Ero sicuro che Jolly Mare fosse pugliese, ma non sapevo assolutamente che avesse vissuto a Milano. Questa cosa mi ha particolarmente spiazzato, pensi di conoscere tutti quelli che gravitano nella tua città invece qualcosa ti sfugge sempre. Frequentavamo pure lo stesso club, il Sottomarino Giallo di via Donatello, e bazzicavamo tra Isola e Navigli. Io ho iniziato a conoscerlo solo nel 2013 grazie alla Red Bull Music Academy che l’ha praticamente lanciato. Insomma visto che dovevo rimediare assolutamente a questa mia défaillances e visto che nel corso degli anni è diventato indubbiamente uno tra i dj e producer italiani più meritevoli, ecco un’intervista dove ci racconta dei suoi studi e delle sue serate milanesi, dei suoi album, delle sue serate in consolle e della sua passione per la musica italiana.
Fabrizio aka Jolly Mare lo potrete ballare sabato 19 maggio per il party di Anna Molly che celebra la musica disco.
Chi sei? Cosa fai? Da dove vieni? Perché sei qui?
Mi chiamo Fabrizio, sono un produttore musicale e dj originario della provincia di Lecce, Novoli precisamente. Sono qui per rispondere alle tue domande.
La prima volta che ci incontrammo scoprii che avevi lasciato la Puglia per stabilirti a Milano, oggi dove ti geolocalizzi?
In un luogo imprecisato dell’Italia, vicino al mare insieme alla mia ragazza e a tanti sintetizzatori.
Ci sono dei luoghi di Milano a cui sei particolarmente legato?
Milano è la mia seconda casa, ho vissuto qui per più di dieci anni tra studio e lavoro, è una città che vive di cambiamenti e trasformazioni. Tra i luoghi del cuore ho la biblioteca Sormani, dove andavo a studiare in vista delle sessioni d’esame, la mia vecchia casa in Alzaia Naviglio Pavese, punto di riferimento per la scena scratch/turntablism milanese e non solo, c’erano quattro consolle montate e sempre pronte, pensa che arrivava gente a tutte le ore anche senza avvisare, era una continua jam session. Poi il vecchio Biko in zona Isola, dove con altri amici suonavo tutti i venerdi solo funk e disco, nel lontano 2008 in cui questa musica non andava certo di moda. Bar preferito direi Cova in via Montenapoleone, perchè lo frequentava Giuseppe Verdi, il ristorante preferito La Sirenella, dove ho mangiato delle prelibatezze di mare degne del Salento, e come club direi il Sottomarino Giallo che però non esiste più. Indimenticabile quel momento in cui alle 3 della mattina il proprietario irrompeva in pista in accappatoio coi capelli bagnati.
Ho scoperto che sei un ingegnere con tanto di dottorato, hai studiato sempre qui a Milano? Come vedi i cambiamenti di Milano da allora a oggi?
Si ho studiato al Politecnico, sono un Ingegnere Meccanico con un Dottorato in Ingegneria dei Sistemi e Dinamica delle Vibrazioni. Ho accantonato l’idea di esercitare la questa professione quasi da subito perché sentivo il bisogno di esprimermi maggiormente al livello artistico.
Alla fine degli anni dieci Milano era molto piu' difficile da vivere di quanto lo sia ora, non c’erano luoghi di aggregazione che non fossero privati e al chiuso, scherzavamo sul fatto che a parte nei parchi in giro per la città non ci fossero panchine, era come se ai piani alti ci fosse l’intenzione di non vedere stazionare nessuno, c’era anche stato un momento in cui alle 8 di sera le Colonne chiudevano al pubblico. Poi per l’Expo le cose sono cambiate, il punto di svolta simbolico l’ho visto nella risistemazione della Darsena, finalmente un posto pubblico da vivere all’aperto. Se ripenso ai tempi del Mom e poi agli sgomberi ed ai cancelli… oggi è molto meglio.
Jolly Mare nei laboratori della Galleria del Vento del Politecnico di Milano
Tra l’altro se non ricordo male ci siamo anche incontrati con Rocco aka Congorock alla festa di Rick Owens, avete mai pensato di fare delle cose insieme?
Rocco è il mio migliore amico, ci confrontiamo costantemente su tutto e anche sulla nostra musica, e chissà…
Il titolo dell’album “Mechanics” deriva dai tuoi studi? L’essere metodico e preciso come un ingegnere ti aiuta nella musica?
Per forza di cose sì. Convivo con una forte componente emotiva che si scontra con una altrettanto agguerrita fazione razionale e spesso la mia musica nasce da questo dibattito interno. La metodicità è alla base del raggiungimento di qualsiasi obiettivo, ma sottrae spontaneità e può ostacolare il processo creativo. Quando compongo cerco di percepire più che pensare, la mente la riaccendo in fase di finalizzazione.
Che poi nell’album il suono è tutto tranne che meccanico o freddo, è solare, caldo, vivo, con molti richiami alla disco. Com’è nato questo album?
È stato il primo lavoro corposo come produttore, in cui ho cercato di condensare il mio gusto e tutti gli ascolti fatti fino a quel momento, ovvero disco, new wave, soul, acid jazz o techno. Non volevo che fosse monotematico nè tanto meno rigido e schematico, perciò nella composizione non mi sono imposto alcun vincolo creativo.
Sappiamo che ti sei cimentato nel suonare molti degli strumenti che si possono sentire nelle diverse tracce dell’album, sei un autodidatta? Come mai questa scelta lontana dal digitale e qual è lo strumento per cui ti senti più portato?
A dodici anni ero l’orgoglio del mio professore di chitarra, mi portava in giro alle jam session per fare bella figura, suonavo prevalentemente latin jazz e bossa nova. Qualche anno dopo ho preso delle lezioni di basso elettrico, nel periodo in cui ero preso dal funk. Ad oggi cerco di suonare un po’ di tutto, anche se non particolarmente bene, compreso il piano. Credo che sia più comunicativa una registrazione imperfetta con uno strumento reale che una scrittura perfetta dello stesso fatta al computer. Il mio strumento principale resta la chitarra elettrica che suono dal vivo insieme alla band.
Quanto ha influito la Red Bull Music Academy sulla tua formazione e sul primo album? Dicci anche il ricordo più bello di questa esperienza.
L’Academy è stata un’esperienza molto forte che mi ha dato la possibilità di entrare, anche se per poco, in contatto con artisti leggendari (quell’anno c’erano Brian Eno, Bernie Worrell, Rakim tra gli altri) e di cercare di comprendere il modo in cui approcciano, concepiscono l’arte e i loro stati d’animo. Ho cominciato a lavorare al disco subito dopo. Tra i ricordi piu belli c’è sicuramente la chiacchierata con Herb Powers, mastering engineer di molte hit suonate al Paradise Garage, di tutti gli album di Sade e di molto altro e la session di registrazione notturna con Thundercat.
Eh è tosta, perché i miei musicisti sono dei veri maestri di musica a differenza mia. La prima cosa che ho messo in chiaro è stata che avevo tutto da imparare da loro, ma al tempo stesso che sapevo bene come doveva suonare la mia musica e gli avrei dato filo da torcere. In certi momenti so di essere stato stressante perché sono un perfezionista, ma i riscontri che abbiamo avuto dal pubblico ci hanno ripagato. Non escludo la possibilità di riprenderlo, per il nuovo disco sarebbe molto interessante.
Il tuo ultimo album “Logica Natura” è legato proprio al concetto di live/jam session e dal titolo sembra un po’ il perfetto follow up di “Mechanics”. Ci parli dell’ultimo lavoro e delle differenze con il primo?
Lo sento come la giusta evoluzione del primo proprio perchè è ancora più libero e svincolato dalle classificazioni di genere. In “Mechanics” nulla è lasciato al caso “Logica Natura” invece nasce da un approccio casuale e istintivo alla composizione: le melodie principali del disco attorno cui sono stati composti gli arrangiamenti sono state generate automaticamente da un sintetizzatore comandato dalla batteria. So che può suonare complicato ma ti assicuro che il risultato e’ musicale e fruibile da chiunque.
E la batteria chi la comandava? E come avete strutturato tutto il resto?
È suonata dal vivo da Alex Semprevivo, mio batterista di fiducia e compagno di musica da una vita, che ha registrato anche sull’album precedente. I ritmi li abbiamo scritti insieme e una volta che avevo in mano lo scheletro del disco ho valutato se arrangiare aggiungendo altri strumenti o meno, in molti casi ho lasciato tutto così com’era, essendo in buona sostanza un album di ritmi.
Quanta natura, naturalezza o naturismo c’è nell’album? Ti affascina la natura? O immagino più semplicemente al fascino, alla spontaneità e alla naturalezza con cui uno si mette a suonare, che sia una consolle o uno strumento è indifferente.
La natura mi affascina ed è una grande fonte di ispirazione, il titolo può riferirsi a entrambe le cose dato che come ti dicevo c’è dentro molta naturalezza e spontaneità che ho cercato di tutelare lasciando dentro anche degli errori di esecuzione, cosa che sul disco precedente non mi sarei mai sognato di fare.
Se avessi voluto registrare l’album in un posto immerso nella natura dove saresti voluto andare?
In qualche posto sperduto vicino ad un fiume o un lago.
2016, Jolly Mare nel deserto della California
Prima di darti alla produzione hai trascorsi come dj. Raccontaci qual è la prima volta che hai visto un dj dietro la consolle e hai pensato “figata! io da grande voglio fare quello!”.
Ero alle medie, ricordo di essere andato a una festa in maschera organizzata in un circolo ricreativo del paese e di essere rimasto tutto il tempo davanti alla consolle del dj, ero come ipnotizzato. La luce rossa con l’effetto stroboscopico sulla ruota del disco, quella gialla che spuntava accanto, il braccio cromato della puntina, il mixer lem con tutte quelle manopole. Rimasi rapito e tornato a casa decisi di mettere da parte i soldi per comprare l’attrezzatura, che riuscii a comprare solo molti anni dopo.
Immagino che in 20 anni dietro la consolle avrai suonato parecchi generi diversi, com’è cambiato e si è evoluto il tuo rapporto con la musica, sia con la consolle che con il dancefloor? C’è un genere musicale che proprio non riusciresti a suonare, non so il reggaeton?
Ho iniziato a quindici anni suonando musica a caso, solo per imparare a mixare, poi l’amore per la house (ai tempi chiamata garage, underground) e poi progressive, disco, funk classico americano, scratch music. Sì ho comprato e suonato veramente di tutto e la produzione è solo l’ultimo capitolo di questo viaggio, relativamente recente. Ovviamente col tempo ho acquisito maggiore sicurezza e capacità di percepire chi mi sta davanti, ma ogni sera è una prima volta. Sì il reggaeton non riuscirei proprio a passarlo, come hai fatto ad indovinare?!?
Fabrizio in dj set nel 199?
E l’amore per la musica italiana, quando è sbocciato? Hai fatto dei lifting a Tullio de Piscopo, Pino Daniele, Lucio Dalla… raccontaci di questa passione e di come hai messo le mani su questi artisti.
L’ho sempre avuto, è qualcosa che culturalmente mi appartiene come per qualunque italiano. Ho iniziato ad editare alcuni brani classici perché volevo inserirli nei set e non avevano la spinta giusta, le parti interessanti non duravano abbastanza o ce n’erano delle altre da eliminare che in serata non avrebbero funzionato. Il fine non è mai stato quello di pubblicare questi lavori, ma solo quello di avere dei dischi speciali, come per il reggae possono essere i dubplates, che chi viene ad ascoltarti sa che solo tu hai. Alcuni poi sono piaciuti tanto cosi li ho condivisi liberamente con chi me li chiedeva, non ho mai voluto stamparli perché è troppo difficile ottenere le autorizzazioni e non è musica che mia, perciò non trovo sia corretto inciderla illegalmente e guadagnarci.
Immagino che collezioni dischi, ma hai mai collezionato altro o cosa ti piacerebbe collezionare?
Ho un carattere incline al collezionismo ossessivo, dopo averlo sperimentato sui dischi mi sono imposto di darmi una calmata. Adesso compro quello che mi serve senza esagerare, negli ultimi tempi attrezzatura musicale vintage nei limiti del possibile dato che e’ molto costosa.
Fabrizio nel suo Oyster Studio
Suonerai alla Notte bianca della disco, quanto è importante questo genere musicale per te e per la tua formazione? Consigliaci tre pezzi che per te sono fondamentali per il genere disco.
Suono musica disco dal 1996, che cosa vuoi che ti dica di più.
Parlando di disco americana ti direi “Love Committee – Just As Long As I Got You” oppure “Loose Joints – Is it All Over My Face”, tra gli italiani sicuramente “Lucio Battisti – Il Veliero”. In nessuno dei miei set pero’ sentirai uno di questi brani perchè sono dei classici troppo conosciuti.
E invece suggeriscici tre nuovi producer che stanno riscrivendo le regole della disco-music.
I primi che mi vengono in mente Moscoman, Lauer e Skatebard.
Il tuo dj set alla Boiler Room in Puglia per Viva Festival è stato davvero bello, ma la cosa che mi ha più fatto divertire è stata la sirena, mi mandava fuori di testa! Ce la riproponi anche al Tempio? Come ti è venuto in mente di fare la sirena? A me ha ricordato le giostre e certe serate all’Hollywood o al Gasoline…
Si certo, se nasce spontanea. Non ricordo esattamente come sia nata, forse per imitare la retromarcia della mia vecchia Renault 14 “Nannannannaaanaana…..” che si e’ evoluta in un grido unico e continuo. Anni fa ero sui Navigli con degli amici, imbottigliati nel traffico del sabato sera, ho tirato fuori la testa dal finestrino ed ho fatto la sirena, le altre auto si sono spostate e ci hanno fatto passare! Bioxs se lo ricorda ancora.
Come vedi Jolly Mare tra 20 anni?
Più o meno come lo vedo adesso, magari in una casa studio in montagna con tanti strumenti musicali in più.
Domanda di rito: progetti per il futuro?
Finalizzare tutti i lavori aperti che ho in archivio e continuare a fare musica che mi rappresenti e senza compromessi.