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Daniela Nicolò (Motus)

Un viaggio nella bellissima storia della compagnia riminese in occasione del progetto speciale dedicato ai loro 25 anni di attività, Hello Stranger (dal 18 ottobre al 31 dicembre)

Written by Lorenza Accardo il 17 October 2016
Aggiornato il 23 January 2017

Foto di Tiziana Tomasulo

Era il 1991 quando Enrico Casagrande e Daniela Nicolò fondarono Motus, una tra le compagnie che più hanno contribuito a trasformare l’immaginario del teatro contemporaneo italiano, e non solo. Con il supporto di Sandra Angelini – vera colonna della compagnia, purtroppo scomparsa da pochi mesi – ormai da 25 anni Motus porta sulle scene il proprio discorso radicale e appassionato, a tratti provocatorio. Un discorso teatrale ma fatto di immagini, suggestioni letterarie e cinematografiche, pezzi musicali, personalità intense, in un processo di testimonianza e trasformazione del presente nel suo complesso districarsi tra dimensione personale e dimensione politica. Dopo numerosi riconoscimenti all’estero, Bologna dedica alla compagnia riminese il progetto speciale, promosso dal Comune ed Emilia Romagna Teatro Fondazione, Hello Stranger: un viaggio nella produzione artistica di Motus con spettacoli, installazioni, film, incontri che a partire da martedì 18 ottobre coinvolgeranno diversi luoghi della città.

Ne abbiamo parlato con Daniela.

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Come vi siete conosciuti?
Sul finire degli anni 80 a Urbino, durante l’occupazione della facoltà di Magistero: io frequentavo Sociologia, Enrico invece Economia, ma era attivo nel movimento. Il collettivo degli studenti e il gruppo teatrale universitario Atarassia, di cui Enrico faceva già parte, organizzarono un workshop con Serena Urbani, Stephan Schulberg e Maria Nora del Living Theatre, e io vi partecipai per pura curiosità…e fu una folgorazione. Da quell’esperienza la nostra vita cambiò, entrai nel gruppo teatrale, poi nacque anche un legame fra noi. Andammo a vivere insieme nel ‘90 e decidemmo di fondare Motus nel ’91.

Chi dei due fa cosa?
Il dialogo e il confronto fra noi è continuo e indistinguibile su tutto, ma fondamentalmente, io, Daniela Nicolò, mi sono sempre occupata della scrittura, della drammaturgia e redazione dei testi di accompagnamento degli spettacoli; Enrico più del ritmo e degli ambienti scenici, anche se poi entrambi “dirigiamo” gli attori. Io di solito sto anche al mixer luci (anche se il disegno luci è sempre comune) ed Enrico al suono, compreso il lavoro di editing ed effettistica sulle colonne sonore che sono determinanti nei nostri spettacoli. È molto difficile individuare confini, del resto tutta la nostra ricerca è sempre andata verso lo smantellamento della figura registica classica e delle gerarchie, anche all’interno delle compagnie teatrali stesse.

Motus nasce nel 1991, a Bologna un periodo di grande vitalità (Isola del Kantiere, Link, TPO – Teatro Polifunzionale Occupato, ecc.) Secondo voi esiste ancora qualcosa di quella Bologna oggi?
È molto difficile per noi rispondere perché allora Bologna era davvero una seconda casa, la frequentavamo assiduamente; il Link era un punto di riferimento indiscutibile, dove abbiamo presentato tanti progetti, ma anche dove siamo entrati a contatto con una cultura musicale, cinematografica e anche letteraria (il bookshop è stato determinante) che in un certo senso ci ha cambiato. Con il Tpo dell’Accademia c’è stato poi un dialogo indelebile, anche sul versante politico. Poi con gli sgomberi, i cambiamenti amministrativi, il coprifuoco imposto da Cofferati abbiamo sempre meno frequentato la città e perso i contatti anche con ciò che c’è tuttora, immagino, in movimento. Ora non abbiamo legami con nuovi spazi (probabilmente è anche una questione generazionale e di banale “invecchiamento”) ma siamo in contatto con le persone di allora che abitano nuovi luoghi con altre modalità, ma non mutata originalità, quindi Raum, Ateliersì, Doom e il nuovo Tpo. Per noi questo progetto bolognese è, quindi, una importante opportunità di entrare in relazione con situazioni a noi sconosciute e soprattutto con una nuova generazione di artisti/studenti. Siamo sempre molto aperti e curiosi e invitiamo tutti a mettersi in contatto con noi e non vivere gli incontri e le presentazioni che faremo in modo scolastico. Siamo cattivi maestri.

motus
Con Sandra Angelini e Damir Todorovic

Motus, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe, il Festival di Santarcangelo, ecc. Cos’è che rende la Romagna un posto così carico di esperienze teatrali fondamentali?
Sicuramente è dovuto al fatto che non esista un vero e proprio centro agglomerante e accentratore: Bologna è un crocevia importante, e per noi lo è stata assolutamente, ma tutte queste esperienze si sono sviluppate nell’isolamento della provincia, in spazi autogestiti o privati, trainati da gruppi testardi e coraggiosi con fortissimi legami interpersonali, il più delle volte anche amorosi… Cellule, che nella loro indipendenza sono però sempre state in connessione: con la Raffaello e le Albe abbiamo avuto sin da subito un intenso dialogo anche rispetto alle modalità organizzative, promozionali e di gestione di software per la musica o il video, ad esempio. Così come con tutti i gruppi della nostra stessa generazione come Fanny e Alexander, Masque e Teatrino Clandestino. Il Festival di Santarcangelo è poi sempre stato spazio catalizzatore di incontro, scambio e confronto critico: ci ha accolti, in tutti questi anni, con vari progetti anche molto arditi. Un festival-isola indipendente dai grandi poteri teatrali, comunque… Sì, di fondo ciò che distingue questa regione penso sia proprio il forte spirito intraprendente e autonomo, io direi anche anarchico ed autarchico. Del resto c’è una forte tradizione anarchica in Romagna e le tracce, fortunatamente, sono indelebili.

Bologna dedica ai Motus il progetto speciale Hello Stranger, in occasione dei 25 anni di attività della compagnia. Due anni fa aveva fatto lo stesso con Romeo Castellucci e lo scorso anno con Virgilio Sieni. Si direbbe quasi un ingresso ufficiale nel pantheon dei grandi della scena contemporanea italiana, che spesso fatica a trovare dei riconoscimenti. Vi sentite istituzionalizzati? E com’è avvenuto il vostro passaggio negli spazi teatrali?
Siamo istituzionalizzati da quando abbiamo ottenuto i finanziamenti ministeriali nel 2000 (l’ultimo gruppo della nostra generazione). Riconoscimento necessario a mettere in regola attori, tecnici e organizzatori che lavorano con noi. Per dieci anni siamo stati nel sommerso. Ma abbiamo sempre lottato con i denti per non farci sussumere dai grandi centri teatrali: le nostre scelte artistiche sono sempre state, e lo sono tuttora, assolutamente libere da pressioni rispetto alla scelta di testi o attori. Al tempo stesso non ci sentiamo istituzionalizzati perché comunque rimaniamo una realtà fortemente indipendente, con un proprio ufficio amministrativo e promozionale, e senza un luogo da gestire e alcuna amministrazione comunale da “accontentare”. Il nostro riconoscimento “ufficiale” è poi avvenuto molto prima all’estero che in Italia, dove siamo stati invitati a grandi Festival e teatri, nei primi Duemila, mentre in Italia non si azzardavano a programmarci. E ancora oggi le nostre produzioni sono principalmente sostenute da centri teatrali europei o d’oltreoceano.

Raf-fiche, dei Motus, omaggio a Spendid’s di Jean Genet sul tema dell’identità e della rivolta. Da martedì 18 ottobre a sabato 22 ottobre all'Hotel Carlton di Bologna
Raf-fiche, lo spettacolo dei Motus omaggio a Spendid’s di Jean Genet sul tema dell’identità e della rivolta. Da martedì 18 ottobre a sabato 22 ottobre all’Hotel Carlton di Bologna

Questo progetto è forse la prima vera nostra grande collaborazione con così tante istituzioni, ed è bello avvenga in una città amica come Bologna.
Da ottobre a dicembre la città sarà percorsa dalla vostra presenza, coinvolgendo spazi e realtà anche molto diverse tra loro: a partire dalle bachece affissive in giro per la città, nella collaborazione con CHEAP, all’Hotel Carlton, Ateliersi, il Lumiere, i Teatri di Vita, l’Arena del Sole e il Teatro Laura Betti di Casalecchio. Siete legati in modo particolare a qualcuno di questi?
In tutti questi teatri abbiamo presentato dei nostri spettacoli, in modo più sporadico e non proprio continuativo, ma con tutti i curatori abbiamo un ottimo dialogo. Con Ateliersì c’è una relazione diversa perché è gestito da una compagnia con cui abbiamo condiviso tantissime esperienze, quindi il legame è davvero personale. Ma questa eterogeneità ci piace, è proprio nella nostra natura tentare sempre di abitare contraddizioni, e mettere in relazione spazi e persone anche molto distanti fra loro.

Sappiamo che l’evento di Capodanno con Xing è saltato. Verrà rimpiazzato da qualcos’altro?
Ci stiamo riflettendo e abbiamo deciso di prenderci un tempo utile per fare una cosa sensata. Siamo molto dispiaciuti perché avevamo immaginato assieme a Xing un formato speciale, site-specific. Ma da poco è giunta la notizia che il luogo simbolico (e tenuto sempre segreto…) su cui avevamo lavorato, non è più disponibile. Ora THISVERYMOMENT (nome dell’evento conclusivo, ndi) deve essere totalmente reinventato. Appena ci saranno nuove troveremo modo per comunicarlo.

Qual è il vostro rapporto con la censura?
Pessimo. Odiamo ogni forma di censura, abbiamo sempre lottato contro e sfidato tutte le regole con il nostro teatro. Vietare è il peggior modo di educare. Siamo appena tornati da Taiwan dove MDLSX  ha avuto una risposta straordinaria dal pubblico: sono venuti anche molti cinesi (di Pechino) che ci hanno detto a malincuore che comunque MDLSX non potrebbe mai essere presentato in Cina, o perlomeno sarebbe sottoposto a pesante censura di scene e testi. È molto doloroso. Abbiamo sfidato le regole a Mosca, rischiando noi e il direttore del teatro, ma fortunatamente i censori non sono arrivati ed è stata una serata catartica anche per il numerosissimo pubblico. Ma oltre alle forme eclatanti di censura, sono le modalità subdole e invisibili che mettiamo in atto tutti i giorni nei nostri comportamenti e nelle relazioni intersessuali da scardinare. C’è tanto lavoro da fare. Abbiamo invitato al ciclo filmico Scintille proprio Carmine Amoroso con il suo ultimo “Porn to be free” per meglio focalizzare questo tema ancora scottante, anche in Italia.

Silvia Calderoni in MDLSX
Silvia Calderoni in MDLSX

Più che coinvolgere attori, i vostri progetti prendono forma dall’incontro con delle persone, quasi degli innamoramenti che avvengono lungo il vostro percorso di ricerca. Come funzionano questi colpi di fulmine?
Sono colpi di fulmine e per questo hanno una componente fortemente irrazionale che è difficile spiegare, ma avvengono, ne sono successi tanti e so che altri ne accadranno. I più sono stati incontri casuali: è stata da poco pubblicata una foto con la nostra amata Sandra Angelini assieme a me e Damir Todorovic (un attore serbo che tanto ha lavorato con noi e che è purtroppo scomparso nel 2014). Per fare un esempio, quella foto risale alla sera in cui ci siamo conosciuti nel 1999, all’inaugurazione del nuovo Teatri di Vita: lui e Vladimir Aleksic, che ancora lavora con noi, avevano fatto spettacolo e al ristorante ci hanno chiesto consiglio su dove andare. Li abbiamo invitati a venire con noi, abbiamo fatto alba al Livello, è nato un legame tale che li abbiamo poi coinvolti della nostra nuova produzione “Visio Gloriosa”, anche se non sapevano una parola di italiano…

Ci sono degli artisti che hanno lavorato con voi e che oggi hanno un proprio percorso autonomo importante?
Molti e ne siamo orgogliosi: primo fra tutti David Zamagni del nucleo fondativo Motus, nei primi 90 , che ora è Zapruderfilmakersgroup e sta facendo una straordinaria ricerca. Come sua sorella Cristina Zamagni che ha fondato una casa di moda a Firenze, con il suo compagno, dal nome BoBoutique. Poi Eva Geatti che, dopo la nostra collaborazione, ha creato “Cosmesi” con Nicola Toffolini. Ma anche Anna de Manincor, Massimo Carozzi e Anna Rispoli che hanno fondato ZimmerFrei proprio mentre lavoravano con noi (…e siamo noi ad avergli suggerito il nome del gruppo!). Dany Greggio continua la sua attività di cantautore, Mario Ponce Enrile è un batterista e cantante affermato in ambito jazzistico a Parigi, Sergio Policicchio dopo il progetto “X. Racconti crudeli della giovinezza” si è iscritto all’Accademia e ora sta facendo mostre e installazioni, oltre a collaborare con Luigi De Angelis. Potrei continuare, ma non vorrei dilungarmi troppo. Siamo con tutti in contatto e sentiamo che ciò che ci lega è qualcosa di speciale.

Eva Geatti a sinistra per il progetto Room, che sarà riproposto all'Atelier Sì dal 20 al 23 ottobre, dalle 18 alle 23
Eva Geatti a sinistra per il progetto Room, che sarà riproposto all’Atelier Sì dal 20 al 23 ottobre, dalle 18 alle 23

Il vostro teatro ha una componente estetica molto forte ed efficace. Da dove nascono le immagini che traducete in scena? Cosa vi ispira al di fuori del teatro?
Tutto, la vita stessa. Per noi non ci sono confini. Anzi forse il teatro in senso stretto è proprio ciò da cui meno attingiamo, figurativamente. Respiriamo, incontriamo, filmiamo, fotografiamo, studiamo tanto. Lasciamo le porte aperte. Poi succede qualcosa di alchemico che trasforma i dati collezionati in immagini sceniche.

L’incontro con lo straniero nei lavori di Motus significa anche l’apertura verso linguaggi e forme espressive diverse da quelle strettamente teatrali. Spesso però le vostre creazioni partono da testi classici o opere letterarie decisamente importanti: l’Antigone, l’Orlando Furioso, La Tempesta di Shakespeare ma anche Jean Genet, Pasolini. Che rapporto c’è tra la vostra scrittura scenica e quella letteraria?
Ci piace sfidare e metterci difronte a delle imprese che apparentemente paiono impossibili. Quando abbiamo deciso di lavorare sull’Orlando Furioso (ce ne aveva parlato con entusiasmo il compianto Antonio Caronia…) quasi ci ridevano in faccia: Motus che fa l’Orlando? Siete pazzi… Poi è uscito quello che è uscito: uno spettacolo dirompente che ha scandalizzato tanta critica tradizionale, ma che ha aperto una breccia fra questi mondi. Lavorare su grandi testi che eravamo “obbligati” a studiare a scuola per vivisezionarli e farne sgorgare scintille di attualità, nonostante la museificazione cui sono spesso costretti, è una attività che ci entusiasma. Ma non abbiamo lavorato solo su classici del teatro: la letteratura contemporanea (e il cinema) è forse il nostro più grande amore e ciò che più ci ha aiutato a destrutturare il linguaggio scenico.

Orlando Furioso - foto di Maurizio Zanirato
Orlando Furioso – foto di Maurizio Zanirato

C’è un autore oggi che vi piace leggere?
Ce ne sono tanti, ma entrambi siamo decisamente legati alla letteratura americana: ho appena comprato l’ultimo di Don DeLillo e non sto nella pelle per leggerlo. Forse lui è davvero, come ha scritto da poco anche Giuseppe Genna, un autore esemplare perché unisce evocatività, lirismo a un forte dire politico. Lo amiamo (assieme a Paul Auster).

I vostri lavori hanno spesso un’estetica molto “metropolitana”, ma sappiamo che voi vivete in campagna: cosa vi affascina e cosa al contrario vi spaventa della dimensione urbana?
Siamo attratti dalle grandi città, anche megalopoli, proprio e probabilmente perché veniamo entrambi da piccoli centri. La città è per noi materia di ricerca sociologica-politica-visiva, ma per elaborare poi abbiamo bisogno dell’isolamento della campagna, incubatore perfetto di visioni alterate.

Dopo 25 anni vi divertite ancora? E qual è la formula per restare fecondi dopo tutti questi anni di lavoro insieme?
Se non ci divertissimo avremmo cambiato lavoro da un pezzo. Con il tempo sono aumentate le responsabilità e le pressioni, anche lo stress. Ma frequentiamo tante persone meravigliose che ci aiutano ad allentare la tensione e con cui davvero ci divertiamo. Non c’è sicuramente una formula per la fecondità. O forse sì, basta non adagiarsi sul già fatto e continuare a ripeterlo per paura di fallire cambiando rotta. Noi abbiamo la grande fortuna che proprio in questi ultimi anni i nostri spettacoli sono invitati in tutto il mondo, quindi viaggiamo continuamente e ogni viaggio, anche se faticoso, è fonte di nuove ispirazioni che però ci spostano di continuo. Insomma non ci annoiamo.

Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

Nomadi come siete, c’è mai stato un incontro con uno straniero che vi ha messo seriamente in difficoltà, che vi ha fatto sentire insicuri e spaventati dall’altro?
Posso giurare che in tutti questi anni non ci siamo mai trovati difronte a una persona che ci ha spaventato, anche quando abbiamo lavorato a Scampia o in Tunisia, o a Rio de Janeiro o nel mezzo di un campo rom. È strano, sappiamo entrare in contatto e gestire le situazioni di tensione dando semplicemente fiducia a chi ci fronteggia. Mi fanno molta più paura i poliziotti in tenuta antisommossa senza numero di riconoscimento.

Dal Teatro Valle alle rivolte in Grecia passando per quelle arabe, fino alla messa in discussione dei generi e delle identità sessuali. Possiamo dire senza imbarazzi che il vostro teatro è decisamente politico. Di quale rivoluzione abbiamo bisogno in Italia?
Una rivoluzione degli animi. Che smantelli questo clima di cattiveria e sospetto forzato – e indotto – verso l’altro, l’”invasore”, lo straniero. O verso il compagno di banco un poco “strano”.

E qual è invece la cosa più distante dall’impegno politico per cui andate matti?
Nuotare in mari puliti, guardare film a letto, scopare, fare uso di droghe, sorridere. Ma forse anche questo – oggi – è politico.