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The Present Is Not Enough: uno spettacolo per mettere futuro nei nostri corpi

Un'intervista corale e orchestrata, in sei movimenti ma con partitura libera, per raccontare il nuovo lavoro a firma Caleo/Calderoni, a Roma per l'edizione 2023 di Short Theatre

Written by Nicola Gerundino il 30 August 2023
Aggiornato il 19 June 2024

Foto di Rebecca Lena

New York negli anni Settanta: sesso, droghe, gang criminali, icone della disco, politici, homeless, celebrità, artisti, musicisti, sex worker. Una città decadente e degradata, se letta con occhi superficiali e castigatori, una città nel pieno di una rivoluzione creativa e sessuale per chi ancora oggi ne sta raccogliendo l’eredità. All’elenco sopra citato bisogna infatti aggiungere la comunità gay, che dopo i moti di Stonewall, sempre a New York, stava conquistando sempre più spazi, portando i corpi e la sessualità nello spazio pubblico e, letteralmente, alla luce del sole. Non a caso, uno dei principali luoghi di ritrovo divennero i pier nella zona portuale di Chelsea, lungo la riva dell’Hudson: enormi capannoni abbandonati dove ci si ritrovava per prendere il sole, bere, conoscersi e scopare. Contemporaneamente, gli stessi edifici erano stati trasformati da una serie di artisti in atelier spontanei e totalmente informali, generando un’inedito scambio di energie (trovate tutto nel libro “Pier Groups” di Jonathan Weinberg). Proprio uno di essi, David Wojnarowicz, è tra le principali fonti di ispirazione del nuovo lavoro firmato da Ilenia Caleo e Silvia Calderoni, “The Present Is Not Enough”, che sarà presentato a Roma durante l’edizione 2023 di Short Theatre (8 e 9 settembre al Mattatoio). Dall’esperienza dei pier arrivano anche le riflessioni sul cruising di José Esteban Muñoz e tanti altri spunti che riguardano i corpi, la sessualità, la città, il movimento, il cambiamento e l’utopia. Abbiamo cercato di affrontare ognuno di questi temi coinvolgendo tutto il cast – Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Tony Allotta, Giacomo AG, Gabor (Gabriele Lepera), Fede Morini, Ondina Quadri – in un’intervista anomala, corale e orchestrata in sei movimenti, ma con partitura libera. Un testo mutante che è allo stesso tempo saggio, innesco di pensieri, poesia, flusso di coscienza, elogio dell’utopia, invito a rivoluzionare il presente e riempire i nostri corpi di futuro.

 

The present is not enough. Il presente non basta. O forse il presente è troppo: diciamo spesso di vivere in una società dell'eterno presente, incapace di guardare indietro e avanti, di farsi ispirare da quello che è stato e battersi per quello che sarà. È così? Cosa è il presente e perché è un presente che non basta?

Silvia Calderoni: The present is not enough: mai come adesso questa frase sembra illuminarsi al neon. Un governo di estrema destra, violenze contro le donne* ogni giorno, una guerra in corso in Europa, una strage continua nel Mediterraneo, frutto di politiche migratorie vergognose. No, il presente non ci basta. Le parole arrivano da un libro di Josè E. Muñoz, uno studioso queer cubano e si riferiscono alla necessità di attivare l’utopia come pratica rivoluzionaria nelle politiche queer. Non definire ciò che siamo attraverso i confini identitari delle nostre sessualità, ma mettere in moto processi di trasformazione radicale, aprire spiragli per intravedere l’altrove, che è già qui. Baluginii, non definizioni. Glimpse. Disturbi della visione. Spaccare l’intero, farlo a pezzi. Un’utopia dei corpi che sia fuori misura, imprevista: in un momento in cui “queer” è diventata una parola comune, grazie anche alle nostre lotte, ci interessa anche ritrovare il “fuori formato”, ciò che non è assimilabile o conforme o rassicurante. Essere fuori posto. Lo traduciamo anche con quella che per noi è stata una postura politica, il punk, ciò che è sgradevole, non addomesticato. Siamo donne*, siamo frocie e facciamo paura. Ma facciamo anche mondo. Queste vibrazioni sono presenti nel lavoro – come tracce poetiche, sussulti, stati emotivi. Per mettere futuro nei nostri corpi. Ne abbiamo bisogno.

Archivio e memoria. Come il passato può reincarnarsi nel presente e diventare poi futuro? Come il ricordo può liberare energia e diventare pratica artistica?

Ilenia Caleo: Abbiamo lavorato su dei materiali d’archivio – immagini prevalentemente, ma anche testi, disegni, canzoni, poesie. Ci abbiamo messo le mani dentro e abbiamo impastato, rimescolando tutto. In particolare, abbiamo costruito un catalogo di immagini che arrivano dalla scena queer di New York di fine Settanta/inizio Ottanta: i pier, i capannoni (allora abbandonati, ora gentrificati dal mercato dell’arte contemporanea) dove la comunità frocia si ritrovava per prendere il sole, stare assieme e scopare. Un punto d’incrocio interessante: sperimentazione di vita e sperimentazione artistica. Artisti*, fotografi, writer, poeti e attivisti gay li attraversavano, ecco perché esistono tantissime immagini di quel mondo. È un attimo prima dell’arrivo dell’Aids, prima che il virus e le politiche sanitarie omofobe del governo Reagan si portassero via tutte quelle vite. Quelle storie ci arrivano anche attraverso la perdita, il trauma, il dolore: della morte e dello stigma. E poi lo spazio, lo spazio urbano: selvatico, non organizzato, occupato. Ci mancano, nelle città, spazi così. Il cruising per noi è una pratica che genera questo tipo di spazi a margine, oltre che una pratica sessuale. Guardiamo a quel passato come si guarda a un futuro, come fosse fantascienza. Così lo liberiamo, ce ne appropriamo, diventa nostro. Inventiamo una lingua, un mondo. Le immagini le abbiamo a lungo proiettate, incorporate. Poi, via via, si sono trasformate, sono diventate stati del corpo: uno stato di eccitazione/un desiderio struggente/una pienezza che non si consuma/un’ombra che passa. Sono diventate grammatiche sceniche: non finire, non passare da una scena all’altra, ma prolungare fino all’estenuazione, fino a che una cosa si trasforma in un’altra. Ci interessa quella zona ibrida, mescolata. Impura, come le acque dell’Hudson. Non ci sono ricordi: non abbiamo fatto parte di quel mondo, abbiamo per questo scelto materie distanti. Per quelle di noi che sono socializzate donne o non binarie o trans, gli spazi del cruising sono inaccessibili. Anzi, lo spazio urbano è per noi spesso un reticolo di pericoli e di paure. Sono memorie del futuro. Mettiamo le mani negli archivi e impastiamo, per fare nuove drammaturgie. Rimestare il presente, non per documentarlo, ma per infuocarlo.

Cruising come movimento ed esplorazione. Anche come principio della libertà? Un corpo fermo può definirsi libero? Allo stesso modo, un corpo è libero solo quando è in movimento?

Gabor (Gabriele Lepera): Il concetto di libertà è un concetto molto complicato da definire, proverei quindi a trasformare un po’ la domanda nella mia testa per vedere se esce qualcosa su cui ragionare insieme. Intanto mi viene subito in mente un’estensione della frase “cogito ergo sum”: “deambulo ergo sum”, a indicare proprio che un corpo in movimento è un corpo vivo e quindi pensante. E mi viene anche da canticchiare il brano di Celentano “Cammino”: “L’importante è camminare/non importa se si è lenti o veloci/basta camminare/se cammini/vai avanti. Camminare non vuol dire soltanto muovere le gambe e fare dei passi/se la tua mente pensa/e pensa nel modo giusto/allora vuol dire che tu cammini/e in te tutto si muove”. Mi ritrovo spesso a fare lunghe passeggiate per andare da qualche parte o tornare a casa, in cui metto fortemente in moto il cervello. Mentre cammino riesco a ragionare meglio, riesco ad avere una visione molto più aperta rispetto a quando sono seduto davanti ad una scrivania, magari con lo sguardo rivolto verso il muro. Una visione meno limitata e più partecipe. Parlando di cruising, uno degli elementi fondamentali è sicuramente la camminata. Una camminata che è anche coreografica, quasi un balletto. Ci si muove per incrociare intenzionalmente altri corpi e non perché si ha l’esigenza di spostarsi da un punto A a un punto B. Una camminata ben precisa, comunicativa, che porta con sé dei codici che sono parte di questo corteggiamento non verbale. Nelle mie passeggiate ci infilo sempre una dose di “modalità cruising”. Personalmente vivo questa pratica come un gioco e mi interessa immaginare che non debba essere contenuta in luoghi adibiti e quindi limitati, ma qualcosa da vivere nel quotidiano, in tutte le strade, tra tutte le persone, in modo sobrio e non aggressivo.

Un corpo in movimento quante e quali identità ha? Non è forse giusto dire che da ogni incontro tra individui, da ogni scontro tra carni, nascono sempre nuove identità, anche all'interno di una stessa persona?

Fede Morini: È bello perché in questa domanda c’è già tutta una danza: un corpo, il movimento, incontri con altri corpi. E quante identità può avere questo corpo, come si modifica attraverso questi incontri. Penso che per prima cosa sia interessante chiedersi che cosa si intende quando si dice un corpo, dove si traccia il confine che lo divide dagli altri, che lo identifica come individuo. Perché il fatto è proprio questo: per muoversi un corpo non può essere uno solo, identico a sé stesso, altrimenti non si muoverebbe. Identità vuol dire essere uguale a sé, rispettare il principio di non contraddizione, A è A e non è B e non lo sarà mai. Ma come fa questo corpo identico a sé stesso a muoversi? La testa decide di muoverlo e lo comanda come un burattino? Già così sarebbero due, un corpo testa e un corpo macchina. Questo movimento però non mi piace e non mi interessa, perché un movimento apparente, un movimento che alla fine non muove niente e non va da nessuna parte, perché è un movimento che non trasforma e che non si apre all’imprevisto, che poi vuol dire aprirsi alla possibilità stessa di stare nel mondo. No, il corpo che si muove davvero è abitato e mosso da un sistema di forze e di relazioni. È impossibile muovere senza essere mossi, e tutto ciò che è mosso muove a sua volta. Quindi un corpo in movimento è un corpo in trasformazione costante, che è molteplice e multidirezionale. Inoltre, per muoversi un corpo ha sempre bisogno di altri corpi e di essere agito da forze, dentro e fuori di sé. Almeno l’aria attorno al corpo e dentro ai polmoni, e il suolo. Immagina cosa succede se aggiungi altri corpi! Ma anche la memoria del movimento, ciò da cui è stato mosso, il desiderio di nuovi incontri, di nuove aderenze possibili e la gioia di un movimento che sorprende, che scava nuove tracce. Aderenza è una parola che mi piace molto. Smettiamo di percepire la pelle come un confine, perché nella necessità e nel desiderio di muoversi il corpo esce da questi confini e ne comprende altri. Se aderisco con un altro corpo dov’è che finisce il mio e incomincia il tuo? Il nostro sistema nervoso è fatto così, si allarga e si espande, e allo stesso tempo lascia entrare: siamo noi che lo abbiamo amputato, che abbiamo rinchiuso il corpo in confini rigidi. Ma le cellule lo sanno che non sono mai da sole! È così che mi piace pensare anche l’essere trans: un movimento che ti trasforma e una trasformazione che ti fa muovere. Non sopporto che mi si dica che se sono A e devo essere A e basta, uguale a me stessa, sempre e in ogni mia parte identica, come un sistema chiuso. Invece si è sempre identità in relazione, identità che si definiscono come tali in relazione a qualcosa e che possono essere diverse se poste in relazione a qualcos’altro. Anche perché non ci credo tanto al fatto che la forma sia diversa dal contenuto, quindi mi piace muovermi e cambiare forma.

La città è un dispositivo del presente? In che modo le sue architetture e i suoi spazi incidono su identità e corpi? Senza i pier, la storia di New York e quella della sua comunità LGBTQ+ sarebbe stata diversa e, di conseguenza, anche la storia del mondo come lo conosciamo oggi non sarebbe stata uguale.

Tony Allotta: Il presente in una città-monumento rischia di essere schiacciato dalla storia, anche se in passato ci si faceva meno problemi di rispetto e conservazione, si viveva semplicemente i posti per quello che erano. Il luogo del cruising a Roma era il Monte Caprino, un dirupo con terrazze di verde alle spalle del Campidoglio, luogo dell’amministrazione e della fede della Città, del passato e del presente, in pieno centro storico. Vivo a via Casilina Vecchia da tre anni, la casa che condivido era probabilmente una baracca del dopoguerra, tirata su per trovare riparo sotto gli archi dell’Acquedotto Felice. Oggi quegli archi antichi fungono da cancelli che celano abitazioni di varia fattura, da palazzetti a villini con giardino. Tutto incastonato tra l’antico e le ferrovie. Una Beverly Hills post-industriale. Che meraviglia è oggi quella via, nata da qualcosa che l’odierna politica del decoro non permetterebbe! Mi sembra che chi vive costrettə nella marginalità utilizzi i luoghi della città, d’istinto o forse con un’incoscienza ribelle, in modo creativo e in armonia col paesaggio e in questo modo riscriva la storia della città e del mondo. Anni fa ho visto molte persone non nate a Roma fare il pic-nic di Pasquetta lungo il Tevere, cosa che chi è nato qui non fa più da decenni. Era solo il 1960 quando Pasolini girava una scena di “Accattone” lungo un Tevere vissuto come spiaggia, con i ponti storici utilizzati come trampolini per i tuffi. Nella canzone “Zelletta” Gabriella Ferri ci racconta della perdita della verginità sul Monte dei Cocci, oggi visitabile solo su richiesta e a un massimo di venti persone alla volta. Povera Gabriella, che in conclusione del brano realizza che quello è stato l’amore più pulito! Altre persone si arrampicavano su quel monte, un tempo discarica dell’impero romano, per vedere gratis le partite della Roma al Campo Testaccio. L’Alibi, storico locale della trasgressione degli anni Ottanta, è nato proprio intorno al Monte dei Cocci, insieme a altri club come il Metaverso dove sono hanno preso vista celebri party queer dei primi Duemila. Oggi quel sito fa a gara di morte col vicino Cimitero Acattolico. Il progresso capitalista accelera tutto e si mangia la vita. Ancora oggi mi sembra che chi non è nato in Italia e l’ha scelta per camparci, viva i luoghi della città in modo più naturale e creativo di quanto non facciano i nativi, schiacciati dalle regole del “non ora, non qui”. Quel lungofiume, scelto come location per il pic-nic, mi è sembrato reale e magico per la prima volta. Così come i pier, luogo del mercato e delle merci trasportate dalle navi nel passato di New York, sono stati risignificati dall’esplosione dei culi: non merci, ma armi della lotta alla morale, strumento del potere patriarcale. New York, in quegli anni, da un parte era governata dalle bande, dall’altra portava il proprio corpo nudo tra le rovine collassate del capitalismo. Che sogno! Stare lì per ore, giornate intere a scopare, aspettare di scopare e poi scopare di nuovo, prendere il sole, affrescare muri spaccati, fessure di carne e cemento, socializzare. Comunità che nascevano intorno ai corpi liberi nello spazio urbano. Stava per succedere qualcosa a livello globale: una rivoluzione sdoganata dalla sessualità liberata era troppo per i potenti del mondo, che hanno così cavalcato l’avvento dell’Aids per attuare un genocidio e tentare di spazzare via un’onda ribelle e meravigliosa. Ma è per merito d* survivor di quella catastrofe ancora silentemente in corso, che quella rivoluzione continua nelle città che abitiamo. In questo presente buio, in cui dei bagliori, nei parchi o tra le dune di Capocotta, ancora luccicano.

L'utopia è sempre sessuale? Quando si desidera il futuro (perché il presente non basta), si desidera innanzitutto che sia il proprio corpo a cambiare e a trovarsi in una nuova dimensione?

Giacomo AG: Ho iniziato a desiderare in modo consapevole e intelligibile che il mio corpo cambiasse intorno ai vent’anni, quando ho preso consapevolezza della mia identità trans-mascolina. Ho desiderato un corpo che mi permettesse di essere riconosciutx, desideratx, amatx per come io percepivo me stessx e non per come le altre persone mi definivano. Volevo essere un uomo, un macho, volevo i pettorali scolpiti e il cazzo bello; la barba, la voce profonda e la forza fisica. Desideravo uno stereotipo perfettamente in linea con la società occidentale e ciseteropatriarcale in cui vivo. Più mi avvicinavo a quello stereotipo però, più altre parti di me vi si allontanavano. Le mie consapevolezze identitarie, politiche, artistiche, hanno iniziato a scalpitare alla ricerca di altri orizzonti, immaginari im/possibili, utopie… Non una sola utopia, ma svariate, variabili, mutevoli: tante quante sono i futuri che potrebbero esistere e quelli che non esisteranno mai. Utopie sociali, ambientali, economiche, architettoniche, ecologiche, urbanistiche, contrattuali, relazionali, chimiche, fisiche, geografiche, metafisiche, storiche, politiche, digitali, temporali, linguistiche, analogiche, produttive, sessuali… Ho desiderato che il mio corpo cambiasse per sopravvivere al presente e quando sarò sopravvissutx desidero che sia tutto il resto a cambiare.