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Donato Dozzy

In occasione del nuovo album in uscita su Presto!?, 12H, abbiamo intervistato una delle figure più importanti dell'elettronica romana e italiana

Written by Nicola Gerundino il 30 September 2019
Aggiornato il 8 October 2019

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Roma

Place of residence

Roma

Attività

Musicista

Correva l’anno 2014 e ricorreva il centenario del Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Un po’ in sordina, ma forte di una triangolazione degna delle migliori stagioni culturali di Roma, tra i tanti eventi celebrativi fece capolino un’installazione che vide collaborare il Coni, Bartolomeo Pietromarchi (futuro direttore del MAXXI Arte) e Donato Dozzy, istituzione maxima quando si parla di elettronica qui in città. “12h”, ovvero, nomen omen, un tappeto sonoro composto – e infarcito di field recording – da Dozzy, che dalle dieci di mattina a alle dieci di sera animava attraverso un sistema di 24 altoparlanti il Ponte della Musica Armando Trovajoli – il ponte pedonale a due passi dal Foro Italico e dallo Stadio Olimpico, per intenderci. I risultati di quell’iniziativa furono talmente sorprendenti – grazie soprattutto a un’osmosi quasi naturale che si venne a creare tra Donato e quel luogo – da segnare profondamente creatori e partecipanti, al punto da arrivare, cinque anni dopo, alla pubblicazione di un album che ne riproponesse di nuovo l’incredibile esperienza sonora, seppur in forme e tempi diversi. Il disco si chiamerà “12H”, uscirà sulla Presto!? di Lorenzo Senni e Ruggero Pietromarchi e sarà disponibile per la priva volta per Positive Feedback, appuntamento in programma a Milano il 4 ottobre, in cui Dozzy suonerà assieme a Curtis Roads, Florian Hecker, Tasho Ishi, Ewa Justka e allo stesso Senni, curatore della rassegna. In questa intervista leggerete il racconto – assolutamente romantico – della nascita dell’album e di un rapporto speciale che tutt’ora sussiste tra Donato Dozzy, Roma e i suoi luoghi.

 

Iniziamo dagli albori di questo disco: per fissare la sua nascita dobbiamo tornare indietro nel tempo di cinque anni.

Sì, “12h” è del 2014 e nasce per celebrare il centenario del Coni, che per l’occasione realizzò una serie di iniziative che riguardarono non solo il Ponte della Musica, ma anche il Villaggio Olimpico e tutta un’altra serie di luoghi legati alla dimensione sportiva. Bartolomeo Pietromarchi, curatore del progetto, pensò di fare qualcosa di sperimentale sul Ponte. Assieme a lui avevo già collaborato un anno prima per la Biennale di Venezia del 2013, dove avevo realizzato assieme a Rabih Beaini un’installazione dentro il negozio Olivetti a Piazza San Marco. Per il Ponte della Musica l’idea fu di usarlo come un luogo di migrazione sonora, disponendo una mia composizione lungo tutto il suo perimetro grazie a 24 diffusori Funktion-One e grazie alla produzione tecnica di Giuseppe Tillieci (in arte Neel, nda). C’erano suoni che partivano da una parte e finivano dall’altra, brani che erano suddivisi per gruppi di suoni che mutavano in base al punto d’ascolto e così via. Il risultato complessivo fu talmente bello che iniziò un’insolita frequentazione di personaggi che si presentavano quotidianamente per fare questa esperienza musicale e né io, né le altre persone coinvolte ci saremmo mai aspettate un effetto del genere. Il Ponte ha suonato benissimo, gli speaker sono stati posizionati tutti nel punto giusto, l’effetto sonoro è stato stupendo, per cui questa installazione l’ho sentita veramente come una mia creatura, tant’è che non sono riuscito a staccarmene per tutta la settimana di durata: la mia presenza sul posto non era necessaria, ma nonostante questo ho voluto esserci tutti i giorni e per tutto il tempo, dalle dieci di mattina alle dieci di sera, per osservare come le persone reagivano e interagivano. Ne sono passate di tutte le età e di tutte le tipologie e nella maggior parte dei casi erano sorprese, soprattutto chi aveva una certa età, a causa di una predisposizione, assolutamente non casuale, per gli ascolti sperimentali.

Sono generazioni che hanno avuto un altro tipo di educazione all'ascolto.

Sì, ma non solo. Sono persone che avevano la mia o la tua età negli anni 70, ovvero anni in cui in Italia si è sperimentato molto, soprattutto con il rock progressivo. Per cui non mi ha sorpreso affatto che molte persone anziane avessero una perfetta intuizione di quelle che erano le idee di base dietro questo progetto. È stata una cosa molto bella, forse unica nel suo genere – ovviamente per quel che riguarda la mia esperienza – che è diventata quasi un’esperimento sociologico. All’ingresso del Ponte c’erano sì dei pannelli informativi, ma la maggior parte delle persone che lo percorrevano, a piedi o in bicicletta, lo facevano sovrappensiero o comunque non si fermavano a leggere. Per cui c’erano reazione molto diverse, alcuni non si accorgevano di nulla, soprattutto se nel momento in cui passavano non c’era della musica, ma degli effetti sonori che erano perfettamente integrabili con il contesto: registrazioni del traffico, suoni presi da sopra e sotto il Ponte, etc.

Ti ricordi qualche reazione che ti ha colpito particolarmente?

Sì, diverse. Te ne racconto qualcuna. L’installazione è stata realizzata all’inizio del mese di giugno per cui, essendo praticamente in estate, avevo inserito nella composizione anche delle cicale, solo che nel resto della città questo tipo di suono ancora non c’era, perché eravamo in anticipo di qualche settimana sulle cicale reali. E mi ricordo di un ragazzo che passando sul ponte si fermò, chiamò la sua ragazza e le disse: «Amo’! Qua ce stanno già le cicale!», senza minimamente pensare che potesse essere un effetto sonoro artificiale. Un altra reazione particolare c’è stata rispetto al suono di un aereo Cessna che avevo registrato al Circeo: avevamo fatto in modo che il suo rumore del motore migrasse da nord a sud del Ponte, per cui al momento del passaggio vedevo tanta gente che guardava all’insù, anche se in realtà per aria non c’era niente. O ancora, a mezzogiorno, ogni giorno, si sentivano delle campane che sembrava venissero da San Pietro e la gente si domandava da dove arrivassero perché nelle vicinanze non c’erano chiese. Abbiamo anche simulato una partita a tennis con una palla che rimbalzava da una parte all’altra, con le racchette che erano perfettamente udibili ai due estremi del Ponte. Molti dei suoni che si potevano ascoltare erano riferiti allo sport: biciclette, jogging, etc.

Altri aneddoti da raccontare?

Più che aneddoti, c’è stato un grande lavoro di ricerca che è rimasto un po’ nell’ombra all’epoca dell’installazione e mi fa piacere menzionare adesso. Ad esempio, alcune delle musiche e delle percussioni che ho usato si rifanno alle ricostruzioni dei suoni dell’antica Roma del maestro Walter Maioli. Il carattere un po’ solenne e marziale di alcuni ritmi e di alcuni suoni deriva proprio dalle sperimentazioni fatte con degli strumenti romani ricostruiti dalla sua equipe, quindi insiti nella cultura della città. Un’alta curiosità riguarda le scelte armoniche della composizione, che partivano dai suoni e dalle armoniche delle ambulanze, delle sirene della polizia o dei clacson. Succedeva quindi che alcuni di questi suoni reali venissero inglobati dalle musiche sul Ponte, con le frequenze esterne che si incastravano perfettamente in quelle interne, per cui chi ascoltava non si accorgeva più della differenza. È stata una cosa che in pochissimi hanno notato, ma non era casuale. Ho ripreso anche delle registrazioni di Italia-Brasile del 1982 con la telecronaca di Nando Martellini, focalizzando l’attenzione sulle trombe che si sentivano in sottofondo, anche’esse in perfetta combinazione armonica con tutto il resto della composizione. Ho preso la fine della telecronaca, in cui Martellini praticamente non parla più e si sente solo lo stadio, e ho creato dei loop e un tappeto sonoro, con la voce che si sentiva al centro del Ponte, mentre ai lati c’era il suono dei tifosi e delle trombe. Partiva tutto dai ricordi della mia infanzia e poi, per fortuna, sono riuscito a trovare le registrazioni originali. Era giusto celebrare lo sport includendo questo momento, anche per chi non c’era.

 

Come hai trasformato in un album questa installazione?

Ho ripreso tutte le registrazioni originali e ho accorciato i tempi, perché, come puoi immaginare, c’erano delle lunghe pause tra un brano e l’altro, essendo un lavoro pensato per durare 12 ore. Alcuni brani non li ho utilizzati, così sono riuscito a ridurre la composizione a 97 minuti, con una frequenza bassa di 30-40Hz presa nel mezzo del Ponte che crea amalgama e dà un effetto vivo. Inoltre, abbiamo deciso di non pubblicarle l’album in vinile, perché è un tipo lavoro che ha senso nell’ottica di un ascolto senza interruzioni.

È stata la Presto?! a contattarti per questa pubblicazione o sei stato tu a cercarli?

In realtà ho parlato veramente a lungo con Ruggero Pietromarchi sulla possibilità di ricavare un disco da questa installazione. Io e lui siamo buoni amici, oltre che collaboratori, per cui so perfettamente che ha quel tipo di cura che richiede un lavoro del genere. Oltretutto, quest’installazione l’ha vissuta da vicino, sa di cosa si tratta. Insomma, ci sono voluti cinque anni per fare questo album e di certo non poteva occuparsene una label qualsiasi. Sono stato felice che sia stato lui a farlo, così come sono stato felice che Bartolomeo Pietromarchi abbia scritto una presentazione molto bella, in cui spiega perfettamente il tipo di lavoro che è stato fatto.

Hai mai pensato di far uscire l'album su una tua etichetta?

Non più di tanto, anche perché è un tipo di pubblicazione diversa rispetto a tutto il resto che facciamo uscire. Poi, come detto, mi piaceva l’idea di lavorare assieme a una persona che avesse cognizione di causa e fosse stata coinvolta quanto me nel progetto. Arrivo a dirti che senza Ruggero non l’avrei mai fatto questo disco.

 

Mai come in questo caso si può dire che abbiamo a che fare con un album che nasce dalla città. Ti chiedo allora che città è per te Roma?

Per me Roma rimane una città di creativi, una città fatta dalla somma di personalità creative: è stata così e sarà sempre così. Vorrei dire una città creativa, ma non si è mai formato un movimento generale di musicisti e artisti, piuttosto si sono create realtà legate ai quartieri o alle amicizie. Dico quindi una città di creativi, con un equilibrio tra uno spirito giocherellone e una certa solennità, una patina austera, qualcosa di dark, che rende i risultati sempre interessanti. È un elemento imprescindibile di Roma, che la rende speciale e particolare rispetto alle altre città: sarà per la storia, per la Chiesa, per la presenza di tutti questi monumenti e segni di un passato che naturalmente non può non influenzare, sia quelli nati qui sia quelli di passaggio. Non è un caso che ancora oggi persone vengano qui dall’estero per ispirarsi, per canalizzare l’energia della città. Da un punto di vista creativo Roma è sempre stata il polo più potente.

Che città è, invece, da un punto di vista più prettamente musicale?

Una città sempre vitale. Vedo nuove generazioni piene di gente di talento, anche se legate a fenomenologie musicali che non conosco o che non comprendo o che non ho voglia di comprendere al momento. I giovani qui a Roma hanno sempre a che fare con la musica: lo so, lo vedo, lo sento. Cerco sempre di informarmi, anche se giro meno per la città. Anzi, ti dirò che, ora come ora, fare cose artistiche è più sicuro rispetto al cercare un lavoro fisso. Viviamo in tempi di incertezza generale, in tempi di scontento e in cui c’è necessità di esprimere lo scontento. E non c’è modo migliore che farlo che artisticamente.

La creatività per esprimersi ha sempre bisogno di spazi, di luoghi. E se c'è un luogo a cui il tuo percorso è legato indissolubilmente questo non può che essere il Brancaleone. Che è esperienza è stata ed è tuttora per te?

Il Brancaleone è un posto che amo e dove sono cresciuto. Ci sono stato 11 anni e tutt’ora non posso dire che si tratti di un’esperienza conclusa, tant’è che quando, con mille fatiche, è riuscito a riaprire quest’anno, sono stato subito contattato per fare la prima serata, che è stata un momento di grande emozione. Devo dire che quella serata è stata un po’una meteora, ci sono stati altri appuntamenti in cui non dico che mi sono ritrovato da solo, ma quasi: una cosa che mi ha fatto profondamente male e su cui è importante fare una riflessione generale, legata ai tempi di incertezza di cui parlavamo prima. Prima i centri sociali – che ormai si contano sulle dita di una mano, con alcuni che riescono a sopravvivere passando ad associazioni di altro tipo – erano luoghi di assembramento, dove ci si univa pur venendo da diverse estrazioni sociali e dove si creava controcultura. E una controcultura è fondamentale per la salute del dialogo politico e artistico. C’è bisogno di poli dove si facciano cose diverse da quello che viene ritenuto comunemente come “adatto” o “giusto”. Se non ci fosse stato il Brancalone non ci sarebbe stato neanche il processo artistico che mi ha portato dove sono ora. Lì nessuno mi ha mai detto: «fai questo» o «fai quello», «c’è bisogno di questo» o «c’è bisogno di quello», mi dicevano «fai quello che ti pare, ma fallo con il cuore». Questo è quello che mi diceva Riccardo Petitti e questo è quello che ho fatto. Questi luoghi ora mancano ed è per questo che spero che i problemi tecnici e logistici del Brancaleone si risolvano in fretta: perché non solo Roma, ma tutta l’Italia ha bisogno del Brancaleone, che oltretutto è una struttura polifunzionale difficile da trovare in giro. È un posto le cui mura trasudano cultura musicale, cultura dell’accettazione e dell’integrazione. Una struttura del genere completamente ripristinata andrebbe a vantaggio di tutti e per questo mi auspico una presa di coscienza collettiva: non posso salvare io da solo il Brancaleone, ci deve essere un’azione condivisa, mentre invece ho notato una mancanza di sensibilità negli artisti di Roma e nei romani che mi ha colpito in negativo. È importante ricostruire una controcultura e creare dei luoghi dove ci sia questa controcultura. A politici di oggi non perdonerò mai l’incapacità di vedere l’utilità di luoghi del genere, che ormai sono bollati solo come luoghi di delinquenza.

Un altro luogo con cui mantieni un forte legame qui a Roma è il Goa e tutta la sua famiglia, a partire da Giancarlino.

Con Giancarlo c’è un grande rapporto di fiducia: lo conosco da tantissimi anni e con lui c’è sempre stata stima reciproca e, più di altra cosa, una passione condivisa per la musica. Lui sa che persona sono io e io so chi è lui: so che quando mi invita cerca sempre di offrire le migliori condizioni, so che trovo sempre un pubblico di persone entusiaste che vengono a ballare e che riescono a creare qualcosa di speciale. Grazie a lui ho fatto serate memorabili. Diciamo che il Goa e Giancarlo sono una delle poche cose che ancora mi legano al mondo notturno di Roma, perché ormai sono una decina di anni che Roma di notte non la vivo più: parto quasi tutti i fine settimana per andare a suonare all’estero, quindi è difficile che esca durante la settimana per vedere un posto nuovo o una nuova serata. Mi piacerebbe, ma non ho davvero le energie! Per cui il mio rapporto con la Roma di notte rimane Giancarlo, il Goa e i suoi dintorni, come l’Hotel Butterfly.

Nelle ultime settimane c'è stata qui a Roma una data che mi ha molto incuriosito e ti ha visto protagonista al Klang.

Sì, ho portato lì un live di improvvisazione assieme a Stefano Di Trapani, che dopo quella performance è diventata una delle persone che ora stimo di più! Abbiamo fatto un concerto bellissimo, folle, di cui tutti sono stati entusiasti. È stata un cosa di cui avevo tremendamente bisogno perché sì, il lavoro è importante, ma lo è anche l’energia. Chi fa musica lo fa per questo: per aderire a dei focolai. Devo dire che girando in luoghi come il Klang o il Fanfulla ho rivisto le facce interessate che vedevo al Brancaleone ormai 20 anni fa. Sono piccoli fuochi, ma, ecco, la cosa bella di Roma è ci sono sempre, anche se piccoli, ed è fondamentale trovare il modo di arrivare a queste realtà. Fare serate all’estero mi gratifica e mi piace, ma la città, il contesto in cui vivi, è assolutamente importante.

Cosa succederà nel tuo futuro, trasformerai questo nuovo album in un live?

No. Avrebbe forse senso riuscire a ricostruire tutta l’installazione, anche se i suoni, gli altoparlanti, tutto era pensato in base alla configurazione del Ponte. Su un impianto multidimensionale come il 4D qualunque installazione sonora potrebbe rivivere, anche se adattata. Ma i suoni scelti avevano senso per quella situazione specifica, non ci vedrei una logica nel riproporre quell’esperienza. Potrei giusto rifare tutto sul Ponte stesso, ma non altrove.

Se dovessi immaginare un'installazione non solo per il Ponte della Musica, ma per tutta Roma, cosa faresti?

Riempirei la città di speaker, nei posti più nascosti e strani. Andrei a registrare le chiacchiere da bar, metterei in risalto il carattere dei romani e metterei in risalto la specificità del quartiere in cui ci si trova, anche in modo un po’ provocatorio. Ai Parioli sentiresti certe cose, a Testaccio delle altre e a San Lorenzo altre ancora. Registrerei le musiche dei cantanti di strada, dei vecchi stornelli e cercherei di amplificarle in qualche modo. Perché i romani stessi sono musica.