La parola campo fa pensare a superfici ampie, distese naturali dai confini difficilmente individuabili. L’esatto opposto dell’idea che comunemente si ha dell’architettura: dare una struttura definita spazio. La contraddizione sparisce se il campo diventa un’area libera in cui l’architettura diventa “oggetto” da sviscerare e analizzare in ogni suo aspetto, materiale e concettuale. Un luogo dove “dibattere, studiare e celebrare l’architettura”. Esattamente con questo intento, dagli ambienti
di un vecchio mulino degli anni 30 al Mandrione, è nato nel 2015 CAMPO: non una galleria ma uno luogo dove l’architettura è il perno attorno al quale ruotano mostre, talk, workshop, presentazioni di libri. I fondatori sono: Gianfranco Bombaci, Matteo Costanzo (fondatori dello studio 2A+P/A a Roma), Luca Galofaro (architetto di Roma) e Davide Sacconi (architetto e dottorando dell’Architectural Association di base a Londra), coadiuvati da Patrizio Sbarra (Nella foto, da destra: Luca Galofaro, Gianfranco Bombaci, Matteo Costanzo, Davide Sacconi e Maria S. Giudici. Maria S. Giudici, non è tra i fondatori di CAMPO, ma con la sua casa editrice Black Square Press è partner fondamentale di molte iniziative). Li abbiamo contattati per farci
raccontare la storia – seppur ancora breve – di questo interessantissimo progetto, tra le poche novità culturali di Roma nate nel 2015 appena trascorso.
ZERO: Iniziamo dalle presentazioni: chi c’è dietro CAMPO?
CAMPO: CAMPO nasce dall’iniziativa di Gianfranco Bombaci, Matteo Costanzo, Luca Galofaro e Davide Sacconi con il prezioso aiuto di Patrizio Sbarra. Siamo tutti nati a Roma tra il 1966 e il 1980.
Qual è la vostra professione e dove lavorate?
Siamo tutti architetti e lavoriamo tutti a Roma, tranne Davide che vive e lavora a Londra.
Cos’è Campo? Ci potete raccontare com’è nata l’idea, come l’avete sviluppata e tradotta poi in un luogo fisico?
CAMPO è uno spazio dove discutere, studiare e celebrare l’architettura con mostre, talk e workshop. Uno spazio fisico per vedere, parlare e fare architettura al di fuori di quegli schermi che ormai imprigionano il dibattito. Un luogo di incontro, un punto di riferimento, un’antenna incastonata nelle rovine archeologiche della periferia per intercettare segnali flebili e distanti di visioni architettoniche. Da tempo volevo costruire a Roma uno spazio che ci è sempre mancato. Gianfranco e Matteo hanno lo studio nello stesso complesso industriale, un giorno è apparso sul cancello di ingresso un cartello affittasi: l’occasione è stata presa al volo. Questo spazio ora c’è.
Cosa ospitava precedentemente la sede?
CAMPO è all’interno del cortile del vecchio Mulino Natalini, una struttura degli anni 30 che produceva farina nell’allora campagna romana. Ora si trova nel bel mezzo del Mandrione, alla presenza delle rovine romane dell’Acquedotto Felice. Il nostro spazio ha ospitato storicamente diverse attività, falegnameria, artigianato di varia natura, magazzino.
Immagino che il suo aspetto spoglio e “rude” sia una scelta voluta.
Ci sembrava essere la natura del luogo. Abbiamo fatto solo alcuni piccoli miglioramenti come le luci e la pulizia del pavimento in cemento. CAMPO non è una galleria. È più un luogo di produzione e ci piaceva l’idea che mantenesse un’aspetto più simile ad un’officina. Non ti nascondo che anche il budget doveva essere tenuto il più basso possibile, essendo per ora tutto autofinanziato.
Ci potete raccontare le due mostre che avete ospitato fin’ora?
The Supreme Achievement è stato un workshop e una mostra. Davide e Maria Shéhérazade Giudici, docente alla AA di Londra ed editrice con Black Square Press, hanno seguito 15 studenti nella formulazione di 12 plastici in gesso ispirati a 12 immagini (con testi) prodotti da 12 studi/architetti europei: Alex Maymind, Amid.Cero9, Aristide Antonas, Behemoth, Dogma, Didier Fiuza Faustino, FORA + Beth Hughes, Map Office, Microcities, Miniatura, Philippe Morel, Raumlabor. Tutto il progetto prende ispirazione dalle 12 città ideali di Superstudio. Un’inizio molto intenso che ci ha fatto capire le grandi potenzialità di CAMPO.
Experiencing Fragility è stata la seconda mostra di CAMPO. In questo caso abbiamo esposto 16 disegni dell’architetto e artista franco-portoghese Didier Fiuza Faustino. Lo seguiamo con ammirazione da anni e la sua recente esposizione nella mostra Transformers al Maxxi ci è sembrata una buona occasione per costruire con lui uno spin-off con una selezione di suoi disegni anche meno recenti.
A breve ne ospiterete una terza: di cosa si tratterà?
Mettiamo in mostra un libro che racconta l’immaginario della luna, da Aristotele fino alle ultime conquiste spaziali. Ci piace cercare nuovi territori da esplorare, l’architettura è anche questo.
Allargando lo sguardo alla città, Campo è uno dei pochi nuovi luoghi di cultura che ha aperto a Roma nel 2015: anche per voi la città sta ristagnando pericolosamente o intravedete dei segnali positivi per il prossimo futuro?
Come dicevamo, CAMPO è uno spazio indipendente dedicato all’architettura e vuole far emergere la ricchezza straordinaria che questa città ha da offrire da un paio di millenni a questa parte. Un segnale di vita in un momento molto difficile per la città e per la nostra professione.
Qual è il vostro rapporto con la città, sia personale che professionale?
Amore e odio. Roma è forse una delle città più difficili dove fare il mestiere dell’architetto ma è anche il contesto ideale per conoscere, riflettere, sperimentare. C’è già tutto, bisogna solo saperlo leggere.
E il rapporto tra Roma e l’architettura, specialmente quella “contemporanea”?
È la città della complessità e della contraddizione per antonomasia. Nulla può avvenire a Roma senza conflittualità, ma poi tutto trova nel tempo il suo posto e il suo significato. Questo è il limite ma anche la grande capacità di questa città
Secondo voi perché Roma si rinnova, da un punto di vista architettonico, così lentamente? Non ci sono alternative a naufragi come quello della famosa Nuvola dell’Eur?
Non è un problema solo di Roma. Il processo di costruzione dell’architettura è molto lungo e pieno di trappole. Avrebbe bisogno di stabilità, decisione, determinazione, soprattutto politica. Abbiamo vissuto momenti migliori, ma questa lentezza dell’architettura è anche un antidoto all’irrefrenabile velocità della condizione contemporanea.
Come descrivereste il rapporto tra Roma e l’architettura in una frase?
Complesso, contraddittorio e di una ricchezza straordinaria.
In che quartiere abitate? Cosa vi piace e cosa cambiereste?
Viviamo in diverse zona di Roma, sia centrali che periferiche. Più che cambiare si tratta di imparare a leggere e a riscrivere la città. Non è un problema solo degli architetti, ma siamo chiamati a dare l’esempio. Se poi volete una città che funziona andate a trovare Davide a Londra.
Campo si trova nella Zona Est di Roma, dove gli spazi sono spesso informali o abusivi, ma anche estremamente funzionali ad ospitare nuove attività, soprattutto creative. È una dinamica paradossale questa o comune anche ad altre città?
È comune a molte altre città, in particolare in zone industriali ormai dismesse, anche se a Roma non ce ne sono molte perché all’industria si è preferita la burocrazia. La zona del Mandrione è eccezionale. Un collage straordinario, pieno di vita. Non è un caso che stia attraendo molte realtà legate al mondo della produzione creativa che qui trova spazi adeguati, prezzi accessibili e un contesto molto stimolante.
Qual’è il vostro architetto di riferimento?
Ce ne sono molti e ognuno di noi ha i suoi. Forse Ettore Sottsass incarna per tutti noi, sia per il suo percorso professionale che di vita, un riferimento ricorrente. La lettura della sua autobiografia Scritto di notte è una lettura certamente consigliata.
L’edificio che più vi ha colpito tra tutti quelli visti?
Il Beaubourg.
Il vostro edificio preferito di Roma, quello per voi più emblematico della città?
L’acquedotto romano.
Qual è la mostra migliore che avete visto ultimamente?
“La Grande Madre” a Palazzo Reale a Milano, curata da Massimiliano Gioni. Un viaggio straordinario nell’iconografia della donna del ‘900.
E la migliore vista ultimamente a Roma?
“Anime” di Andrea Branzi, curata da Emilia Giorgi alla Fondazione VOLUME!. È possibile visitarla fino al 4 Marzo 2016.
Il vostro scorcio preferito della città?
A via Piccolomini c’è una vista eccezionale sulla cupola di San Pietro. Per uno strano effetto ottico all’inizio della via la cupola appare molto grande, man mano che ci si avvicina il campo visivo si amplia e la cupola riacquista le sue dimensioni reali. La meraviglia dell’illusione ottica ci ricorda di cosa è capace l’architettura: emozionare attraverso una semplice regola.
Ci dite un bar e un ristorante di Roma dove vi piace andare quando non siete al lavoro?
Il bar Brunori in largo Giovanni Chiarini è un’istituzione. Per i ristoranti dipende dal periodo e dalle occasioni. Per ora direi l’Osteria Guerra, un modo diverso di andare a cena insieme.