Spaccio Maglieria, il futuro lab open source della maglieria contemporanea, nasce dalla combinazione tra l’esperienza dell’occhio e l’attenzione dal sapore artigianale per punti, calibri e trame, il tutto sostenuto da una certa sensibilità per declinare le forme in intrecci. Giulia Bortoli è knitwear consultant, e ci racconta un percorso che intreccia tradizioni calde con limpide professionalità, un fare maglieria che riassume l’attitudine alla “famiglia” nello svolgimento del lavoro, con una pretesa importante: un fare della lentezza e della materialità, del “fare a mano”, il futuro della maglieria e del suo commercio.
«C’è bisogno di un ritorno alla lentezza, a delle tempistiche umane. Più lunghe, dove la lentezza non è un tempo vuoto e sospeso, ma un tempo pieno di valore.»
Ciao Giulia, chi sei, cosa fai?
Sono Giulia, e sono una consulente di maglieria. Sono originaria di una cittadina in provincia di Vicenza, Schio. Mi occupo di ricerca, studio e produzione di knitwear con il mio studio, @magliaunita. Pur essendo nata in un’area dove il tessile è molto sviluppato, la maglieria è entrata a gamba tesa nella mia vita solo 6 anni fa, dopo un percorso di studi totalmente slegato dall’ambienta moda. Essendo sempre stata molto legata al fare al di là di uno schermo, quindi dello sporcarsi le mani nel creare alla vecchia maniera, nella maglieria ho trovato un’anima gemella che, nella sua complessità, ogni giorno mi insegna qualcosa di nuovo.
Ci racconti di come hai approcciato al mondo della maglieria?
Successivamente alla mia laurea in grafica pubblicitaria, ho iniziato subito uno stage all’interno di un ufficio stile che sperimentava su tessuti tecnici e tinto in capo, facendo consulenza a brand come Stone Island e CP Company. Lì ho capito che l’innovazione non poteva nascere dalla forma di un qualsiasi oggetto, ma doveva essere più intrinseca nella fibra – e cosa ti permette di lavorare più a stretto contatto con la fibra ed i suoi intrecci se non la maglieria? Così ho iniziato.
Mia madre ha una stireria a Schio. E proprio lei, durante il mio percorso, mi è stata di grande aiuto: mi ha formata mentalmente a cosa significhi fare impresa, e, sapendo cosa significasse lavorare per grossi maglifici, mi ha aiutata a tracciare una strada che non aveva un metodo di lavoro coerente, del resto lo stavo inventando mentre lo vivevo. In quell’ambiente ero l’unica persona giovane, e la comunità di artigiani veneti mi ha dato un grande supporto. I “vecchi” mi vedevano “giovane”, e con molti ho stretto rapporti al di là della realtà lavorativa. È incredibile l’aiuto che ho avuto da parte di tutti. Una prova che la gente dell’artigianato non è affatto chiusa e non esita a condividere il know-how.
Attualmente come è composto lo studio e quali sono i vostri punti di forza?
In studio al momento siamo in sei, Stefano, Angelia, Valentina, Pedro, Nicolas e io. Il nostro studio si occupa di knitwear dalla consulenza stilistica, alla creazione del “tessuto” successivo ad una ricerca legata alla fibra ed al suo intreccio, finendo poi nella campionatura e produzione di capi in maglia. È molto difficile descrivere quello che facciamo, essendo un ambiente molto tecnico e di segmento, ma ti posso raccontare l’approccio che diamo ad ogni progetto. La nostra forza, al di là della relazione costante con il vero saper fare italiano, è data dalla passione che abbiamo in quello che facciamo e dal nostro immedesimarci completamente ad ogni progetto che ci viene affidato, come se ogni brand per cui lavoriamo fosse nostro – di conseguenza ogni sua vittoria è una nostra vittoria. Molte volte scherzo dicendo che siamo una giovane Ferrari nel nostro campo, e questo perché credo fortemente nel proporre a chiunque si rivolga a me la qualità migliore, con una produzione non delocalizzata, ma prodotta interamente in Veneto, attingendo alle abilità e il know-how dell’artigianato locale.
Come è iniziato il tuo percorso in questo campo?
È iniziato come piace a me, con una sfida. Come ti dicevo, ero in assoluto la faccia più giovane tra tutte quelle che si aggiravano nei maglifici veneti, e all’epoca (6 anni fa) la maglieria non andava così di moda, tutt’altro. Vitelli è stato il mio primo passo, con Mauro abbiamo deciso di raccontare una gioventù attraverso le radici del nostro saper fare; successivamente è arrivato Sunnei, il mio il primo cliente, e con loro sono cresciuta. Nel senso che sono stati di grandissimo supporto nella condivisione. A volte brand e fornitori rimangono poco aperti, e invece loro hanno fatto un grandissimo passaparola. Quasi contemporaneamente è arrivato il primo brand internazionale, Area, il mio secondo cliente. Certo ci vogliono competenze e bisogna offrire un ottimo servizio, ma sapere che si fidano della mia visione e lavorare così è un grande riconoscimento. Ci si fanno degli amici. Anche Eckahus Latta, altro esempio, è entrato in contatto con me attraverso un passaparola. La cosa bella dei brand con cui lavoro non è poter fare name dropping e fomentare l’hype – che rifuggo – ma il rapporto umano che si crea col brand. Un rapporto di famiglia, questa è la cosa bella.
Spaccio Maglieria: cosa dobbiamo aspettarci?
Spaccio Maglieria sarà un knitwear lab open source e nasce da una precisa esigenza: quando ho iniziato a fare consulenza sono tornata in Veneto, perché la presenza dell’artigianato e del fare bene è molto forte qui. Ma il mio sogno è quello di prendere e portare l’identità della maglieria e dell’artigianato veneto in città, a Milano. Pensa che ultimamente sono riuscita a chiudere una partnership per avere qui delle macchine industriali uniche nel loro genere. Alla base di Spaccio Maglieria c’è l’idea di un ambiente dove si avessero più mani in pasta e l’attitudine alla condivisione nel fare la maglia. Questa è anche la ragione per cui voglio sempre che i miei clienti vengano in studio, anche oggi, mentre la moda corre veloce. Una volta c’erano i piccoli laboratori da cui il creativo poteva prendere prove di tricot e rendere tutto più comune, sentito, condiviso come pratica e non solo un freddo invio di mail, senza cuore. Ovviamente poi c’è chi è più portato e chi no, anche se bisogna dire che i più sono stufi di un universo teorico e vogliono partecipare a quel qualcosa che si pone diversamente, con una relazione stretta. Si ricerca una semplicità nell’essere raggiunti, anche nella comunicazione, un limitare al minimo gli spostamenti.
In questi anni si sono perse queste modalità.
Sì, esatto e ho bisogno di portare le mie macchine, di lavorare al progetto con una manualità, calando l’attività nella realtà fisica. La vicinanza con le macchine ti aiuta a costruire, a creare idee, ed è anche più divertente. Ci sarà un ritorno a questa condivisione solo se chi si occupa di fare le cose si occupa anche di insegnare al cliente una metodologia. Se tu, come consulente o come designer o stilista, ti impegni nel fare dell’istruzione attiva. Per mostrare quanto lavoro effettivamente c’è dietro ogni cosa, quando tutto è decentralizzato, etereo, lontano. Me ne rendo conto ogni giorno coi fornitori con cui lavoro. C’è bisogno di un ritorno alla lentezza, a delle tempistiche umane. Più lunghe, dove la lentezza non è un tempo vuoto e sospeso, ma un tempo pieno di valore. Lo capisci quando ti ritrovi a mettere le mani tra i fili, quando comprendi la complessità dei materiali e il tipo di processo produttivo, in quel momento comprendi davvero cosa sia la professionalità. Sono convinta che le nuove generazioni hanno una percezione completamente diversa delle tempistiche, preferiscono metodi più lenti, approcci materici, sapendo che il fare manuale significa un saper fare preciso, un avere approccio diretto con le cose. Penso che la lentezza come virtù sia il futuro della maglieria.
Tra le infrastrutture sociali che la pandemia ha maggiormente scardinato c’è sicuramente il settore della moda. Qual è il tuo sentire per il futuro del campo in cui lavori?
Positivo, obiettivamente il settore è stato scosso dalla pandemia ma si è rialzato altrettanto velocemente. Purtroppo il vecchio mondo è ancora fortemente radicato, soprattutto negli uffici stile, e lascia un eco di isteria e velocità nel fare; però le nuove generazioni (in termine anche di nuovi brand) prediligono un metodo di lavoro più organico e comunitario, totalmente in linea con la nostra filosofia. Viviamo in un mondo in cui tutto cambia in modo radicale e con tempistiche velocissime, mi aspetto sempre che tutto crolli da un momento all’altro; però non la vivo in senso catastrofico, quanto con la consapevolezza serena che tutto ciò che faccio ha valore e importanza nonostante sia legata a un settore in cui i cambi di rotta repentini non sono affatto rari.
Milano come idea, come luogo, come epicentro. Quale posto ha la città nella creazione di Spaccio Maglieria e per te?
Milano ha un significato enorme per me. Per assurdo, sono una pendolare al contrario, di ritorno. È una città che nonostante i cliché crea opportunità e spiana la strada a chi è capace di buttarsi nei progetti. Spaccio Maglieria nasce in un locale spaziosissimo in zona Centrale di cui mi sono innamorata da subito. Quando ci sono entrata era uno di quei luoghi usati e abusati, da rimettere completamente in piedi: e così è stato. Ne ho fatto il mio piccolo capolavoro, creando lo spazio perfetto per accogliere persone, competenze, macchinari.
Posti del cuore in zona centrale?
Il quartiere devo ancora scoprirlo per bene, ma sono una frequentatrice del bar Paparazzi. In zona c’è un ristorante pugliese dove andiamo spesso. Oppure la trattoria dei terroni in viale Monza o la gastronomia Le Torri, che è un posto che davvero tutti dovrebbero conoscere: è tutto fatto a mano in giornata.