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Come si fotografano i confini invisibili?

Lavinia Parlamenti e Manfredi Pantanella raccontano il loro libro The Lines We Draw: una riflessione sul concetto di identità attraverso Paesi non riconosciuti

Written by Giulio Pecci il 13 March 2025

Lavinia Parlamenti e Manfredi Pantanella - Italy, Rome, February 2018 Selfportrait

“The Lines We Draw”, è un vero e proprio “miracolo”. La definizione è della stessa Lavinia Parlamenti, autrice insieme a Manfredi Pantanella di questo lavoro interamente autoprodotto. Un miracolo sia per la modalità di pubblicazione, l’autoproduzione appunto, sia per la genesi durata anni e la quantità di punti di vista che riesce a racchiudere, senza sacrificarli a facili semplificazioni. Un libro fotografico e di ricerca, in cui immagini e testi convivono in modo creativo, quasi simbiotico.

I due fotografi, entrambi romani di origine, hanno viaggiato in luoghi reali ma che ufficialmente non esistono. Paesi che non lo sono, non riconosciuti. Cinque luoghi: la Repubblica Moldava di Pridnestrovia (PMR, comunemente nota in Occidente come Transnistria), la Repubblica di Catalogna, la Repubblica di Artsakh, la Repubblica Turca di Cipro del Nord (TRNC) e la Repubblica Democratica Araba Saharawi (RASD).

Un modo per riflettere sul concetto di autodeterminazione e nazionalità in un momento storico in cui i confini di ogni tipo (genetici, linguistici, culturali, economici, fiscali, di genere) sono un tema caldissimo. Soprattutto perché quella permeabilità cui ci si era abituati, per lo meno in Europa, è messa in fortissima crisi da nuove ondate di nazionalismi, guerre, fenomeni climatici estremi.

Nel libro, progettato da Ania Nalecka-Milach, i diversi contesti geografici e i loro atti di creazione dell’identità non sono tenuti separati, ma messi in dialogo tra loro nel tentativo di raccontare una storia che vada oltre l’esperienza individuale dei diversi territori. “The Lines We Draw” rompe così i confini imposti dalle autorità (ufficiali e non ufficiali) per proporne altri, discutere il ruolo effimero e ambiguo dei codici stabiliti e delle identità che sopravvivono e si esprimono al di là di essi. Sabato 10 Maggio Lavinia e Manfredi saranno a Roma da Libreria Spazio Sette per presentare il libro.

Inizierei chiedendovi dei vostri percorsi personali e di quello artistico condiviso.

Lavinia Parlamenti: Ci siamo incontrati a Il Cairo nel 2011. Io avevo appena terminato un corso di fotogiornalismo a Roma e mi era sembrato ovvio e interessante andare a vedere di persona quanto di eccezionale stava succedendo dall’altro lato del nostro mare. Le chiamavano “Primavere Arabe”, io ci sono arrivata in autunno, a ottobre, per la precisione il giorno del mio trentesimo compleanno. È stata la prima esperienza come fotografa di documentario e sicuramente una chiave di volta della mia vita di individuo. Ho avuto la fortuna di partecipare agli esordi e ai primi sviluppi di un’enorme rivoluzione popolare, e di farlo con tutta l’energia di chi ci crede, in mezzo a un popolo che in quel momento specifico stava effettivamente cambiando la propria storia. Manfredi l’ho incontrato in un ristorante, o forse in un chiosco di succhi di frutta fresca intorno a Tahrir, non me lo ricordo più. Siamo diventati subito amici, credo soprattutto per la condivisione di un senso dell’umorismo molto simile, anche nelle situazioni di tensione.

 Manfredi Pantanella: Io venivo direttamente da Parigi, dove avevo seguito gli studi in fotografia ed ero stato assistente di un fotografo documentarista per due anni. Ero arrivato in Egitto con un progetto ben preciso in mente che ho poi dovuto cambiare in corsa, proprio a causa dell’inizio delle proteste a Piazza Tahrir. Da lì per me è iniziato il percorso nel fotogiornalismo, che ho portato avanti negli anni seguenti legandomi molto all’aspetto popolare delle rivolte, per poi dedicarmi a dei progetti più personali e lasciare mano a mano il puro reportage. Nella primavera del 2012 con Lavinia siamo partiti per l’isola di Cipro, che ci era sembrato un luogo dalla posizione e dalla storia insolita e da andare a conoscere di persona: da lì è iniziata la nostra collaborazione.

Passando a "The Lines We Draw": quando e come è nata l'idea del libro?

LP & MP: Abbiamo realizzato assieme tre progetti fotografici, che consideriamo come una sorta di trilogia spontanea. Il primo,“Roundabout#Cyprus”, è un road trip surreale a spasso per Cipro, terza isola per grandezza del Mediterraneo. Dal 1974 è vittima di un complesso “imbroglio” geopolitico per cui la parte sud, di lingua greca, fa parte della comunità europea, mentre la parte nord è riconosciuta unicamente dalla Turchia. Nella parte turcocipriota di Nicosia, capitale divisa in due parti come l’isola stessa, ci siamo imbattuti nella realtà di Conifa (CONfederation of Independent Football Associations). Conifa organizza campionati di calcio annuali che permettono a squadre appartenenti a territori non riconosciuti, popoli, diaspore, entità regionali e isole di giocare un campionato internazionale alternativo a quello della Fifa. Ci siamo proposti di andare a seguire la prima edizione della loro coppa del mondo che si è svolta a Östersund, nel nord della Svezia, a giugno del 2014. Abbiamo conosciuto gli organizzatori e siamo presto diventati i loro fotografi “ufficiali”: i fotografi ufficiali della coppa ufficiale dei paesi non ufficiali. Abbiamo seguito il campionato per quattro volte ed è nato il nostro secondo lavoro collettivo,“I Kick, Therefore I Am”. Questa serie di matrice sportiva ci ha spinti a volerne sapere di più sui luoghi dai quali provenivano i giocatori, alcuni dei quali erano nel frattempo diventati nostri amici. Dove possibile, Conifa ci ha aiutati a prendere contatto con i governi locali e così è cominciata l’epopea di questo libro, che ha visto la luce dopo sette anni.

Mi parlate di questa gestazione così lunga?

LP & MP: La prima fotografia che abbiamo scattato volontariamente per questo progetto è del 2017. L’ultima, che non è nel libro, a marzo del 2020. E poi c’è stato il libro in sé, che ci ha preso due anni. Ci abbiamo messo tutto questo tempo principalmente perché il lavoro è interamente autoprodotto, il che significa che ogni suo piccolo tassello è stato ideato e posizionato da noi. Le ricerca da remoto, gli spostamenti (non facili) le liste di elementi legati all’identità su cui abbiamo basato le nostre fotografie e la logistica generale, sono frutto di una ricerca spasmodica ed incrociata. Fortunatamente venivamo entrambi dal fotogiornalismo e questa era una ricerca che già ci affascinava. Per esempio, non ci possiamo scordare l’arrivo nel Nagorno Karabakh – o Repubblica dell’Artsakh – enclave armena riconquistata dall’Azerbaijan nel 2024. Dopo un volo da Roma a Yerevan, passammo otto ore di bus tra laghi e burroni in una natura pressoché incontaminata per raggiungere la capitale Step’anakert, l’odierna Khankendi. Oppure quando, tentando di raggiungere la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi e i campi dove il popolo Sahrawi vive, nel deserto algerino, un convoglio armato del Fronte Polisario ci caricò su un pick-up per scortarci fino a Tindouf. Otto ore di viaggio nel buio del Sahara. Oltretutto, tra un viaggio e l’altro dovevamo lavorare per sostenerci economicamente, fare altri lavori, ma anche partecipare a premi per ottenere finanziamenti che non sono mai arrivati, provare a vendere pezzi del lavoro ai magazine in un mercato sempre più in crisi. Tutto questo senza contare il tempo che ci è voluto per capire in quale modo selezionare le fotografie e metterle insieme, in modo di creare una storia che ci rispecchiasse, che rispettasse gli abitanti e fosse comprensibile per un pubblico esterno. Con la pandemia abbiamo capito che il momento era arrivato: abbiamo deciso di ridimensionare il progetto, riducendo a cinque i Paesi fotografati, mentre inizialmente dovevano essere dieci. Malgrado la difficoltà, possiamo dire che dopo tutti questi anni siamo contenti della nostra creatura.

Tra i territori che avete attraversato, qual è quello che vi ha regalato l'aneddoto più assurdo?

MP: L’Artsakh. Un giorno, con lo spirito di chi parte per una scampagnata, abbiamo deciso di puntare verso il sud del Paese, la regione di Hadrut, al confine con l’Iran. In un momento di disattenzione scattammo una fotografia d’un inutile cartello avvolto dalla vegetazione e ripartimmo. Ricordo che guidava Lavinia e io ero al suo fianco, era una strada lunga e dritta che portava nel nulla. Man mano che avanzavamo, ho iniziato ad intravedere un qualcosa in fondo alla strada, deformata dall’asfalto incandescente, un po’ come quello d’agosto a Roma. Ho distinto troppo tardi la sagoma di una vecchia auto anni Ottanta, con di fianco un militare di piccola statura che indossava un largo cappello e un’uniforme di almeno due taglie più grandi. In pochi minuti ci siamo trovati dentro alla base militare a pochi chilometri da lì, presi in custodia da un esercito che “non esiste”. La situazione era poco rassicurante. Nell’attesa di coloro che secondo noi erano i servizi segreti, ricordo che passammo il tempo con i militari, che ci presero in custodia passeggiando negli orti della base, tentando di spiegare come potare i pomodori – quando ci ripenso sembra inverosimile anche a me. In un momento di disattenzione generale ero riuscito a mandare un messaggio con la nostra posizione alla mia compagna e a un caro amico che lavorava nell’unità di crisi della Farnesina. In qualche ora, dopo aver allarmato tutti, aver parlato con questi presunti servizi segreti e aver ricevuto una strigliata dal Ministero degli Affari Esteri, ce ne andammo con un abbraccio ed una bottiglia di brandy a forma di asino regalataci dalla caserma.

Siete entrambi di Roma: c'è qualcosa della Capitale nel libro? Se sì, cosa e in che modo?

LP: Trovo che il rapporto fra me e Manfredi sia in parte determinato da alcuni aspetti della romanità. L’ironia disperata, cinica ma partecipata, con la quale spontaneamente scegliamo di affrontare temi complessi e paradossali, mi fa pensare tante volte ai film di Luigi Magni, al lavoro di Corrado Guzzanti, o in tempi più recenti a quello di Zerocalcare, anche se lui è più romantico…

MP: Roma è una realtà complessa e non omogenea. Per comprenderla è fondamentale un approccio che unisca sia la lettura globale che quella individuale. I suoi quartieri, così diversi tra loro, sembrano scollegati, ma in realtà possono essere visti come micro-villaggi, ognuno con una propria identità. Allo stesso modo il libro offre una lettura generale sul tema dell’identità, mischiando le immagini provenienti dai cinque territori; ma si arricchisce attraverso la possibilità di isolare le singole situazioni grazie all’uso di carte diverse, con texture e grammature differenti, che conferiscono una sottile ma necessaria unicità a ogni singolo luogo. Lo stesso metodo può essere usato per comprendere meglio Roma, per evidenziare la varietà di una città che emerge con forza grazie alle sue realtà differenti.

Lavinia, tu ora vivi a Marsiglia. Pensi che cambiare città abbia cambiato il tuo approccio al libro?

LP: Sono romana dappertutto, dalla voce ai documenti. Come spirito però sono di Marsiglia, dove sono voluta andare per la prima volta a ventitré anni, da sola, appena uscita dall’università. Avevo scoperto una corrispondenza tra i miei nonni materni, lei italiana e lui algerino, lettere scritte mentre lui era al fronte della guerra di indipendenza, tra il 1954 e il 1962. Erano in francese, non le sapevo leggere. Tra i fogli sparsi era apparsa la cartolina di un hotel che si trovava al “Panier”, un ex quartiere popolare – oggi molto turistico – che costeggia il vecchio porto di Marsiglia. In maniera romantica posso dire che il desiderio di conoscere la storia dei miei nonni mi ha fatto incontrare un grande pezzo della mia. Questa città è un amore che non è passato più, ci sono tornata ogni anno fino a quando sono finalmente riuscita a venirci ad abitare. Nel mio approccio a “The Lines We Draw” c’è Marsiglia almeno quanto ci sono io, ma questo non è legato al mio ultimo trasferimento, che è avvenuto solo nel 2022.

Così come di Roma, ci sono delle peculiarità di Marsiglia nel libro?

LP: Secondo me tantissime. Mentre scoprivamo la realtà dei paesi non riconosciuti, mi è venuta spesso in mente Marsiglia, che è stata storicamente una realtà indipendentista, di frontiera e di passaggio, a lungo bistrattata dal potere centrale e a esso riluttante. L’identità marsigliese è forte e unica come quella dei territori che abbiamo fotografato e, allo stesso modo, è fiorita nella noncuranza del potere centrale, almeno fino all’avvento del turismo di massa. Qui è iniziato quando è stata dichiarata capitale della cultura nel 2013 ed è esploso definitivamente con la pandemia, quando i francesi, come anche gli italiani, hanno scoperto le proprie regioni. A pochi metri da dove abito c’è una via dedicata a Clovis Hugues, uno scrittore e giornalista che il 23 Marzo 1871 partecipò appena diciannovenne alla proclamazione della Repubblica Sociale e alla fondazione della Comune di Marsiglia al fianco dell’avvocato Gaston Cremieux. La Comune di Marsiglia durò quattordici giorni, ma testimonia lo spirito autonomo di questa città, che durante il sacro romano impero era già stata contea indipendente e che, alla fine della Rivoluzione Francese, era stata bollata come “città senza nome” per essersi rivoltata alla Convention Nationale. Per secoli la città più povera di Francia, fino a dieci-quindici anni fa economicamente emarginata e considerata inaccessibile e pericolosa dai francesi, al contempo punto di approdo per tutti gli altri. Questo sentirsi dimenticati dal potere centrale ha forgiato lo spirito della città e dei suoi abitanti, fieri di un’identità locale che si è costruita proprio nell’oblio di quei potenti e al di là delle linee che hanno disegnato. Personalmente ho sempre pensato a questa città come a un’isola che non c’è, sia rispetto al resto della Francia che rispetto alle norme sociali canoniche, ad alcune delle “Lines We Draw”, appunto. I suoi abitanti la chiamano “la planète Mars” proprio come se fosse un mondo a parte. Alcune dinamiche improbabili sembrano trovare posto solo qui. Al di là del paesaggio di rocce bianche da cartolina che attrae un turismo divenuto arrogante, a Marsiglia vige una dimensione abbastanza illogica del quotidiano, che evade le regole e invade ogni tuo passo. O se ne condivide la dinamica – a volte entusiasmante nella sua giustezza, a volte faticosa perché selvatica e violenta – o si fugge a gambe levate.

La scelta di pubblicare in inglese un libro del genere deve essere stata complicata, me ne parlate un secondo?

MP: Ci sarebbe piaciuto tradurre tutti i testi nelle lingue dei territori fotografati, ma avrebbe richiesto un lavoro enorme portandoci poi a un volume ancora più massiccio. Con il senno di poi, io avrei voluto almeno inserire i testi in italiano, perché fa parte della nostra identità.

LP: Anche per me è stato difficile decidere di non tradurre tutto in sei lingue. Ma, come ha detto Manfredi sarebbe diventato un volume enorme e il lavoro di traduzione ci sarebbe costato troppo, quindi ci siamo tristemente dovuti piegare alla lingua più diffusa tra l’ipotetico pubblico di questo libro. È un peccato, perché, a parte Cipro che era protettorato britannico, l’Artsakh dove almeno i ragazzi sono praticamente tutti trilingue (armeno/russo/ inglese) e la Catalogna dove la situazione è come in Italia, in Sahara e in Transnistria l’inglese non si parla affatto. Come gesto simbolico di minima restituzione abbiamo voluto tradurre il titolo nelle lingue di tutti e cinque i territori. Per fortuna le immagini sono accessibili a tutti.

Avete iniziato a lavorare nel 2017 per pubblicare nel 2024. Com'è cambiato il mercato della fotografia nel frattempo?

MP: Con il declino dell’informazione della carta stampata e una desensibilizzazione all’immagine fissa anche a causa dei social, negli ultimi anni il mercato della fotografia documentaria ha subito un gigantesco cambiamento. Oggi più di prima si dà quasi per scontato che un progetto fotografico debba poi diventare un libro. Forse questo proprio per ovviare alla carenza dei magazine o forse per lasciare un documento più tangibile in un’epoca dove tutto è effimero e virtuale. Penso che questo sia, almeno in parte, anche il nostro caso.

LP: Purtroppo il mercato della fotografia autoriale nel 2025 si è ridotto quasi del tutto al prodotto. Gli unici settori vagamente ancora in piedi sono ovviamente moda, pubblicità e corporate. Dal 2017 a oggi noi fotografi di documentario e informazione abbiamo smesso gradualmente di ricevere comande, prima dai giornali e poi dagli organizzatori di eventi. Fotogiornalisti e documentaristi anche più affermati di me non lavorano più e si stanno riconvertendo su mestieri di qualunque tipo, dal barista all’agente immobiliare. Questo stravolgimento nelle possibilità della professione favorisce inevitabilmente l’omologazione delle opinioni perché, come scrivevi proprio tu su un articolo qui su Zero, la produzione culturale sta diventando possibile solo a chi proviene dai ceti sociali medio-alti e può permettersi di lavorare gratis. Lo stato della nostra professione oggi è altamente critico perché non c’è alcuna tutela e la questione è enormemente sottovalutata. Non si tratta solamente di lavoro che viene a mancare improvvisamente per persone che si sono formate e lavorano magari da dieci-quindici anni, ma di assassinio dei punti di vista creativi necessari. Il discorso lo conosciamo: lo Stato non investe nella cultura, non ci sono finanziamenti pubblici a sostegno di alcun tipo di ricerca. Il documentario visivo è ricerca e quindi non fa eccezione. Nel frattempo il mondo dell’informazione è stato stravolto dai social network con i loro ritmi folli di scroll, che non valgono più i 500-1.000 euro dati a un reporter. Non mi avventuro in discorsi sull’intelligenza artificiale perché un’opinione interessante e lucida ancora non ce l’ho. Dati spicci, i giornali che fino a prima della pandemia pagavano un reportage 1.500-2.000 euro, non hanno più budget e – se pagano – danno cifre che non coprono neanche le spese di realizzazione. In Francia è vagamente meglio, ma ci sono stati tagli rilevanti anche lì, se ne prevedono altri e le proteste sono già pronte. Questo libro di ricerca esce in questo contesto. Insomma, è un panda.

Come siete cambiati invece voi? Com'è stato continuare a lavorare a un progetto per così tanto tempo, anche attraverso i vostri cambiamenti personali?

LP: A volte dico che questo libro è un miracolo. Un desiderio comune, in parte illogico e azzardato, ha spinto due persone diverse sotto molti aspetti e unite dalla passione per la fotografia a portare a termine un lavoro fatto di idee e di azioni così profonde. Mentre realizzavamo il progetto e poi il libro. abbiamo cambiato assetti familiari, Paesi di residenza, animali domestici. C’è stata la pandemia, io ho perso entrambi i miei genitori e ho svolto altri lavori di vario genere. Siamo diventati adulti nel modo che abbiamo preferito, tra un’avventura e l’altra, in mezzo a varie difficoltà personali ed epocali. Non abbiamo mollato, e il libro è uscito. Autoprodotto e autofinanziato. Indipendente come i territori di cui parla. Per me anche questa è una storia rara.

MP:
I cambiamenti causati dal tempo e dalla pandemia mi hanno portato a una svolta personale. Appena tornati dal Western Sahara, anche a causa delle restrizioni che esistevano in città, ho deciso di spostarmi tra i boschi della Tuscia vivendo in contatto con cosa più mi attrae, la libertà. Questa scelta mi aiutato a capire che il mio desiderio era più guardare al passato piuttosto che al futuro, come se avessi voluto tornare in un mondo dove molte cose erano senza nome e per menzionarle bisognava indicarle con un dito. Imparare a interagire con l’elemento naturale mi ha dato anche un ritmo personale più adatto a me e la comprensione delle mie priorità e delle mie necessità. Da qui anche il riferimento al caos: mi sono reso conto che ogni cosa può essere interpretata nell’ordine della propria indole; una sorta di anarchia intellettuale. Dal punto di vista professionale ho compreso che la realizzazione di questo progetto è la dimostrazione di come un mestiere individualista come la fotografia possa invece essere approcciato da un duo, simile ma differente. Spesso chi vede il lavoro viene colpito dalla sua omogeneità, sia del linguaggio che delle immagini.

Nel trittico di domande sul cambiamento, ci metto anche quella sul mondo in generale: il vostro è un libro politico per definizione. Un libro che parla di identità, nazionali e non, e confini: nel 2017 toccava già nervi scoperti, nel 2025 sembra parlare direttamente a un mondo sempre più chiuso. Che feedback avete avuto in questo senso da parte di chi lo ha sfogliato e letto, che riflessioni avete fatto voi stessi?

LP & MP: Stiamo ricevendo risposte che non smettono di farci pensare. Recentemente ci è stato detto dal direttore di un grande festival che il lavoro era molto interessante, ma lontano dalla loro tematica di quest’anno: “la stregoneria”. Quella del prossimo anno sarà “l’amore”. Non possiamo nascondere che la notizia ci ha mandato in tilt il cervello per molti minuti, con tutto il rispetto per entrambi gli argomenti, adorabili, ma non necessari in questo momento. L’impressione è che molte realtà culturali a finanziamento pubblico evitino volontariamente di parlare di alcuni temi. Quando l’argomento invece è preso in considerazione, come è stato lo scorso anno per il Fotofestiwal di Lodz, in Polonia, ci siamo resi conto che il lavoro era percepito in modo estremamente diverso a seconda del punto di vista personale e anche geografico di chi lo leggeva. Il nostro compito quindi era di effettuare degli aggiustamenti in modo da poterlo rendere meno fraintendibile. Analizzando di nuovo il nostro risultato abbiamo deciso, confrontandoci anche con la nostra designer Ania Nalecka-Milach, che abbiamo incontrato personalmente per la prima volta proprio a li Lodz, di pubblicare il libro con un altro titolo. E cosi che “An Atlas of Countries that Don’t Exist” è diventato “The Lines We Draw”. Nell’introduzione raccontiamo anche in dettaglio le motivazioni precise di questa variazione.

C'è una frase bellissima nell'introduzione: "In questo libro il disordine non è un errore ma una scelta precisa". Pensate che il modo migliore di raccontare il caos in cui siamo immersi, la sua moltitudine di complessità, sia quello di un caos "controllato", orchestrato da fotografi, artisti, musicisti?

LP: Quando ero adolescente mia madre diceva che nella mia stanza vigeva “l’estetica dell’inverso”. Nell’armadio c’erano i libri e una vecchia Tv rotta mi faceva da comodino. A un certo punto mi si era rotto il motorino, un SH50 di quelli bellissimi di plastica, e me l’ero portato su in mezzo alla stanza per farci una panca. Lei mi lasciava fare tutto e si incuriosiva. Alla fine la mia era solo un’altra interpretazione, davo un ordine al mio stare al mondo in quella maniera lì. Il disordine non mi ha mai preoccupata, sono cresciuta in una famiglia altamente disfunzionale e ho imparato a viverci insieme con amore e rispetto per quelle “follie” che non potevo evitare. Riuscire a trovare una logica all’interno del flusso scomposto (o a volte accettare di non trovarla affatto) mi ha favorita nella navigazione delle difficoltà personali e di quest’epoca. Oltretutto, la semplificazione mi sembra ipocrita e non mi soddisfa praticamente mai. Come poterla applicare a un tema così complesso come quello di questo libro? Piuttosto abbiamo preferito lavorare a strati e non aver paura di chiedere concentrazione, modalità di cui abbiamo estremo bisogno oggi e che dobbiamo recuperare. La sfida piuttosto è trovare maniere stimolanti, ma non incomprensibili, per trasferire nelle mie fotografie questa non-paura del caos.

Manfredi: Il caos è sempre stato un elemento centrale della mia vita, spesso in contrasto con ciò che mi veniva detto da chi mi circondava. “Chi nasce sotto il segno della Vergine è ordinato e metodico”, mi dicevano. A volte mi sono davvero chiesto se la mia data di nascita fosse corretta. Il termine “caos” è comunemente associato a disordine e confusione, ma il suo significato originario in greco non ha a che fare con nessuna delle due. In realtà, il termine “chaos” indicava uno spazio, una fessura, una spaccatura o una voragine. Piuttosto che una condizione di disordine, potrebbe essere visto come un varco, come l’atto di aprire la bocca per esprimere un pensiero, allontanandosi da comportamenti prevedibili e strutturati. In sostanza, il caos non è altro che uno spazio aperto, una sorta di apertura, una possibilità infinita. Forse tu menzioni fotografi, artisti, musicisti perché inevitabilmente per creare bisogna essere più liberi, più aperti.

Per spiegare meglio questo approccio al "caos controllato", citerei il fatto che il libro si ispira a “Rayuela” di Cortazar nel comporre una struttura sincronica e diacronica allo stesso tempo. Si può sfogliare dall'inizio alla fine o seguire delle indicazioni precise che seguono narrazioni interne, saltando pagine. Quanto è stato emozionante leggere Cortazar e capire che poteva avere un'applicazione a quello che stavate facendo?

LP: “Rayuela” è un libro illuminato e complicatissimo. È un capolavoro che ti puoi permettere di non terminare, perché tanto la sua essenza ti rimane lo stesso. I dialoghi tra i personaggi sembrano provenire dall’iperuranio delle menti alterate. La storia d’amore tra Horacio e La Maga è quella che avrei desiderato sempre anche io. Ho visto un’intervista a Cortazar alla fine della stesura di quel libro e diceva che non dormiva da mesi, mi ha fatto enormemente ridere pensando a Manfredi e me che probabilmente avevamo smesso di parlarci da giorni. In realtà chi ha avuto l’intuizione di replicare la struttura di “Rayuela” sul nostro libro è stata la nostra designer, Ania. Cercavamo una maniera per mettere in conversazione le immagini dei diversi Paesi senza sacrificare la narrazione delle loro storie individuali. Non ci interessava raccontare i Paesi separatamente uno per volta perché quello era stato solo il nostro punto di partenza. Volevamo metterli allo specchio per provocare i lettori fino al punto di chiedersi: “Ha veramente senso nel 2025, tra cultura di internet, fughe di cervelli, nomadismo digitale, weekend low cost e doppie/triple nazionalità figlie di guerre e di progetti Erasmus, considerarsi appartenenti a un Paese solo?”. Allo stesso tempo, però, avvertivamo la necessità di dare la possibilità di rintracciare le singole storie dei territori e dei loro abitanti. Ania ha nominato “Rayuela” e si è accesa la lampadina.

Mi aggancio a quest'ultima domanda per chiedervi se oltre a lui ci sono state delle ispirazioni particolari che vi hanno un po' fatto da lumicino in questo percorso: fotografi, artisti, musicisti, scrittori?

LP: Prima di iniziare a scattare siamo andati a incontrare il professor Nick Middleton, geografo autore di un libro di testo e grafica dal titolo “An Atlas of Countries That Don’t Exist”, che ci ha ispirati nella scrittura del nostro progetto. Mentre iniziavamo a lavorare al libro invece abbiamo avuto l’intuizione fortunata di voler mostrare il progetto a Max Pinckers, un fotografo che amiamo molto e che – tra le varie cose – è uno dei fondatori della scuola del documentario speculativo, di cui vi invitiamo a leggere l’interessante manifesto che si trova online. Proprio lui ci ha consigliato di leggere i testi di Ariella Azoulay, autrice in particolare de “Il contratto sociale della fotografia”. In questo libro la scrittrice individua nell’atto fotografico la nascita di uno spazio altro; un luogo di relazione che è propria solo all’incontro fotografico tra un autore e il soggetto ripreso, entrambi collaboratori delle realtà che vediamo rappresentate. Attraverso i testi di Azoulay siamo arrivati anche a trovare il titolo finale del nostro libro. Il “noi” de “Le linee che disegniamo”, si riferisce tanto a noi esseri umani/autorità quanto a noi autori/fotografi, che scomponiamo i codici e le frontiere ufficiali e ufficiose per riproporne altre che appartengono all’esperienza del nostro incontro con questi luoghi.

Qualche domanda sulle foto: qual è stata quella più difficile da scattare?

MP: Qui mi viene in mente un vecchio photo editor del New York Times che, durante un incontro, ci disse che le migliori fotografie erano quelle non fatte, le “non-photos”. In realtà molte fotografie sono state difficili non tanto per una questione tecnica, ma perché tutte le immagini sono frutto di una ricerca specifica ed hanno un ragionamento dietro, essendo tutte legate a doppio filo con il tema delle identità. La difficoltà erano nell’ottenere i permessi o il benestare dei soggetti rappresentati, ma, una volta scattate le immagini, tutta quella fatica scivolava via. Tornando dunque alle “non-photos”, forse quella più difficile è quella che non abbiamo mai scattato e ce n’è una che ricordo di aver assiduamente desiderato e mai avuto: la foto di un pastore con un agnello in braccio.

Quale invece quella che vi ha costretto a più riflessioni sull'opportunità o meno di inserirla nel libro?

LP  & MP: Pensiamo ad un’immagine che sarebbe divenuta un corollario al libro, una cartolina che sul finale avremmo voluto inserire al suo interno. Si tratta di una fotografia di Varosha oggi. Avevamo già fotografato questa città nel 2017, si tratta ancora una volta della fotografia dello specchio tondo con il riflesso dei palazzi. Varosha (in turco Maraš), era una famosa località turistica di Cipro del Nord vicino Famagosta. A seguito della divisione dell’isola è stata occupata dall’esercito turco che ha costretto la popolazione a trasferirsi altrove e l’ha trasformata in una città fantasma protetta da lamiere e filo spinato e sorvegliata giorno e notte dai militari. Un luogo inaccessibile e infotografabile per quarantacinque anni, dal 1974 al 2021. Per questo nel 2017 l’abbiamo fotografata attraverso quello specchio, per non farci vedere dai militari. Dopo la pandemia i governi di Ankara e Nicosia Nord hanno deciso di riaprirne un settore, trasformandola in un’attrazione turistica, e noi l’abbiamo visitata poco prima di stampare il libro. La foto-cartolina avrebbe mostrato la situazione oggi e restituito quell’effetto di grottesco stupore che avevamo provato noi di fronte a quella disneyland della storia recente. Alla fine pero abbiamo deciso di non inserirla, perchè il libro era già sufficientemente complesso per come era e sarebbe stato un livello di racconto in più che non abbiamo ritenuto così necessario.

Quale quella che vi emoziona di più e infine quella che speriate non passi inosservata?

MP: Tutte hanno un rapporto profondo con il mio io, sono momenti fortemente legati ai miei ricordi, anche perché la mia memoria non è delle migliori e queste mi aiutano nel ricostruire. Un’immagine che mi fa spesso riflettere e quella dove è stato fotografato il Gingalov Hat, un pane ripieno di erbe selvatiche tipico della Repubblica dell’Artsakh, con sullo sfondo una panettiera che indossa una maglietta con stampato un volto di donna che indossa degli occhiali da sole. Negli occhiali è riflessa della sabbia, ma sembra che sia riflesso il Gingalov Hat. Per me rappresenta una delle anime del lavoro, cioè come alcune cose passino inosservate semplicemente perché ci sembrano troppo surreali per essere vere. Anche se non si tratta di un’immagine, la cosa che spero non passi inosservata o ancor meno che sembri un errore, è il fatto che alcune immagini e alcuni testi siano tagliati a metà. Non si tratta di un errore, ma di una dimostrazione visiva di come una linea, e in alcuni casi un confine, possa essere violento e tagliente facendoci perdere la visuale globale delle cose.

LP: Una foto veramente preferita forse non ce l’ho; sono però molto legata all’ultimo testo scritto da noi, dove parlando di fotografia (che in greco è la scrittura di luce) e di creature-identità nascenti, confermiamo il valore semantico dell’espressione “venire alla luce”, a prescindere da quale essa sia.

Siete partiti dal concetto di identità. Come è cambiato nella stesura del libro, nell'incontro con questi non-luoghi?

MP: Più che un vero cambiamento, sento che il mio concetto di identità si è affinato. Scoprendo realtà diverse, ho avuto modo di conoscere anche sfaccettature che per me erano nuove. Questa opportunità mi ha permesso di vedere con maggiore chiarezza ciò che altrove è ancora vivo e radicato, mentre qui sembra essersi dissolto o più che altro trasformato. Sentimenti come il senso di appartenenza collettiva, il legame con le tradizioni o una concezione più sfaccettata dell’individualità, che in queste culture sono più marcate rispetto alla società occidentale contemporanea, spesso più omologante.

LP: Considerando alcuni aspetti comuni che avevo rintracciato in questi luoghi diversi e lontani tra loro, a un certo punto mi si è aperta una prospettiva immaginaria di tipo utopistico. Complice anche l’esperienza collettiva della pandemia, ho avuto l’impressione che da un punto di vista particolarmente ottimista certi aspetti dell’azione e del dibattito sociale che da noi procedono in maniera arrugginita fossero invece pratica già comune nella maggior parte di questi luoghi. Mi riferisco ad alcuni tratti come il plurilinguismo, l’accoglienza degli stranieri o l’inclusione delle donne nella vita sociale e governativa. Come se il perseguimento della causa comune lasciasse minor spazio ad alcuni dibattiti che da noi fanno fatica a risolversi. In Catalunya, in Artsakh, in Sahara occidentale, ma anche in altre realtà autonome che non figurano in questo libro, come il Kurdistan, donne e uomini sono entrambi al governo, in battaglia, nella società e non è un grande argomento, ma consuetudine.

Il libro si può comprare contattando direttamente Lavinia e Manfredi su Instagram o via email (lavinia.parlamenti@gmail.com / manfredi.pantanella@gmail.com). A Roma si trova per ora da Leporello e Spazio Sette.