Vi chiedete mai quanto sia reale il mondo che ci circonda?
Quanto sia rimasto di analogico, quanto invece sia delegato all’impalpabilità del virtuale. Senza esprimere giudizi di merito su un mondo o l’altro, sembra chiaro che questo sia il primo momento storico in cui vediamo emergere tutti i limiti e i pericoli di un approccio puramente digitale. Il discorso in fondo è uno: siamo sicuri di poter delegare all’immaterialità virtuale una parte così grande del nostro universo emotivo, creativo, lavorativo, artistico?
Viviamo uno stato di alienazione costante, questo è sicuro. Un po’ come dice quel vecchio luogo comune da boomer: a maggior connessione virtuale corrisponde una maggiore solitudine personale. Tra i risultati più evidenti di questa alienazione c’è stato il progressivo disintegrarsi (assieme a tutti i motivi socio-economici sviscerati qui e qui) dell’abitudine fisica al vivere e supportare l’esistenza gli spazi comuni. Tra questi, ovviamente, club e locali di musica dal vivo.
È su questo corto circuito che si basa la prima uscita discografica di Hyperacustica. “Estensione Mancante” è un lavoro che “raccoglie al suo interno le sonorità e le esperienze vissute dai sei musicisti residenti durante la gestione del club “Al Muretto”. E’ un disco collettivo che segna una riflessione profonda sulle influenze sonore scaturite dalle interazioni tra loro, con gli artisti invitati nei vari eventi e le atmosfere generate in quel luogo di incontro.” Hyperacustica in parte lo abbiamo già raccontato e iniziato a seguire dagli inizi. Un collettivo giovane che ha avuto la curiosa peculiarità (per gli anni ’20) di affacciarsi al mondo con una residenza fisica, in un locale che già non esiste più — Al Muretto, appunto.
Questo perché, come mi ha detto Leonardo Arneis Metz, uno dei fondatori e dei residenti del progetto, loro si sono “sempre mossi senza un confine netto tra il virtuale e il reale”. Non potrebbe essere altrimenti anche per il tipo di musica che è la centro del progetto. Parliamo di elettronica e post-club music contemporanea: completamente sintetica nei suoni, fluida come acqua fresca, dalle strutture apparentemente inesistenti ma in realtà diffuse come un reticolo di cavi e dai suoni cristallini: affilati come pugnali fatti di ghiaccio. Una musica che per definizione è figlia del mondo digitale ed elettronico ma che senza quello fisico perde buona parte della sua ragion d’essere.
Da qui il nome “Estensione Mancante”, un ”concetto che si traduce, sul piano fisico, come perdita e assenza di uno spazio reale, attraversabile e polidirezionale dove le distanze tempo reali sono percorribili, contrariamente a quelle istantanee offerte dallo spazio iperconnesso. È proprio questo azzeramento della percorribilità e la virtualizzazione delle esperienze a rivelarsi come l’estensione mancante”. In altre parole manca una metà importante: quella del fisico appunto, senza la quale tutto è fragile ed evanescente. Lo dicono esplicitamente nel comunicato che accompagna il disco, interrogandosi sul luogo comune secondo cui “la distanza fisica al giorno d’oggi non sia più un ostacolo. Hyperacustica mette in discussione l’idea interiorizzata che tutto sia immediatamente disponibile, rendendo l’estensione mancante il campo dove fare ricerca.”
Una ricerca che si svolge attraverso questi sei brani firmati da Mira Vivian, Dhavv, Leonardo Metz, Telesm, 42 Cent Hotline e Luca Fitzgerald. Effettivamente in ciascuna traccia lo spazio sonico è continuamente composto e decomposto: l’orizzonte non è mai veramente definito, continua a spostarsi da sopra a sotto, da destra a sinistra, da mezzogiorno a mezzanotte. Nelle parole del collettivo, “Homo Dromo” è “una soggettiva dell’utente digitale, che si muove alla velocità della luce rimanendo fermo”, mentre “Ossyum” “si immerge in un’ammirazione senza volto”. Arriviamo quindi ad “Erpice” che “spezza la continuità con frammenti di field recording distorti e ricomposti” e proseguiamo con “Deepfake Koi Pond” dove invece “delicati spruzzi si trasformano in echi metallici e fratturati.” “Saltando tra gli scogli” ci racconta del “legame tra memoria, spazio ed esperienza sensoriale”, per arrivare alla fine con “Assoluzione” che “disgrega e ricompone il suono, annullando la linearità.”
La sensazione finale è piacevole e disturbante allo stesso tempo. Sembra di avere la testa mozzata e immersa in un recipiente pieno di liquido che ci entra ed esce da ogni orifizio. Una fotografia astratta dall’esposizione lunghissima, che genera ombre e distorsioni in ogni angolo. D’altronde annullata la linearità, non rimane che riflettere sulla mancanza di uno spazio definito. Quindi eccoci calati dentro un disco che oltre alla musica si pone domande intelligenti, senza l’arroganza di avere nessuna risposta: qui si indaga il possibile l’indeterminato. Sperando che qualcosa prima o poi inizi a galleggiare.
Che significa per voi Post-Club?
Post-Club è quello che siamo. È un termine che ritorna molto spesso nelle nostre attività. Lo facciamo nostro per quanto riguarda il lato pratico del termine: ci riconosciamo in una realtà che tende a superare il concetto classico di club. Abbiamo sempre cercato di distruggere e ricomporre le sonorità dei generi dance, suonando noi in prima persona, e ospitando artisti in line up eterogenee con l’obiettivo di riportare al centro la ritualità che è sempre appartenuta a questo luogo così particolare. Pensiamo che l’ascolto debba tornare protagonista in un periodo storico in cui le tecnologie e i media ti fanno sentire tutto ma ascoltare niente nel profondo. Nel Post-Club inteso come luogo fisico non ci sono buttafuori, la collettività si autoregola ed è fondamentale la comunicazione con le persone che lo attraversano. Sicuramente il termine viene anche utilizzato, in questo periodo in cui c’è una necessità impellente di etichettare qualsiasi cosa, per categorizzare un determinato genere che “decostruisce” i classici dogmi della musica per il dancefloor. In questa categorizzazione “Estensione Mancante” può essere definito post-club, ma pensiamo che in fondo non sia la definizione adatta. Molte volte ci scherziamo ma poi il termine a cui arriviamo per definire il nostro genere è proprio “Hyperacustica”.
Pensate che il clubbing conservi ancora un valore politico?
La nuova forma di club che portiamo avanti e per cui lottiamo penso sia profondamente politica. Abbiamo sempre cercato di dare voce a progetti e sonorità che si ritrovano ai margini. Quando abbiamo avuto uno spazio, lo abbiamo utilizzato per dare forma ad una proposta culturale che facesse emergere la sperimentazione e l’esplorazione di sonorità che troppe volte si scontrano con il silenzio. Aprire all’ascolto del diverso è il nostro modo per combattere il solipsismo e l’alienazione contemporanea. Poi come raccontavamo prima, il club è un luogo sacro. La cosa importante è quindi renderlo uno spazio libero e di profondo ascolto, di sé e dell’altro: uno spazio dove non è tollerata nessun tipo di discriminazione o molestia, uno spazio in cui ci si può esprimere, sia sul palco che sul dancefloor.
Cosa avete imparato dall’esperienza Al Muretto, nel bene e anche nel male?
Abbiamo imparato che gestire tutti gli aspetti della vita notturna è estremamente difficile. Siamo partiti da zero, senza un piano preciso. C’era però il luogo fisico come punto di forza e in fondo anche un’idea chiara. Da semplici collaboratori siamo diventati amici, abbiamo incontrato artisti incredibili ed è stato bello vedere come il nostro progetto abbia dato una spinta, risuonando in altre realtà e altri spazi. Abbiamo capito che lo spazio te lo devi creare. Non avevamo un luogo dove suonare, così ce lo siamo ritagliato, influenzandoci a vicenda e lasciandoci ispirare dagli artisti ospitati. Questa contaminazione ha tracciato una linea che nel disco proviamo, in piccolo, a raccontare. La cosa però più importante è che per dare vita ad uno spazio del genere serve la forza collettiva.
Cercherete una nuova casa fisica o pensate di adattarvi ad essere itineranti?
L’esperienza da cui proveniamo è già quella di un adattamento, delle sfide e possibilità che abbiamo affrontato nell’accettarla. Ci siamo adattati all’idea di avere uno spazio fisico non adatto strutturalmente, ma situato in un quartiere vivo, cosa che ci ha portato a lavorare molto per renderlo funzionale alle nostre esigenze e farlo suonare bene. D’altro canto a livello concettuale ci siamo sempre mossi senza un confine netto tra il virtuale e il reale, e forse è proprio questa fluidità che ci permette di abitare ogni luogo. In quel momento era necessario convergere in un punto per mettere le basi di ciò che oggi continuiamo a portare avanti, ma in fondo, ci sentiamo più a nostro agio nel restare nomadi.
A quale quartiere (o quartieri) di Roma siete più legati e perchè?
San Lorenzo è stata la nostra casa e con il quartiere abbiamo un legame emotivo molto forte. Anche prima di Hyperacustica alcuni di noi lavoravano nella vita notturna della zona. Con la gestione de il Muretto ci siamo inseriti in un ecosistema già strutturato, provando ad offrire una proposta culturale nuova, di cui sentivamo la mancanza. Dopo la chiusura non lo stiamo più vivendo come prima, almeno collettivamente. In questo periodo le nostre traiettorie ci fanno ritrovare spesso a Garbatella, anche grazie al format mensile che teniamo da L863 negozio di dischi con una selezione incredibile che ci sta permettendo di mantenere i legami, soprattutto umani, con le persone che venivano al locale.