire all’improvviso con l’illuminazione di un gancio destro. Insomma, la speranza era che, lasciata un po’ a decantare, la questione sarebbe diventata più malleabile, meno viscosa e imperscrutabile. Come si può facilmente indovinare, il trucco non ha funzionato – funziona raramente, i procrastinatori seriali ne sanno qualcosa.

Come poteva essere prevedibile, le uniche due cose che ho appuntato, quelle che sono riuscite ad aprire la porta della stanzetta nascosta, non sono verità né certezze o risposte di nessun tipo. Sono due domande aperte, che riporto così come le ho scritte sul momento, in ordine temporale:

Il copione è sempre lo stesso: ci vediamo in giro, ci abbracciamo, chiacchieriamo del più e del meno. Poi passiamo alle considerazioni specifiche sulla serata in cui ci troviamo. Immancabilmente arriva il momento in cui la conversazione si paralizza su un mantra che va avanti da anni, da ben prima del Covid: “se non qui, dove?”

E poi:

Continuiamo ad amare e odiare Roma per quello che è o per quello che potrebbe essere? Quale sarebbe poi questo essere in potenza? Si è mai veramente avverato, vorremmo sul serio che si avverasse?

Partendo dalla prima annotazione, uno dei grandi temi di Roma rimane proprio quello degli spazi. Uno sfaldamento che, come ben sappiamo (e abbiamo raccontato a più riprese), è iniziato intorno al 2015 e, ovviamente, è stato accelerato dalla pandemia. I superstiti, in questi quasi dieci anni, sono veramente pochi, spesso malconci e con una pelle completamente diversa, vuoi per sopravvivenza o per opportunismo. Mancano i locali e mancano i club, soprattutto nella fascia più importante, quella mediana. In un fine serata piacevole, condito dalla vicendevole sincerità alcolica, con Giuseppe Giannetti (direttore artistico del Trenta Formiche, nda) ci siamo ritrovati all’improvviso a riflettere sulla situazione. «Io non ci credo che il Trenta è diventato uno dei pochissimi punti di riferimento per la musica dal vivo, è assurdo. Soprattutto pensando a una città da tre milioni di abitanti» ha detto a un certo punto, evidentemente preoccupato. Con tutti i (grandi) meriti del Trenta – che ha saputo mantenere una programmazione audace ma coerente e un ambiente assolutamente ospitale per tutt* – il fatto che un circolo Arci da cento persone sia tra i luoghi più cercati da chi suona è effettivamente spia di un problema drammatico.

Così come lo è il fatto che alcuni dei nuovi collettivi più interessanti facciano continuamente il giro della città, inventandosi location improbabili. Tanto per citarne due, Reveries nell’ultimo anno ha portato alcuni tra i nomi emergenti più interessanti della scena clubbing mondiale dentro una ex galleria d’arte lontana da tutto; Ekstasis ha intercettato due dei nomi più celebrati dalla critica internazionale (Mabe Fratti e Nyokabi Karyuki, oltre a diversi altri protagonisti del panorama italiano) portandoli a suonare negli spazi di una chiesa concessa da un prete bonario e ovviamente “inconsapevole”. Sono situazioni che fanno quasi sorridere e che per il pubblico possono risultare vagamente suggestive, ma per chi organizza rappresentano un peso enorme e insostenibile sul medio/lungo termine. Il che si traduce in una limitata sopravvivenza del progetto e quindi dell’esaurimento della sua linea artistica – per non parlare di quello psicologico dei suoi animatori.

Far volare una band di quattro elementi, ospitarli e pagare un cachet è ormai qualcosa di inconcepibile per il 95% delle venue romane

Questa paralisi dovuta alla mancanza di spazi e al “su gli scudi” di molti tra quelli rimasti, si unisce a un altro grande problema, quello dell’aumento dei costi. Un’equazione il cui risultato è la sempre più incidente mancanza di artisti internazionali sul suolo romano. Far volare una band di quattro elementi, ospitarli e pagare un cachet (sono aumentati tutti) è ormai qualcosa di inconcepibile per il 95% delle venue romane – soprattutto se si ragiona in termini di scommessa e ricerca e non di risultato assicurato. Insomma, a Roma, dal post-Covid in poi (qualunque cosa voglia dire), si è ascoltata per lo più musica romana e italiana. Il che può essere considerato anche un valore: una spinta forzata alla valorizzazione locale che ha permesso a tanti nomi nuovi autoctoni di trovare lo spazio che in anni di eccessiva esterofilia forse non ci sarebbe stato.

C’è poi un dato curioso, per ora supportato da nient’altro che dall’osservazione e dalle frequentazioni del sottoscritto: se la fascia media di artisti internazionali è scomparsa, in un sorprendente rovesciamento di ruoli alle serate medio-piccole sembra affacciarsi sempre più pubblico internazionale. Per dinamiche ben note ma troppo complesse e lunghe da riassumere qui – gentrificazione, costo della vita, generica fascinazione – c’è una classe creativa non italiana che si sta facendo sempre più vedere a Roma, approfittando di affitti (per le tasche estere) bassi e una qualità della vita tutto sommato alta. Un’ulteriore variabile all’interno della già esplosa e complessa galassia romana.

La diminuzione degli artisti internazionali rimane comunque un problema: oltre che per l’impoverimento dell’offerta della città, anche per una sorta di un inarrestabile effetto domino che finisce per riflettersi in negativo sulle dinamiche dei festival, in un discorso che diventa poi nazionale. Se infatti durante l’anno si fa fatica a intercettare gli artisti internazionali, le programmazioni estive dei medi e grandi eventi estivi sono invece spesso ingolfate. La tendenza che sembra essersi affermata è quella di un investimento monstre da parte dei festival: costi altissimi che per forza di cose finiscono per esser fatti “pagare” agli attendenti, con il vero corto circuito che consiste in forbice sempre più ampia tra costi per l’utente (altissimi) e servizi offerti (mediamente scarsi).

Arriviamo alla seconda domanda scappata dalla stanzetta: perché continuiamo ad amare e/o odiare Roma. Questa sensazione di eterna incompiutezza è reale? Che città immaginiamo, culturalmente e musicalmente parlando? Roma continua ad essere la città del “pubblico”, dei bandi vinti per tirare avanti la carretta un altro po’ e dello sforzo disumano dei piccolissimi attori che costruiscono a proprie spese altrettanto piccoli miracoli – sacche di gioia e resistenza che resistono fin quando la corrente non le spazza via. Come già accennato, è un modello la cui caratteristica principale è l’essere a tempo determinato: si resiste finché si può, fin quando i pochi soldi e le tante energie non finiscono.

La soluzione, come ciclicamente ipotizzato negli anni, sarebbe una sorta di “milanesizzazione” della città? Un’apertura diversa agli investimenti privati (spoiler: non c’è la fila), una città più commerciale e dal calendario diviso rigidamente in week al posto dell’eterno disordine e caos indomabile che conosciamo bene? In realtà gli stessi amici e colleghi di Milano, osservatori esterni, invidiano il sottobosco “senza regole” di cui possiamo godere; quella risposta dal basso per lo più libera e scevra da logiche commerciali che ormai sembra essere scomparsa dal capoluogo lombardo; quel tipo di spinta per cui prendersi dei rischi è ancora un valore e un mezzo attraverso cui costruire comunità, scene, socialità alternativa.

Roma è centripeta: una sorta di buco nero la cui forza di attrazione assorbe dentro di sé tutto quello che riesce, facendolo suo. Ma allo stesso tempo la forza centripeta che Roma esercita su quello che non è Roma, si fa magicamente centrifuga quando entriamo negli slabbrati confini cittadini. Storicamente, nella Capitale il movimento non è stato dal centro verso la periferia ma il suo contrario. E questo corto circuito tra fuori e dentro, dentro e fuori, rapporti con l’esterno e rapporti interni continua a rendere Roma un nido d’api capace di produrre miele dolcissimo.

Codici e innovazioni artistiche sviluppate in modo spontaneo, specialmente se alla periferia di tutto, hanno oggi una vita naturale brevissima

Come poche altre volte nella storia recente però, questo movimento cittadino, riconosciuto anche da fuori e capace di ricavare tanto dal poco, sembra essere a sua volta in pericolo. Questo perché se la sfera del “pubblico” è oggi più che mai a tempo determinato/aleatoria e quella commerciale quasi inesistente, la naturale conclusione è che gli investimenti privati (intesi proprio come patrimonio del privato cittadino/i) diventino imprescindibili. Codici e innovazioni artistiche sviluppate in modo spontaneo, specialmente se alla periferia di tutto, hanno oggi una vita naturale brevissima prima che vengano assorbite, sfruttate e distorte da chi ha le capacità di investimento e pensare un business model a partire da quelle. Una vera e propria gentrificazione culturale che è un’altra delle caratteristiche imperanti del post-covid e che a Roma, per le specificità della città fin qui descritte, può avere la strada spianata. Il rischio è che gli “abiti” di codici periferici e spontanei siano indossati (con spontaneità o meno è relativamente importante) come la pelle d’agnello da un lupo che abita ai piani alti della città.

Nel momento in cui scrivo le forze centrifughe e centripete, Prati e Centocelle, il gin tonic a quindici euro e il vino a tre, sono ancora in equilibrio: precario e pronto a pendere dalla parte del più (economicamente) forte, ma spesso anche fruttuoso. Un auspicio quindi può certamente essere che questo sia riconosciuto come tale, esplorato e capito, da una parte e dall’altra, per evitare un definitivo atteggiamento predatorio che vorrebbe dire maggiore isolamento di tutti, crollo di comunicazioni, di possibilità e – banalmente – divertimento. Non vogliamo una città in cui suoni solo chi ha soldi per un pubblico che ne ha altrettanti.