Quadraro in Jazz è una storia molto romana. Lo è perché in sé racchiude la dicotomia che anima tutto ciò che è “moooolto romano”: la tensione costante tra un ribollio vitale pronto alla rivoluzione e una proiezione di sé stessi apparentemente monolitica. Ho avuto il piacere di animare questa rassegna di jazz popolare fin dagli albori insieme agli amici di una vita, arrivando proprio oggi al settimo anno di esistenza: per un’esperienza nata dal basso e rimasta sempre indipendente è un risultato che ha del miracoloso. Un motivo in più per ripercorrerne le tappe, raccontando non solo un’esperienza personale, ma anche un pezzo di storia (musicale) della città.
Quadraro in Jazz nasce dentro al CSOA Spartaco nel febbraio del 2017, da un’idea e dagli sforzi di Vittorio Gervasi, Maurizio Gallo, Luca Garzia e del sottoscritto. Negli anni poi si sono aggiunti i contributi fondamentali di Elena Galvanio, Donato Di Lorenzo, Samuele Cima – Chiara Cocchi, Eliana Casale e Umberto Tati per le foto. L’idea alla base era semplice: portare in quartiere popolare un genere spesso concepito come “difficile” e rinchiuso in circuiti elitari, accademici e costosi. La prima edizione, realizzata senza troppe aspettative, fu una sorpresa eccezionale in termini di partecipazione e sensazioni. D’altronde nel VII Municipio – il più popoloso di Roma e uno dei più popolosi d’Europa – non esisteva un luogo dove ascoltare musica jazz dal vivo e in tutta Roma ce n’erano forse solo un paio dove farlo a prezzi popolari.
Ci siamo accorti subito quanto a funzionare veramente fosse l’ambiente che si creava in modo spontaneo. Il pubblico non ha mai “subito” l’evento in modo passivo: l’ambiente informale del CSOA Spartaco e la vicinanza fisica tra pubblico e musicisti (ci arriviamo) hanno sempre stimolato la socialità in modo naturale. Una socialità che rimane un piccolo unicum, uno squarcio socio-culturale poche volte replicato altrove. Alle serate di Quadraro in Jazz sono passate persone di tutti i tipi: gli indefessi cultori del genere abituati ad Auditorium e locali del centro; gli studenti di Conservatorio e St. Louis; i grandi vecchi che ricordano il passaggio di Chet Baker a Roma; le persone del quartiere incuriosite e completamente ignare – rimane iconica la classica frase di chi si affaccia da Via Selinunte: “Che ci sta ‘sta sera? “Gez”? Ah bello, poi torno”.
In queste sette anni sono passati alcuni dei musicisti più importanti del panorama nazionale: Carlo Conti, Enrico Morello, Francesco Diodati, Stefano Calderano, Francesco Fratini, Igor Legari, Manlio Maresca, Federico Pascucci, Laura Taglialatela, Simone Alessandrini, Pasquale Innarella, Alessandro D’Anna, Federica Michisanti, Alessandra D’Alessandro, Domenico Sanna e tanti altri. Con la maggior parte di questi è nato un rapporto di fiducia e stima reciproca che si è evoluto in una familiarità fondamentale, spesso in amicizia. Sono poi assolutamente da ricordare i due ospiti internazionali: Benito Gonzales e Logan Richardson. Il primo, pianista venezuelano di base a New York, è atterrato a Roma nel 2018 per una masterclass ancora oggi mai replicata sul suolo italiano. Un musicista eccezionale, tra le altre cose nominato due volte ai Grammy e parte, negli anni, delle band di alcune leggende del genere – Jackie McLean, Kenny Garrett e Pharoah Sanders su tutti. E poi Logan Richardson (Blue Note Records): uno dei veri e propri maestri del sassofono contemporaneo americano, un musicista versatile e imprevedibile, ospite della band di Andrea Molinari per un concerto indimenticabile, tra i più partecipati di questi anni.
Di momenti topici ce ne sono stati tanti altri. Uno che non scorderemo mai è legato purtroppo a un vuoto enorme, quello lasciato dalla scomparsa prematura di Carlo Conti. Carlo è stato un punto di riferimento assoluto per tutti i giovani musicisti romani: un artista meraviglioso, con un talento sconfinato, messo al servizio della musica in ogni sua declinazione possibile – per dire, ad un certo punto con i suoi Neo è finito nello studio di Steve Albini a Chicago – e, soprattutto, di ogni situazione possibile. Con preferenza per quelle un po’ scalcagnate e con poche possibilità materiali come la nostra. Di alterigia neanche l’ombra, nonostante potesse decisamente permettersela: a brillare era anzi uno spirito cazzone, adorabile e sincero.
Carlo ci aveva preso in simpatia da subito, regalandoci così automaticamente la stima e la fiducia di tutta la Roma jazzistica (e non solo), lasciandoci in eredità due perle. Il 20 Ottobre 2017, in occasione del concerto con il suo quartetto composto da Armando Sciommeri, Pietro Lussu e Vincenzo Florio, suggerì di scendere dal palco e posizionare la band al centro della sala — suggerimento che abbiamo fatto nostro replicandolo poi in quasi tutte le serate seguenti. Fu un momento magico. A oggi rimane la serata più partecipata della nostra storia, uno dei concerti più emozionanti a cui ho (abbiamo) mai assistito. Completamente improvvisato sul momento, basato solo sulla fratellanza dei musicisti coinvolti e sull’energia di quello spazio buio, dall’aria tangibilmente elettrica, pieno di umori. Di quella nottata custodiamo gelosamente una registrazione integrale, cui speriamo prima o poi di rendere giustizia.
Già dalle primissime edizioni, a Quadraro in Jazz abbiamo inaugurato un approccio ormai diffuso, ma all’epoca per lo più confinato all’estero e a pochi festival illuminati sul suolo italiano. Fino alla pandemia dopo i concerti partiva un dj set che fondeva dancehall, afrobeats, hip-hop e baile-funk, curato da Pablo Lamoreaux, Luca Garzia e da me. Le serate quindi partivano alle 22:00 con un un concerto di jazz contemporaneo e finivano spesso alle 03:00, rimbalzando sui bassi di un brano pompato dall’impianto. È sempre stato bello vedere i due mondi “scontrarsi” e molto spesso scoprirsi vicendevolmente, abituandosi a una convivenza proficua che ormai è lo standard assoluto, che si ritrova ormai in tante serate di genere anche nella Capitale.
Un altro approccio abbastanza inedito è stato il taglio “editoriale” che abbiamo sempre tenuto a dare al progetto. Lo scopo era fornire un certo tipo di consapevolezza sul jazz, le sue origini, il presente e il futuro, cercando di contestualizzarlo ogni volta all’underground della città. Ricordare che è un genere nato come estensione di rivoluzioni sociali, portatore di messaggi senza tempo. In questo senso, avere avuto dalla nostra un luogo come Spartaco è stato fondamentale e bellissimo, un matrimonio perfetto per intenzioni e consapevolezza. Animati da questo intento siamo stati la prima rassegna di genere ad andare in giro per la città in lungo e largo per realizzare video-interviste (ancora visionabili su Facebook e Youtube) ai protagonisti delle nostre serate. Abbiamo mappato una geografia diffusa, storie diversissime fra loro; musicisti che nella maggior parte dei casi abitano le periferie romane e ce le hanno raccontate attraverso il filtro musicale, senza sovrastrutture. Un approccio HYPERLOCAL insomma: il quartiere come microcosmo finito, porta privilegiata per capire una città e le influenze che la abitano. Testimonianze di cui facciamo tesoro tutt’oggi. Ci sono poi stati articoli, post di approfondimento e, con la chiusura imposta dalla pandemia, un importante lavoro di documentazione della vita degli artisti in un momento delicato come quello, tramite video testimonianze e talk durante i mesi di lockdown più duro.
In sette anni Quadraro in Jazz si è mosso in una Roma sconvolta prima dalla chiusura di luoghi di riferimento per la musica dal vivo, poi da una pandemia che ha chiuso anche tutto il resto. Questa esperienza nasceva in primis dalla sensazione di vuoto che abbiamo provato quando eravamo tutti appena entrati nei vent’anni, con la fame di ascoltare, vedere e vivere quello che non c’era. Abbiamo seguito un nostro bisogno scoprendolo comune, venendo ripagati da un affetto, una gratitudine e una risposta di pubblico che continua a commuoverci oggi — non si può dire lo stesso per le “istituzioni”, ma lasciamo le polemiche per un’altra occasione. In questi sette anni siamo cambiati (ora più vicini ai trenta che ai venti – sic!), ognuno con un bagaglio di esperienze diverso, un presente diverso e percorsi di vita diversi.Ma la sensazione di tendere la mano nel vuoto senza sapere cosa possa succedere e sentirla afferrare invece da decine di dita, con la stessa forza e con le stesse intenzioni, rimane un brivido che portiamo tutti dentro. E che ricerchiamo in tutto quello che facciamo oggi.
Oggi quindi, con il quarantottesimo concerto, si festeggia! Perché finché ci sarà il pubblico a creare quell’atmosfera lì, Quadraro in Jazz andrà avanti.