La pandemia da Covid ha ricordato a tutti gli esseri umani del proprio corpo. Lo ha fatto sottolineandone la vulnerabilità, la fragilità e il suo essere un centro di potere, che può essere, ad esempio, incluso, escluso o rinchiuso negli spazi. Corpo e spazio sono le due coordinate lungo le quali si muove LOCALES, piattaforma curatoriale con base a Roma fondata proprio nel 2020 da Sara Alberani e Valerio Del Baglivo (membro fino al 2022), che oggi vede nel suo team anche Marta Federici e Chiara Siravo. Il lavoro di LOCALES è partito dall’urgenza di una riappropriazione e ri-abitazione degli spazi (pubblici, urbani e culturali) di Roma “banditi” dalle restrizione pandemiche, portando avanti anche una parallela rilettura critica e decoloniale degli stessi. Non a caso uno dei luoghi d’intervento principali di LOCALES è stato ed è tutt’ora il quartiere dell’Eur e le collezioni del Museo delle Civiltà, entrambe appartenenti a un passato irrisolto, troppo spesso messo sotto il tappeto. Dallo spazio ai corpi che lo abitano il passo è stato breve, così come è stato naturale l’incontro con Short Theatre attraverso pratiche di performance, workshop, talk e incontro (di corpi). In questa edizione 2024 il sodalizio si è rinnovato e ha generato un doppio appuntamento: “The Community Whistling Choir”, restituzione sonora di un laboratorio condotto dall’artista Aliaskar Abarkas presso la Biblioteca Casanatense di Roma (venerdì 6 e sabato 7 settembre); il workshop e il talk con l’artista Noor Abed e la curatrice Lara Khaldi, ideatrici di School of Intrusions (sabato 14). Ne abbiamo parlato in questa intervista.
Inizierei dall'attualità e dalla collaborazione con Short Theatre di quest'anno, che conferma quella del 2023. Il primo progetto in programma che porta anche la vostra curatela è "The Community Whistling Choir" di Aliaskar Abarkas. Ci potete raccontare questa esperienza, com'è nata e in cosa consisterà la restituzione durante il festival?
Chiara Siravo: Abbiamo iniziato il dialogo con Aliaskar Abarkas poco prima che arrivasse a Roma per far parte del programma di residenza di Castro Projects. Le pratiche artistiche che prendono i processi collaborativi e di apprendimento collettivo come punto di partenza fanno parte della nostra ricerca, soprattutto nel contesto di “If Body”, un progetto che guarda non solo al corpo, ma ai corpi in relazione l’uno con l’altro. Abarkas, tramite la sua indagine sul fischio, lavora proprio su questo: il corpo come nostro strumento comunicativo, con il quale possiamo esprimerci al di là del linguaggio verbale ed emettere dei sentimenti che non necessariamente hanno bisogno di una comprensione consapevole, almeno nell’immediato. Abbiamo visitato vari luoghi dove realizzare il tutto, anche se avevamo pensato sin da subito alla Biblioteca Casanatense per via della sua architettura con effetti acustici interessanti e anche perché in una visita precedente avevamo scoperto dell’esistenza di un fondo di manoscritti arabi e persiani, datati dal XVI secolo in avanti, quasi del tutto dimenticato. Abarkas, che è nato e cresciuto in Iran dove ha studiato sia persiano che arabo, ha osservato che alcuni di questi volumi racchiudono sistemi di numerazione antichi, oltre che incantesimi relativi ai giorni della settimana e alle stagioni. Durante il laboratorio da lui guidato questi materiali sono diventati il punto di partenza per sviluppare delle melodie che sono state poi registrate. In questo modo è stata creata la traccia “By Whom it Was Heard I Don’t Know” che è stata fruita nella forma di installazione sonora il 6 e il 7 settembre nello Studio 1 della Pelanda, come parte della programmazione di Short Theatre 2024. La traccia riporta il pubblico nel contesto del workshop, dove piano piano le voci e il respiro sono stati sostituiti dai fischi dellɜ partecipanti e dai loro riverberi.
Qualche domanda per Aliaskar Abarkas. Quali sono il libri della Biblioteca Casanatense che ti hanno affascinato di più e cosa hai portato di essi all'interno del progetto?
Aliaskar Abarkas: Piuttosto che concentrarmi su fonti specifiche ho tratto ispirazione da varie sezioni di diversi manoscritti che contengono lezioni di geometria, cosmogrammi, scrittura di incantesimi: linguaggi occulti e linguaggi codificati legati a determinate comunità. Questi elementi sono stati combinati con partiture musicali medievali che ho trovato nella biblioteca. Partendo da qui, il primo giorno del laboratorio ho invitato e guidato lɜ partecipanti a tradurre gli incantesimi in esercizi vocali. Attraverso questa operazione abbiamo cercato di attivarli, sperando di rievocare gli spiriti della biblioteca, proprio come gli incantesimi stessi suggerivano. Durante la pratica, con i nostri corpi abbiamo cercato di tradurre gli schemi geometrici degli incantesimi in gesti coreografici. Sulla base di questa suggestione, il secondo giorno di workshop è stato dedicato a esercizi di improvvisazione collettiva. Abbiamo esplorato le nostre frequenze vocali, familiarizzato con le texture acustiche e soniche dello spazio e ricercato dei suoni unici per ognuno di noi attraverso il linguaggio degli incantesimi. L’obiettivo era quello di eliminare qualsiasi residuo di parola o sillaba, trasformandolo nel suono più radicale e astratto, come può essere il fiato di un respiro o il soffio di un fischio. Dopodiché abbiamo visualizzato la nuova composizione, disponendo i nostri corpi nello spazio e concordando insieme ogni elemento sonoro: i simboli per l’acustica, le condizioni atmosferiche, il rumore di fondo, l’improvvisazione, il respiro, i fischietti soliti e via dicendo. Abbiamo stabilito collettivamente il nostro linguaggio musicale immaginario e lo abbiamo tracciato a terra – in seguito io ho lavorato su questa traccia, trasformandola in una grafica digitale per una stampa serigrafica. Insieme abbiamo creato la nostra musica: i nostri incantesimi. Considero quello che abbiamo fatto come una pratica di marginalia, in qualche modo cioè vicina a quelle note e interpretazioni che gli studiosi scrivevano nel passato ai margini dei manoscritti. Mi sono fatto una personale interpretazione di quel margine: una composizione musicale.
Il linguaggio del fischio non prevede parole ma suoni. È possibile partire dal corpo, che tutti noi possediamo, per elaborare un linguaggio universale e inclusivo, che superi divisioni e dominio di una lingua sull'altra?
AA: Mi piace pensare che sia possibile sviluppare un linguaggio universale e inclusivo a partire dal corpo, che è qualcosa che condividiamo tuttɜ. Considero il linguaggio come un fardello: è capace di separarci immediatamente e in tanti modi. Succede non solo quando non parliamo o non capiamo un’altra lingua, ma anche tra accenti diversi, che sono cifre capaci di suggerire provenienze di classe diverse o altre distinzioni sociali. Su un altro piano, il linguaggio è spesso fonte di fraintendimenti o incomprensioni. È per queste ragioni che propongo la possibilità di creare un tipo di linguaggio differente, che ci faccia entrare in connessione su altri livelli. In questo senso, credo che la musica abbia il potere di farlo. Nel mio lavoro, fischiare è sia una storia che un invito. Ci esorta a riunirci e a esplorare le possibilità di creare proprio quel linguaggio altro. Voglio vedere fino a che punto questa idea può essere estesa, quante persone possono radunarsi per fischiare insieme e connettersi, anche solo per un breve momento. I miei workshop sono sempre stati aperti a chiunque. Desidero creare degli spazi per la sperimentazione, dove le persone possano incontrarsi, conoscersi e costruire amicizie a partire da un linguaggio musicale che viene costruito insieme. Il fatto che queste sessioni raccolgano spesso persone con background molto diversi, di diverse generazioni e con esperienze disparate, dimostra che è possibile farlo.
In Italia il fischio ha sia una valenza positiva (spensieratezza) che negativa (richiamo all'ordine, sollecitazione sessuale). In Iran, da dove provieni, che valore e uso ha?
AA: Penso che il significato del fischio anche in Iran dipenda dal contesto. Tendenzialmente è considerato da maleducati e ha delle connotazioni simili a quelle di cui parli, si può pensare che è irrispettoso o inappropriato. Fischiare però è qualcosa che viene spesso associato al soprannaturale. Per esempio, si dice che se fischi dentro una casa ne evochi i fantasmi. Ecco, questo è quello che abbiamo provato a fare alla Biblioteca Casanatense: per me connettersi con i fantasmi non è necessariamente negativo! È una questione di colmare il divario tra coloro che sono vivɜ e coloro che sono mortɜ. D’altro canto, fischiare può essere anche un gesto spensierato. Durante cerimonie come i matrimoni, il fischio può assumere una qualità musicale, simile all’applauso.
Il secondo momento di collaborazione con Short Theatre è la School of Intrusions di Lara Khaldi e Noor Abed, che si sposta sui media audiovisivi. Anche qui vi chiedo di raccontarci il progetto e cosa vi ha portato a sceglierlo per Short Theatre.
Sara Alberani: I nostri percorsi di ricerca e di curatela ci hanno portato a incontrare Noor Abed e Lara Khaldi in diversi contesti e da tempo e c’era la voglia di lavorare insieme. Il nuovo ciclo di “If Body” è stata l’occasione in cui invitare School of Intrusions a Roma, in quanto profondamente legata a una dimensione di esplorazione e del situarsi nei luoghi, con l’intento di generare conoscenza e dialogo a partire dai territori nei quali viviamo. Questo approccio, comune sia a School of Intrusions che a LOCALES, è alla base di un confronto avviato negli scorsi mesi e che si inserisce all’interno dell’attuale contesto politico globale. Come rileggere il rapporto con lo spazio pubblico, con gli archivi, con le istituzioni in momenti storici di oppressione e di censura? Come le tattiche e le conoscenze sviluppate in alcuni contesti, come quello palestinese dal quale School of Intrusions è nato, a Ramallah, rafforzano quelle di altri territori e come possono creare legami di solidarietà verso obiettivi comuni di giustizia e di liberazione? Su queste questioni tentiamo di ragionare attraverso la pratica di Abed e Khaldi nell’introdursi in luoghi sia pubblici che privati per una riflessione sulla messa in comune dei saperi situati. L’evento prende la forma di un laboratorio insieme al gruppo di partecipanti e si concentra sull’uso del mezzo audiovisivo come forma di solidarietà tra diverse geografie, in particolare tra Palestina e Italia, attingendo a filmati d’archivio e all’analisi di documentari come “Ma’loul celebrates its destruction” (1985) di Michel Khleifi e a film selezionati dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD) di Roma. A conclusione del workshop, che si terrà il 14 settembre presso la Pelanda, insieme ad Abed e Khaldi saremo in conversazione all’Angelo Mai, sempre all’interno della programmazione del festival, per un momento di riflessione sulle pratiche di School of Intrusions e di una messa in comune dei risultati del workshop, con l’intento di espandere e disseminare la conoscenza sulla causa palestinese come forma di resistenza al genocidio.
Nel 2023 la collaborazione con Short Theatre aveva visto protagoniste Pauline Curnier Jardin e il collettivo Feel Good Cooperative, che riunisce artiste e sex worker. Un progetto di ampio respiro che poi è arrivato anche al MACRO con una mostra. Ci potete raccontare come siete entrate in contatto con questa realtà e il progetto che avete sviluppato assieme?
Marta Federici : Il progetto è stato l’esito di un dialogo coltivato nel tempo. Pauline è arrivata a Roma per una residenza a Villa Medici tra il 2019 e il 2020, l’anno di inizio della pandemia di Covid-19. Feel Good Cooperative è nata in quello stesso periodo, durante il primo lockdown, grazie a un workshop organizzato da Pauline nel contesto dell’Accademia Francese. Dopo la fine della residenza Pauline ha deciso di rimanere a vivere a Roma ed è così che siamo entrate in contatto. Abbiamo avviato i primi scambi con lei e con il resto del gruppo grazie a una rete di amicizie, frequentazioni di luoghi comuni, interessi condivisi. Feel Good Cooperative lavora sullo spazio pubblico, sui corpi nello spazio pubblico, sulle relazioni affettive e sull’affettività dentro le relazioni lavorative. Sono tutti argomenti centrali anche per noi, ricorrenti nei nostri discorsi. Insomma, era impensabile non collaborare! Abbiamo invitato la Cooperativa a immaginare un intervento all’Eur, che è un quartiere nel quale ci muoviamo con diversi progetti e azioni sin dall’inizio del percorso di LOCALES. L’Eur è una zona complessa e stratificata, che si colloca ai margini della città, fuori dalle aree considerate “centrali”, non solo topograficamente. Come sappiamo, la sua presenza si porta dietro una problematica e sfacciata eredità fascista, nella quale si intrecciano però anche molte altre storie. Ad esempio, l’Eur è anche uno dei luoghi dove alcune delle ragazze di Feel Good Cooperative lavorano, è una zona di sex working. È proprio combinando i diversi riferimenti legati a questo quartiere che è nata la performance “Le Colonne della Colombo”, durante chiacchierate e passeggiate notturne tra quelle architetture spettrali. La Cristoforo Colombo è stata scelta come punto di partenza per un attraversamento urbano che si è svolto in una serie di tappe successive. Ogni tappa, con una propria ambientazione, accoglieva una scena performata da Feel Good Cooperative. È stato un lavoro corale ed emozionante. La notte della performance, a ottobre 2023, sono arrivate più di cento persone che si sono riunite formando un corteo colorato che ha attraversato le piazze, i parcheggi, le strade e i giardini nascosti del quartiere, inseguendo i corpi dorati delle performer. Un mese prima avevamo tenuto un talk di presentazione proprio durante Short Theatre, nel quale abbiamo introdotto il progetto e la Cooperativa ha generosamente raccontato la sua storia. Contestualmente è stato proiettato “Lucciole”, il primo film realizzato da Feel Good. È stato un momento importante, in cui il collettivo ha potuto confrontarsi e conoscere un pubblico in gran parte nuovo, perché il mondo delle arti visive e performative costituiscono ambiti ancora troppo poco comunicanti. Anche per questo la collaborazione e alleanza con Short Theatre per noi è importantissima! Per ibridare spazi disciplinari che a oggi non possono più essere tenuti separati. Dalla performance “Le Colonne della Colombo” è stato poi tratto un lavoro video, presentato in occasione della mostra del collettivo al MACRO a febbraio 2024. Anche questa connessione è stata importantissima per noi, perché ha segnato il passaggio del lavoro dallo spazio pubblico all’istituzione museale. Ecco, direi che quello che cerchiamo di fare con LOCALES è proprio favorire la creazione di questo tipo di reti di diffusione e interconnessione.
Il vostro percorso qui a Roma si intreccia fortemente con i luoghi e alcuni attori della città, dalle accademie ai festival. In che modo cercate di legare la vostra ricerca alla città, alla sua geografia e ai suoi soggetti (istituzionali e meno)?
MF: Una volta un’artista che ho intervistato mi ha descritto Roma come uno strano tipo di metropoli scomposta, una sorta di aggregato di quartieri così diversi tra loro, da ogni punto di vista, che a volte sembra di cambiare città passando da uno all’altro. Penso che avesse ragione e penso che proprio questa diversità disordinata e caotica costituisca l’enorme ricchezza di questo territorio dove abbiamo scelto di lavorare. Una diversità di pubblici, di comunità, di istituzioni, associazioni e così via. Come dicevo anche prima, per noi è essenziale indirizzare il nostro lavoro verso la creazione di una rete di interconnessioni tra realtà e attori diversi, favorire sinergie che generino scambi e dialoghi che possano arricchire la città e poi proliferare anche indipendentemente da noi. Sicuramente alla base delle nostre scelte c’è da subito stato il desiderio di trovare modi per abitare lo spazio pubblico con una diversa consapevolezza, facendo emergere i significati, i condizionamenti e le contraddizioni invisibili che lo strutturano. Cerchiamo di rendere accessibili luoghi istituzionali che non vengono di solito attraversati dagli abitanti della città, magari perché poco conosciuti oppure perché le attività che svolgono sono contenute entro una linea di privilegio che difficilmente viene spezzata. Un esempio sono le accademie e gli istituti culturali stranieri, che spesso costituiscono delle bolle isolate nel tessuto cittadino. Questo isolamento ovviamente agisce non solo verso l’esterno ma anche all’interno, per questo ci piace intercettare e collaborare con lɜ artistɜ stranierɜ che arrivano a Roma per periodi di residenza più o meno brevi, offrendo loro una possibilità di entrare in relazione con la città in un modo che altrimenti probabilmente non sperimenterebbero. I progetti che sviluppiamo lavorano molto sulle criticità di un patrimonio storico artistico che è ricchissimo ma scarsamente problematizzato; senza contare che il concetto stesso di patrimonio è in sé problematico, perché contiene linguisticamente la traccia di quella autorità patriarcale oppressiva che attribuisce o sottrae valore ai corpi e alle cose, in base ai propri interessi. In questi anni LOCALES ha individuato alcuni siti monumentali e collezioni su cui continuiamo a lavorare, come ad esempio l’Eur e il Museo delle Civiltà, le quattro sedi del Museo Nazionale Romano, la Biblioteca Casanatense. Anno dopo anno cerchiamo di tornare in questi spazi con nuovi progetti, perché siamo fermamente convinte che i cambiamenti per attecchire veramente richiedano tempo e continuità. A questi luoghi se ne sono aggiunti altri che sono variati di edizione in edizione. Le geografie che tracciamo si muovono costantemente e sono il frutto di tanto studio, ma anche delle tante conversazioni che abbiamo non solo con lɜ artistɜ con cui collaboriamo e con lɜ colleghɜ che lavorano come noi su Roma, ma anche con le nostre reti affettive e con le persone che incontriamo ogni giorno. Viviamo tutte qui, Roma è la nostra casa. Cerchiamo di lavorare sulle urgenze reali che vediamo emergere intorno a noi nella quotidianità, piuttosto che su ispirazioni intellettuali astratte. E lo stesso tipo di attenzione che indirizziamo ai luoghi cerchiamo di dedicarla anche alle persone che quei luoghi li abitano e li attraversano. È per questo che spesso adottiamo formati di lavoro laboratoriali e partecipativi. A volte ci siamo trovate a costruire relazioni con delle comunità specifiche, come il caso dellɜ bambinɜ della scuola Di Donato a Piazza Vittorio, coinvolt3 nel laboratorio “Attivissimə” di Iván Argote, nel 2022; oppure la comunità berbera di Roma, che ha preso parte al progetto che abbiamo realizzato nel 2021 con Adila Bennedjaï-Zou al Carcere Mamertino. Più spesso però è proprio il lavoro proposto e guidato dallɜ artistɜ che innesca la creazione di comunità temporanee tra chi ci segue e partecipa agli eventi che proponiamo.
Una domanda che va un po' più indietro ma si lega alla precedente. Quando e come nasce LOCALES e con che obiettivi?
SA: LOCALES nasce nel 2020 come necessità di riflettere sulla questione dello spazio pubblico a Roma. In un momento di pandemia – quindi di inaccessibilità ai luoghi pubblici – e di rivolte nei confronti di quei simboli, monumenti, collezioni, archivi presenti nello spazio e nelle istituzioni pubbliche che ancora contribuiscono a diffondere il pensiero coloniale, ci siamo chiest3 (insieme a Valerio Del Baglivo, co-fondatore insieme a me di LOCALES) come ri-abitare questo spazio criticamente. Con l’adesione di Marta (Federici) e in seguito di Chiara (Siravo) al team di direzione artistica e curatela, abbiamo perciò attivato un public program che negli anni ha ragionato intorno a macro programmazioni come “Hidden Histories” (2020-22) e “If Body” (2023-24), attraverso le quali produciamo e commissioniamo, come struttura indipendente, pratiche artistiche site-specific. “Hidden Histories” ha preso vita a Roma sotto le questioni che interessavano la società durante e dopo il lockdown, consapevoli che la necessità di riappropriarsi dello spazio pubblico – in particolare del centro storico e di alcuni luoghi simbolo della città – si era fatta ancora più forte, così come il bisogno di tornare a incontrarsi fisicamente, attraverso i nostri corpi. Dal 2020 al 2022 abbiamo promosso una pratica curatoriale che intendeva il patrimonio pubblico: archivi, monumenti, musei e collezioni, come elementi da cui partire per affrontare le urgenze del presente e per promuovere un approccio decoloniale alle nostre archeologie, così predominanti a Roma. Perciò LOCALES si è posizionata fin da subito come una piattaforma per la promozione di interventi site-specific nello spazio pubblico a partire dalla storia politica e sociale di luoghi simbolici della città e delle comunità che li abitano, ragionando anche su pratiche di de-gentrificazione, laddove assistiamo a una turistificazione dello spazio urbano e a una impossibilità dell’abitare. Ciò al quale diamo valore è anche il modo con cui comunichiamo la conoscenza che sviluppiamo insieme all3 artist3 a all3 partecipanti del nostro programma, ed è importante sottolineare che nel team ha preso forma il ruolo di curatrice delle narrazioni, attualmente ricoperto da Chiara Pagano, che si prende cura di restituire i nostri contenuti e la voce dellɜ artistɜ attraverso interviste, testi e il piano editoriale sui social media.
Cosa ha di positivo il panorama romano e cosa invece dovrebbe essere cambiato.
CS: Roma è una città che a volte può apparire distaccata dalla contemporaneità e questo fa anche parte di una retorica che fornisce una scusa molto utile a sottrarsi dalle responsabilità del presente. Ma la vita va avanti e per fortuna Roma è anche una città che racchiude così tante realtà che si autosostengono e si sostengono a vicenda. Per noi è importante partecipare a questi contesti liminali, ma anche creare dei ponti e giustapposizioni generative con realtà più istituzionali. Questi dialoghi sono un aspetto molto positivo della città e spesso uno scopre che il motivo per cui non accadono è per mancanza di conoscenza reciproca o difficoltà a immaginare scambi con realtà che si muovono in altri modi. Questo per esempio è il caso di luoghi come la Biblioteca Casanatense, che abbiamo citato prima. Le persone che ci lavorano e sostengono la Biblioteca e le sue collezioni abitano un mondo diverso da quello dell’arte contemporanea e noi abbiamo moltissimo da imparare da loro; e, da quello che abbiamo visto, il sentimento è reciproco. È importante dire che questi dialoghi spesso non sono facilitati dal sistema, ma piuttosto dalla volontà e dall’energia delle persone. Come dicevamo prima, questo fa parte della nostra dedizione verso la ricerca di interconnessioni.
Oltre a Short Theatre negli anni avete avuto uno scambio molto proficuo con il Museo delle Civiltà e con la Reale Accademia di Spagna. Ci potete raccontare di queste due collaborazioni?
SA: Le commissioni all3 artist3 invitate avvengono attraverso uno scambio sia con loro che con i team di lavoro che si prendono cura dei luoghi, cercando di alimentare un dialogo che espanda le programmazioni già esistenti e mai concependo questi spazi come contenitori o collaboratori per un evento. La nostra presenza è quindi una negoziazione costante e vuole aprire a nuove significazioni e contenuti. Nel caso del Museo delle Civiltà l’intento è stato quello di lavorare attraverso il formato del laboratorio, uno spazio che permette il confronto, la criticità e l’apprendimento collettivo, così necessari quando si affrontano il periodo coloniale italiano e quello fascista, come nel caso delle collezioni provenienti dall’ex museo coloniale a Roma. In particolare, il lavoro di lungo corso dal 2022 e giunto alla sua terza edizione con l’artista Adelita Husni Bey, ha l’intento di strutturare un laboratorio permanente con un focus su queste collezioni, ed espande la nozione di workshop anche attraverso la partecipazione del personale del Museo. Con la Reale Accademia di Spagna abbiamo attivato molteplici programmazioni, frutto del dialogo con la sua ex direttrice e con il team di lavoro, per proporre la presenza di artiste internazionali come Dora Garcia e Daniela Ortiz in luoghi come la Biblioteca Casanatense o lo spazio pubblico del Gianicolo. Cosa significa la nozione di censura all’interno di uno dei più grandi archivi di libri censurati in Europa (Garcia presso la Biblioteca Casanatense) o come lo spazio pubblico al Gianicolo rappresenti un esempio di propaganda fascista sulle nozioni di patria, stato-nazione, maternità e infanzia? (Ortiz presso la Statua di Anita Garibaldi). L’episodio più recente di collaborazione ci ha visto in dialogo con una delle fellow dell’Accademia nel 2023, in particolare con Amelie Aranguren (INLAND – Campo Adentro). L’evento “Agrogestualità” è stato un momento conviviale: una pratica di cucina collettiva seguita da una cena, per riflettere intorno al cibo, al corpo e alle numerose aziende eco-agricole che popolano l’area rurale romana. Il focus di “If Body” sul corpo si è ampliato grazie alla mappatura di Aranguren dei molti agricoltori che a Roma stanno segnando un legame tra aree rurali e urbanizzate e ci ha invitato a riflettere su come ci nutriamo in tempi di crisi climatica, portando l’attenzione alle connessioni che legano i nostri corpi ai territori che attraversiamo. LOCALES è anche questo, una proposta di momenti conviviali e informali che espandono la nozione di evento, di performance, di abitare insieme gli spazi, soprattutto quelli istituzionali.
Tornando al 2024 e a Short Theatre, i due progetti che presenterete rientrano in una cornice più ampia che avete più volte citato: "If Body". Vi chiedo da dove nasce questo nome e perché per voi il corpo è così centrale, tanto nella ricerca quanto nell'espressione.
MF: Il nome viene da un passaggio del libro “Cruel Optimism”, in cui l’autrice, Lauren Berlant, commenta un quadro della pittrice Riva Lehrer riprodotto sulla copertina del libro stesso e parla dei legami di solidarietà che uniscono i corpi, umani e non umani, nella loro vulnerabilità. Berlant spiega che sono le relazioni di reciprocità, cura e protezione che generano spazi di possibilità in un mondo dove la crudeltà e la violenza sono strutturali. L’attenzione sul corpo è emersa quando, alla fine della terza edizione di “Hidden Histories”, ci siamo trovate a riflettere su quello che avevamo fatto fino a quel momento. Il corpo tornava costantemente al centro dei nostri discorsi, non solo per i temi affrontati nei lavori sviluppati dagli artisti, ma anche per i linguaggi e le metodologie – dalla performance ai workshop – che da sempre prediligiamo. “If Body” ha segnato uno spostamento della nostra attenzione dalle tracce della cultura artistica e materiale, presente e passata, verso le soggettività e le relazioni. Tante teoriche e teorici del pensiero femminista, queer e decoloniale, hanno analizzato come il potere agisce prima e più di ogni altra cosa attraverso il controllo dei corpi, e come la liberazione non potrà perciò che avvenire proprio a partire da quello stesso luogo. “If Body” vuole esprimere e celebrare proprio questa potenzialità del corpo come territorio di resistenza, di lotta, di immaginazione, di gioia, amore e tenerezza. Ma nel nostro statement parliamo non solo di corpi, anche di corporeità in senso esteso, perché pensiamo sia importante ampliare lo sguardo oltre l’umano e ricollocarci dentro il continuum materico, in costante trasformazione, che ci lega e ci mescola a tutto quello che ci circonda.
In questi anni di attività cosa avete maturato circa il rapporto tra corpo e spazio, l'altro elemento cardine della piattaforma LOCALES?
CS: Come già emerso, non vediamo i corpi e lo spazio – il corpo/i corpi nello spazio – come due cose separate. E infatti basta pensare a come le politiche urbane degli ultimi decenni sono state mirate proprio a controllare le modalità di interazione dei corpi con i monumenti di Roma e con il suo cosiddetto patrimonio -– parlo di eccessiva bigliettazione, del sistema di file lunghissime, del divieto di sedersi sui gradini, etc. Questo rispecchia tante altre forme di controllo che ci allontanano ulteriormente dal nostro ambiente fisico, dallo spazio pubblico e gli uni dagli altri, costringendoci a un rapporto prescrittivo e asettico con le manifestazioni materiali del passato (e del presente). È un sistema che facilita i modi, in continua evoluzione, in cui la città capitalizza su se stessa a spese di residenti e turisti. Le forme artistiche che privilegiamo – performance e progetti partecipativi – sposano ciò che le pensatrici femministe, tra cui Carla Lonzi, hanno definito arte della vita, ovvero l’idea che l’arte non è separata dal quotidiano, perché di fatto coinvolge anche lo spazio pubblico e i corpi che lo abitano o quelli che ne sono sistematicamente esclusi. Questa domanda tocca infatti questioni di giustizia sociale: quali corpi, umani e non, hanno accesso a quali spazi? E come possono lɜ artistɜ lavorare su/contro i modi in cui la sorveglianza viene esercitata nel contesto dei beni comuni? Quindi lo spazio pubblico, ma anche le risorse pubbliche come l’acqua: un tema che Adelita Husni Bey sta esplorando nel contesto della storia e dell’eredità coloniale in Libia per il suo prossimo workshop al Museo delle Civiltà. Il primo ombrello tematico di LOCALES, “Hidden Histories”, è nato dall’esigenza di mettere in discussione i modi in cui siamo incoraggiate a vivere i beni comuni di Roma in quanto abitanti della città, ma anche il modo in cui la città accoglie i visitatori o gli abitanti temporanei, il modo in cui racconta se stessa attraverso gli spazi pubblici. Daniela Ortiz, che ha partecipato al programma nel 2022 con “I Figli Non Sono Della Lupa”, ha utilizzato il formato del tour in una declinazione decoloniale e la tradizione del teatro di burattini pubblico, per mettere in discussione i modi in cui siamo portatɜ ad assorbire ciecamente la monumentalità propagandistica stratificata di Roma in generale, e del Gianicolo nello specifico. Il 2023 è stato il primo anno in cui LOCALES ha proposto una mostra e l’artista britannica Holly Graham ha portato nel white cube una riflessione sulla storia delle cariatidi, degli atlanti e dei talamoni: elementi scultorei in forma di figure umane, scolpite a tutto tondo o in altorilievo, utilizzati come supporto strutturale o come componente decorativa anche in edifici e nello spazio pubblico. Fin dal Rinascimento, nella tradizione architettonica della penisola che oggi corrisponde allo lo Stato italiano, queste figure spesso venivano rappresentate da corpi neri. La mostra di Graham ha messo lɜ spettatorɜ di fronte alla realtà di ciò che vediamo ogni giorno quando ci muoviamo all’interno del nostro patrimonio architettonico. Parlando di spazio pubblico, è importante notare che ormai il discorso non si può più esaurire nella dimensione fisica. Quest’anno abbiamo presentato una mostra personale di Soukaina Abrour. Tra le altre cose, Abrour ha esplorato l’incontro tra pubblico e privato nella sfera digitale, ossia il modo in cui lo spazio condiviso di Internet è anche vissuto, in modo molto corporeo e viscerale, come uno spazio intimo e personale da tuttɜ noi. La mostra “Storage Almost Full: The Clouds Have Fallen” parla proprio di questa tensione: da una parte c’è la rete intesa come una piattaforma pubblica in cui siamo alla completa mercé di società che controllano i grandi database, dall’altra ci siamo noi con la nostra incapacità di rinunciare ai ricordi, agli incontri e alle connessioni che coltiviamo o immagazziniamo in questo universo piatto e multisensoriale. È importante dire che Abrour ha affrontato questo tema nella specificità dell’attuale genocidio in corso in Palestina, che è trasmesso in diretta sui nostri schermi e si intreccia agli stessi riverberi viscerali, personali e corporei che provavo a descrivere.