Nel 1973 nasceva alle porte di Roma uno dei progetti più curiosi e vitali dell’arte contemporanea italiana: Agricola Cornelia S.p.A. Riassumendo in maniera stringata, immaginate un artista – anzi, immaginate Gianfranco Baruchello – per otto anni a capo di un’azienda agricola e immaginate il racconto di questa esperienza tradotto in quadri, sculture, installazioni, fotografie, archivi e documentazioni. Qualche anno dopo, nel 1998, in quegli stessi terreni ed edifici a ridosso del Raccordo Anulare – Formello, per intenderci – nascerà la Fondazione Baruchello, che avrà un ruolo di prim’ordine nel panorama artistico italiano e anche internazionale. Nel 2018 la Fondazione ha festeggiato i 20 anni di attività e li ha voluti ricordare mettendo in mostra nei suoi nuovi spazi di Monteverde proprio quello che è stato il suo primo tassello: l’Agricola Cornelia. In occasione dell’opening (la mostra sarà visitabile fino all’8 febbraio) abbiamo incontrato Gianfranco Baruchello con l’intenzione di farci raccontare quell’esperienza, così lontana eppure ancora così attuale. Poi, però, alla parola “Roma” si è aperto il libro dei (suoi) ricordi e siamo rimasti ad ascoltare il suo racconto, pieno di dettagli vividi e di (auto)ironia.
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Lei è nato a Livorno, ma la sua storia è da sempre legata a Roma. Quando arrivò a Roma e che città trovò?
Sì, sono nato a Livorno e lì ho fatto le primissime scuole elementari. A Roma venni già all’età di sette anni, quando mio padre si trasferì per lavoro. Dopo la Prima Guerra Mondiale mio padre era entrato in Confindustria, occupandosi dell’artigianato prima e della chimica poi, cominciando a lavorare a Livorno. Lì conobbe mia madre e lì sono nato io. Poi andammo a Roma, dove mio padre fece una brillante carriera, almeno fino a quando durò il Fascismo. Nel momento in cui il Regime crollò dovette ricominciare da capo. E ci riuscì, perché era una persona di grande valore: durante la Prima Guerra fu uno di quegli alpini che conquistò la Marmolada. Mio padre ha anche scritto un testo sulla storia del porto di Livorno, “Livorno e il suo porto”, un libro bellissimo, e suo zio, Camillo Manfroni, fu senatore e storico all’Accademia Militare di Livorno. Il legame con quella città è forte quindi: quando sono a Livorno la gente mi chiede di Livorno. Ma io sono e mi considero romano al 100%. A Roma ho fatto la scuola al Ruggiero Bonghi, poi il liceo all’Umberto I in via Manin. A un certo punto ci fu un divorzio nella mia famiglia: mia madre rimase a vivere con me e mio fratello a viale Manzoni, mio padre, che nel frattempo si era risposato in Svizzera, andò a vivere da un’altra parte della città, sulla Cassia, in una villa non lontano da Ponte Milvio. Ho delle bellissime fotografie di Ponte Milvio allagato, con le barche: quella zona era molto più selvaggia di adesso e sopra il ponte addirittura ci passava il tram. Roma è stata ed è sempre rimasta la piattaforma della mia famiglia e la mia gioventù è stata tutta romana. Da ragazzini uscivamo a Colle Oppio, anche se non funzionava tanto come posto, andava di più Villa Celimontana. Il traffico non esisteva, al liceo ci andavo in bicicletta, sempre, su è giù, su e giù. Ricordo che a metà strada c’era un botteghino che vendeva i maritozzi, tagliati e riempiti con la panna. Ho fatto parte anche della gioventù balilla, Legione 781, ma al Tiburtino, per cui molta della mia gioventù l’ho passata su via Tiburtina, dove c’era gente molto dura, locale, popolare. Ho amato moltissimo quel mondo là, mentre non me ne fregava niente del mondo elegante di mio padre e dei suoi colleghi. Sono legato a Roma come se fossi uno dei quartieri popolari. Quando cadde il fascismo ero già grande, ero andato in Russia e al momento del ritorno c’era stato già l’8 settembre. In questo senso sono rinato, sono diventato un militante della sinistra rivoluzionaria, tra Potere Operaio e Lotta Continua, sempre però legato al mondo rurale e popolare. Sono stato anche iscritto al Partito Comunista: ho lavorato nel Partito, ho disegnato un manifesto. Ora tutto questo è scomparso e il Partito Comunista si è trasformato in una cosa gestita da Renzi…
Che città era Roma negli anni 70, al momento della nascita dell'Agricola Cornelia?
Era ancora diversa da come è adesso. Nel Dopoguerra ci fu una ricostruzione evidente, ma ostacolata da molte cose che successero. Nel 1970, più o meno, ho venduto un pezzo di terra che mio padre mi aveva lasciato nelle Marche e ho comprato questo appezzamento dal Comune di Roma, con una casa non finita e 8000mq di terra. Questo primo appezzamento faceva parte di un terreno diviso in lotti sui quali si sarebbe dovuta costruire una nuova città. Poi il progetto fallì, tutti i proprietari capirono che non avrebbero potuto costruire, così, poco a poco, sono riuscito ad acquistare tutti questi lotti abbandonati. Li ho messi a coltura e ho costituito una società per lavorarli. Fu una avventura: lasciavamo una Roma ancora legata alla fine del fascismo e a un mondo democristiano che rifiutavamo. Quando Moro fu ammazzato io ero già lì: abbiamo visto “dalla campagna” tutta quella storia. Ho visto atterrare gli elicotteri che lo cercavano in zona. L’autostrada negli anni 70 ancora non c’era, nella campagna attorno a Formello ci si poteva vivere, non c’era traffico, si andava su e giù solo su via di Santa Cornelia. Ora c’è una colonna di macchine ogni mattina, per cui ci siamo trasferiti a Roma, a Monteverde, e lì andiamo soltanto per villeggiare. In poche parole, con il progetto Agricola Cornelia, quel tipo di vita lì, legato alla terra, venne trasformato in un evento culturale. È stata un’esperienza personale su cui successivamente, con la Fondazione, si è innestato un racconto collettivo a cui più persone hanno partecipato, contribuendo a scrivere un altro capitolo della storia.
Mi tolga una curiosità: ci andava di persona sul trattore, tutti i giorni?
Quando uno non muore nei tempi giusti e gli viene chiesto di raccontare la sua vita, gli viene un senso di nausea… Sì. Ho fatto di tutto io. Facevo anche il latte per il Comune di Roma: avevo le quote lattee che poi ho venduto quando l’esperienza terminò. All’Agricola raccoglievamo il granturco, coltivavamo le barbabietole e cercavamo di vendere tutto quello che producevamo. Le barbabietole del primo raccolto vennero grosse così: erano fantastiche ed ero fierissimo. Chiamai lo zuccherificio con cui lavoravamo – io non sapevo un cavolo delle barbabietole da zucchero – e mi dissero che non le potevano prendere perché loro lavoravano solo con quelle piccole. Al che gli risposi: «E io che ci faccio ora?». Poi mi dissero che le avrebbero comprate lo stesso. Facemmo tante cose sbagliate all’inizio… Ecco, è un’esperienza che bisognerebbe rifare adesso, perché ora sì che si farebbero i soldi! Ho avuto due greggi, ho fatto la lana, la tosatura. Fare un gregge è semplice: vai da un pastore, gli dici quante pecore vuoi, lui te le vende e te le porti via. Il pastore da cui andai la prima volta, però, fu furbo: scelse le più vecchie, che erano quasi tutte affette da zoppia. Così andai da un altro pastore che mi disse: «Non ti preoccupare, rimedia un po’ di cloramfenicolo che ci penso io». Prese tutte le pecore zoppe, gli tagliò una porzione di unghia, spruzzò il cloramfenicolo sulla carne viva e le mandò a camminare. Il gregge guarì in una settimana. Ci sono poi state tante operazioni che ho fatto sui cibi o sulla terra. Ad esempio, una volta trovai una scatola che conteneva dei torroni ed era stata invasa dagli insetti. La misi in una teca e osservai la vita degli insetti. Poi un cretino gli ha dato una botta, la teca è cascata, si è rotto il vetro e c’è stata un’esplosione come quella di Hiroshima. Così li ho rimessi dentro una nuova scatola che è rimasta intatta fino a oggi e ora è qui in mostra. Agricola Cornelia è stata una grande esperienza, che ho cercato di raccontare.
Come faceva a trovare il tempo anche per dipingere, scrivere etc.?
C’è tempo per fare tutto.
Poi è arrivata la Fondazione.
La Fondazione è stata fatta in favore della didattica. Quando mi sono sposato con mia moglie (Carla Subrizi, nda), abbiamo deciso di trasformare gli spazi dell’Agricola Cornelia non in una nuova società, ma in un qualcosa rivolto agli altri. Ci sono tantissimi artisti e curatori che sono nati e si sono formati alla Fondazione Baruchello. Gli spazi di Monteverde, dove ora è allestita la mostra dedicata all’Agricola Cornelia, sono l’ambasciata della Fondazione. Anche se io non ne sono né l’ambasciatore né il proprietario: la Fondazione è una fondazione, non è proprietà di nessuno. Carla è il presidente, io non sono nulla: sono ospite, in attesa del funerale!
Com'è andata l'inaugurazione di quest'ultima mostra?
Curiosamente è stata piena zeppa, con tanta gente giovane che voleva sapere qualcosa. Non si capiva molto bene perché dovessimo fare questa mostra, invece ha funzionato. Noi ci immaginavamo di vedere solo vecchi che vogliono vedere cosa fanno gli altri vecchi – e io mi considero tale, ho 95 anni. Sono venuti tanti amici cari: io me li ricordo ragazzini, ma c’hanno 90 anni pure loro! Invece abbiamo constatato l’esistenza di un coefficiente, di un bagagliaio di curiosità nelle nuove generazioni. In tanti hanno ancora un piede in un passato che è completamente diverso dall’attualità: gente che oggi ha 30/40 anni ha visto qualcosa, ma si tratta solo della coda di quel cambiamento che ci fu negli anni del Dopoguerra ed è difficile davvero rapportarlo all’oggi. C’è quindi una curiosità, che da una parte è “obiettiva-storico-narrativa”, dall’altra è personale, trascinata da elementi che appartengono ai genitori.
Che lavori fa adesso?
Disegno, faccio tutto ancora. Ho avuto un intervento al cristallino dell’occhio qualche tempo fa, ma hanno sbagliato l’operazione. Mi ha fatto un male pazzesco, non ho dormito per un anno. Adesso ho tolto questo cristallino difettoso e il dolore è passato, però con questo occhio vedo tutto confuso. Potrei inserire un nuovo cristallino, ma mi metto a fare un’altra operazione a 95 anni? Ormai il mondo lo conosco abbastanza, anche con un occhio solo. Certo, non è la stessa cosa lavorare e disegnare, ma continuo. Sono ripartito dall’interno, dal corpo umano. Ho ricominciato a disegnare la funzione e gli organi, dal cervello fino alla punta dei piedi. Il mio mondo degli ultimi cinque/sei anni è legato a queste immagini incomprensibili, un giorno poi ci sarà qualcuno che le spiegherà.
Perché proprio il corpo?
Hai sofferto, hai vissuto, con il corpo. Il corpo parla e quindi parti dal tuo corpo. Questa è la mia avventura, che mi ha fatto diventare vecchio, vecchio, vecchio. E anche insopportabile…
Roma le piace ancora come città?
La vita romana di oggi uno la constata con dispiacere estremo, vedendo come è abbandonata la città. Questi personaggi della politica attuale sono assolutamente inaccettabili! Mi fa incavolare Roma. Ci sono giovani che cercano di fare delle cose, ma non ci riescono. Come quella storia del cinema in piazza… È sempre la stessa Roma amabile, ma non la vedo una Roma simpatica.
Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2019-01-11