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Marvely

Il fu Akeem of Zamunda: Marvely, la voce pop decollata dal rap e dal rock

quartiere Navigli

Written by Piergiorgio Caserini il 25 May 2021
Aggiornato il 26 May 2021

Foto di Marco P. Valli

L’avrete sentito da tutte le parti, Akeem of Zamunda aka Marvely: un mesh di generi, suggestioni e correnti diverse, dall’hip-hop, al indie-rock, al jazz, al pop, insomma, Marvely da dj è diventato penna e pittore con un percorso musicale molto personale, dove i tanti generi trovano una quadra stilistica. Lo potete incontrare a passeggiare sui Navigli, e lui si ricorderà di sé quando da giovane beccava l’Esa di turno sul Pont de Fer. Ci abbiamo fatto due chiacchiere, sul nuovo progetto, sui Navigli, e pure su San Remo.

Foto di: Isabella Sannlippo
Foto di: Isabella Sannlippo

Già ci avevi concesso una super playlist tempo fa, ma adesso è arrivato il momento di parlare. Ciao Marvely, cominciamo dalle basi: raccontaci un po’ di te, com’è avvenuto l’approccio a Milano, chi è Akeem?

Fin da subito volevo fare musica, e mi chiedevo come fare a trovare una porta d’accesso al sistema. Me lo chiedevo io, che sono cresciuto a Lecco, che da più giovane ero tra quelli che arrivavano a Milano e andavano diretti tra i locali in corso Como, sai, quelli con le creste e le camicie, dove trovi i turisti, gli yuppies. Ho cominciato a frequentare posti come il Plastic o il Rocket, dove bazzica chi lavora nella musica e fa ricerca musicale, a caccia di giovani talenti. Se ci pensi, è da lì che si sono lanciati gli artisti di oggi. Al Magnolia magari assistevi a un concerto di un artista con altre cento persone, ma al tour successivo quello riempiva gli stadi del mondo.

Akeem era un questo progetto che avrebbe dovuto farmi entrare nella musica. Doveva essere una figura che rappresentasse me, la mia storia, i miei simili, qualcosa che fosse il più inclusivo possibile. Ne sentivo l’esigenza. E Akeem era un dj di musica black comprensibile a tutti, fluid prima che fluid entrasse nel gergo comune, ci trovavi dall’indie al metallaro, e tutto questo era implicito, senza specificarlo, senza giocarci attorno.

Intanto lavoravo per il club e parallelamente facevo il direttore creativo. Ho contribuito allo sviluppo della musica trap italiana del 2016, partendo dal 2014. Con quei ritmi non ti rendi conto che gli anni passano, il tempo passa, e alla fine finisce che non stai facendo quello per cui tu hai iniziato a lavorare in quel campo.

Domandona dei ’20 del XXI: com’è fare musica quando non ci sono concerti?

Nel mio caso personale, negli ultimi anni quando facevo il dj e organizzavo la serata al Rocket, mi ero un po’ stufato. Devi sapere poi che mi dicono che ragiono in maniera che per terzi può risultare strana, ovvero: io so che ogni cinque anni devo cambiare. O perlomeno, i miei cinque anni sono una strada che mi porta a un obiettivo. Questo momento di stop è stata la scusa buona per fare quello che volevo fare. Mi sono chiuso in studio, ho ripreso in mano quello che era stato un primo lancio con Rho Fiera e Mollami, e con il mio chitarrista abbiamo lavorato assieme. È diventato il mio coproducer. Abbiamo proposto le produzioni ad artisti firmati in Sony, e mi sono dedicato molto di più alla scrittura, a un sound mio, personale, senza dovermi più interfacciare con lavori di direzione creativa, perché tanto i tour sono fermi, i dischi escono a spot (anche gli artisti più grossi aspettano che si riapra per promuoverli meglio). Vedi Marra: ha fatto il disco della vita, ma pieno di sfiga e pandemia. E quindi cosa fai? Lavori a un disco nuovo e quando riapre tutto hai due dischi da promuovere. Ma per noi emergenti, se posso definirmi così, è una fortuna proprio perché adesso è come un deserto. Con il fatto che la gente è chiusa in casa è molto più facile essere ascoltato quando sei nuovo, proprio perché i “big” escono poco. La musica online, Spotify, Tidal e tutti gli altri, ha avuto un botto facendo uscire nuovi talenti. Tant’è che alcuni sono saliti anche sul palco di San Remo, che è stato un San Remo un po’ Mi Ami, no? Un San Remo che ha fatto meno ascolti rispetto all’anno scorso, ma che è stato più seguito dai giovani, che solitamente se ne sbattevano.

Da Mammoud in poi si è voluto svecchiare questo festival. Che poi diciamocelo: con lui è stato un caso, perché Mammoud è un drago. Ha vinto San Remo giovani, San Remo, ed è arrivato secondo in Eurovision. Unico nel suo genere, ma con un genere che parla a noi, gente dello stream. A mio parere questo è stato un San Remo importante, ha portato in televisione un sound che per i suoi canoni era inconsueto. Aiello, fino a un anno e mezzo fa era considerato un cantante indie di Roma. Random è stato il caso del 2019, quello per cui nessuno si spiegava com’è che questo, dal nulla, con un brano che era Chiasso, era primo in classifica su Ini. E questo era un fenomeno di TikTok. Capisci che tutto quello che è esploso in rete, sta scoppiando adesso in televisione. E chiudo, dicendo che la televisione è più seguita rispetto ai social. Pensa che i vincitori, i Maneskin, hanno fatto 400k followers in più. Perché l’accoppiata televisione-social funziona, ma difficilmente social-televione ha successo. Insomma, credo che bisognerebbe ragionare un po’ meglio anche sul rapporto tra emergenti e televisione, uscire dal matrix dei social e provare… bisognerebbe valorizzare la nuova musica italiana, perché di questo stiamo parlando. Cioè, l’iPhone si aggiorna ogni sei mesi, non capisco perché la nostra musica non abbia le stesse esigenze.

Ti mancano le serate di Akeem, al Rocket, insomma, la notte?

Io sono una persona solitaria, che ha la vocazione di essere di compagnia, ma quando ero nel mondo del club, soprattutto negli ultimi anni, ero operatore del settore e la cosa era piuttosto stressante. Soprattutto per i ritmi di lavoro. Pensa che anche quando andavo a farmi una serata la gente mi fermava per parlarmi di lavoro, a priori del contesto, per dirtene una, capitava pure quando stavo con una tipa. Ecco, non mi manca tanto questo, per niente ti dirò. Io vivo per la musica e amo creare musica, e questa, per ora, è la dimensione giusta.

Raccontaci del tuo nuovo progetto.

È un’evoluzione dei singoli che trovi sul tubo, Rho Fiera e Mollami. Che erano un po’ un mio viaggio, un percorso necessario. Hai presente quando cominci volendo fare le cose più difficili e complicate? Fai del Jazz, e ti dici: cazzo, sto facendo del Jazz, chi è che fa Jazz, eh? Senti qua, la batteria in quarti ma il basso in quinti, fighissimo, sì, ma chi se n’è accorto? Nessuno ovviamente [Ride]. Il nuovo progetto, quindi, visto anche il tempo libero, è molto più pensato, con un sound che non amo definire – sempre per il discorso dell’inclusività. Non è questione di fare l’alternativo che non si vuole etichettare, ma piuttosto perché si tratta di un sound che attinge da un retaggio storico e personale. Venendo da un locale che era indie-rock, ma avendoci suonato in serate che erano trap e hiphop, è un misto tra le due cose. Non so se oggi abbiamo un termine adeguato, anche se c’è chi lo chiama Cloud Rap, Emo Trap (durissimo) [Rido io, ndr], ecco non so se sia l’uno o l’altro, ma so che ha una base tra rock e rap declinata al pop. E ho dedicato molta all’importanza della penna, soprattutto perché, notavo l’anno scorso, tutti seguivano un filone di una moda sessantottina, ma a livello di contenuti niente di tutto quello che correva in quegli anni c’è stato, completamente. E noi viviamo in un momento in cui ci sta succedendo tutto. Noi già abbiamo vissuto il boom delle telecomunicazioni, dell’elettronica, di vivere una second life in rete, e ora abbiamo il Covid, ci siamo accorti che il nostro sistema occidentale è malato, insomma, ci stiamo accorgendo che per anni abbiamo sempre puntato il dito verso altre culture, senza renderci conto di quanto la nostra cultura fosse marcia fino al midollo, perché ha qualcosa come un’omertà di sistema: non dobbiamo sembrare noi peggio degli altri. E in quel momento, io ero stupito che nonostante quella moda sessantottina nessuno si fosse deciso ad affrontare questi temi, dimostrando che si rimane chiusi nei soliti loop, quelli del “non me ne frega un cazzo”, del “la mia tipa mi ha lasciato”, o “fumo canne soldi cash puttane yeah”.

Insomma, paradossalmente, abbiamo bisogno di sapere come immaginare cose diverse.

Secondo me, è il contrario. È più importante smettere di immaginare. Un po’ come quando hai la pillola rossa e la pillola blu, e Morpheus ti dice: con la blu stai qua, con l’immaginazione in cui vivi, che ti appaga, che ti piace; ma con la rossa smetti di immaginare, ti svegli. Nella realtà inizi a pulire e svegliare le persone. Per esempio, un problema con una cultura filmica come quella promossa dagli Avengers, è che tu ti aspetti sempre uno stronzo che arriverà a salvarti. Quando in realtà, se parli di collettività, dobbiamo intendere un ruolo di tutti, come a dire: siamo tutti Avengers. È un pensiero quasi cattolico, quest’attesa di qualcuno, di un giudizio. Ma il giudizio è il gesto che fai ogni giorno. E se tu fai l’ignavo dantesco sei parte malata del sistema. Ti sei immaginato questo, e ne sei parte.

Apro una parentesi sull’anno scorso. Il Black Lives Matter, in cui anche io ho creduto tanto, andando in piazza, come tutti, pensando che da lì in poi sarebbe stato ogni giorno così. E ovviamente è andata al contrario. Per esempio, il mese scorso in Nigeria sono scomparse 300 ragazze, e nessuno ne ha parlato, perché parliamo solo di principi che cavalcano il momento. Questo mi ha deluso, della ricezione del Black Lives Matter, perché penso che se ci si vuole prendere una responsabilità bisogna prendersela per tutti. Altrimenti è l’errore di sempre: ci si interessa solo del proprio giardino. Insomma, se vuoi lottare per tutti i black, che siano tutti i black. Pensa, una volta mi chiesero cinque artisti neri italiani pop che spaccano. Ora, tu dimmene due. Grossi. Non Ghali. Ecco, e l’Italia è Occidente, ma siamo peggio che altri. Nessuno si interessa. Per dirti, io ho sono cresciuto qua da quando avevo un anno e ancora non ho la cittadinanza italiana.

È incredibile, ma è la realtà. E ce ne sono mille di questioni così. Se io oggi entro in una Major a lavorare come produttore, la gente che mi vede in studio crede che io sia il motivatore. Non riconoscono il ruolo di una figura black che parla bene l’italiano, non è americana, ed è una figura decisionale. È tutto assurdo ma è reale. Quello che mi chiedo di questi movimenti sui social è la reale efficacia. Ho sempre creduto che la miglior critica sia il buon esempio, e io voglio fare quello che faccio anche perché se in futuro qualcuno mi chiederà ancora di artisti neri italiani che spaccano potrò dirgli: c’è Marvely.

Mi pare giusto, e andrà sicuramente così. Sui Navigli, invece, tu che li hai vissuti in tutte le salse, da ragazzo, da professionista e da Marvely, che ci dici?

Io devo tanto ai Navigli. Quando ero più piccolo non era così figo, negli anni Novanta, al di là che al posto della Darsena c’era un conglomerato di sabbia ed erbacce. Negli anni la forza di questo quartiere è stata quella di avere sempre delle forti correnti suburbane che hanno influenzato quello che è stato il modo di vivere dei giovani alternativi. Prima ancora di Isola, sui Navigli c’era Armani, Marithé et François Girbaud, c’era Margiela, insomma, era un luogo dove c’era la ricerca suburbana dello stile. E io devo molto a questo posto, soprattutto lì ho saputo apprezzare molto di più il voler osare, ricercare uno stile, o anche semplicemente passare le sere a battere le mani in Colonne, per dire.

Andavo al Rocket, alle Scimmie, era un po’ quella dimensione da MTV Brand New che cercavo. Ti capitava di camminare per strada e incontrare il cantante delle Vibrazioni, o Esa, ed era quella cosa che ti sembrava di andare a Los Angeles, dove ti trovi in un quartiere dove per strada incontri tutti quelli che hai da sempre visto in televisione.

E pensi sia ancora così?

Non lo so perché agli occhi degli altri sono diventato una specie di Esa! Per me ora camminare per strada e beccare Esa o Sfera è normale, perciò non saprei darti la stessa risposta. Ma mi accordo che a parte Tucidide, tutti i giovani creativi tendono a venire qui sui Navigli, dove c’è Via Malaga, che è Tucidide 1.0. Qui succedevano cose, stringevi contatti, ti tiravano in mezzo per set fotografici, insomma, c’era il giro. La forza dei Navigli, che non è una forza che hanno tutte le città, è che ti danno delle chance. Da qui puoi davvero diventare internazionale, sembra che se stai qui hai una sorta di “verificato blu” che ti inquadra, di caratterizza. Per dire, in Darsena puoi vedere Virgil Abloh camminare sul Pont de Ferr e nessuno gli rompe il cazzo. È tutto normale anche se in fondo non lo è. In questa città che parla le lingue del business e dell’arte, i Navigli hanno un fascino tutto loro, è il flow di questi rivers dei Navigli, che senti parlare durante un qualunque l’aperitivo.