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Miniera racconta Roma Nuda

La fine del 2020 ha visto nascere uno dei progetti curatoriali più interessanti degli ultimi anni: un mix di media e ispirazioni in cui l'arte contemporanea e la musica Made in Rome si mostrano come facce di una stessa, vitale medaglia. Ne abbiamo parlato con i due ideatori, Giuseppe Armogida e Marco Folco

Written by Chiara Colli & Nicola Gerundino il 18 February 2021
Aggiornato il 22 February 2021

Foto di Giorgio Benni

Place of residence

Roma

Attività

Curatore

Roma t’inganna. Si contraddice, si nasconde, si stratifica. «L’eterna e infinita essenza di Roma si può intravvedere solamente nell’oscurità delle sue ombre». Roma è un “superorganismo sotterraneo”, un “fuori scena”, un cortocircuito perenne, un “club sandwich” (per dirla con Giacinto Scelsi), un brulicare profondo e senza un vero epicentro che tiene in vita gloria e conflitti, un “negativo occulto” pronto a esplodere. C’è un impianto filosofico e teorico, ma anche una ricerca empirica copiosa in “Roma Nuda“, espressione a più livelli di una città che abbiamo imparato a leggere all’inverso (già in “Remoria” di Valerio Mattioli), a denudare rispettandone i frammenti così contraddittori eppure riconoscibili. Roma Nuda è un progetto curatoriale in divenire, uno “spazio installativo” (difficile chiamarla esposizione) che ha preso forma tra dicembre 2020 e gennaio 2021, accompagnato da un alter ego editoriale visivo e letterario (un libro e un dvd), sfruttando a proprio favore i mesi silenti e nudi della pandemia per svelare la città dal punto di vista di numerosi artisti contemporanei, nelle loro parole e nei loro scatti. Una mappa dell’esperienza artistica cittadina degli ultimi anni che tocca generazioni diverse, figlia di un progetto ancora più esteso che incrocia arte, suono e spazio. Il progetto/idea/contenitore si chiama Miniera ed è l’incontro tra due percorsi e figure diverse ma complementari della città, Giuseppe Armogida e Marco Folco. Uno sguardo al presente e una prospettiva futura, che ci siamo fatti raccontare nella lunga intervista che segue.

 



Prima di parlare di Roma Nuda partiamo dal progetto madre, Miniera. Cos’è, come, quando e perché è nato?

Miniera è prima di tutto un’idea. Un’idea nata casualmente durante una chiacchierata pre-pandemia e generata da un’insoddisfazione comune: la mancanza di una “formula” che non solo riuscisse a tenere insieme arte e musica, ma che, soprattutto, legasse l’esperienza visiva e sonora alla densità materiale e immateriale che connota i luoghi della fruizione, i quali sono sempre storicamente stratificati, carichi di segni, di significati, di presenze.

La genesi di Roma Nuda invece è strettamente legata al lockdown, come anche esplicitato nella prefazione del volume. La domanda è se questo progetto fosse già sparso in qualche vostro pensiero anche prima che arrivasse il Covid-19.

Credevamo che affinché l’idea di Miniera potesse concretizzarsi e prendere corpo, ci fosse bisogno della “giusta” circostanza. E il tempo opportuno, l’occasione, è stato quello della quarantena. L’idea di Roma Nuda è nata per gioco – quindi, senza alcun fine o scopo determinato – e con la stessa velocità con cui è nata Miniera. Avevamo già in mente di lavorare su Roma, di fare alcuni interventi nella città, ma non di scrivere un libro sull’arte a Roma nel 2020. E però, di fronte alle immagini – che tutti ricorderanno – di Roma deserta, spopolata, abbiamo pensato che solo gli artisti fossero in grado di “narrare” la città. L’arte continua a essere la forma più sofisticata e adeguata per “saggiare” e processare l’esperienza umana in tutte le sue sfaccettature e a mettere in questione, non a rappresentare, la realtà circostante.

Andiamo nei dettagli e raccontateci in cosa consiste questo progetto. Partiamo dalla sua dimensione editoriale: un volume, un dvd e un poster. Cosa c’è dentro ognuno di essi?

Il libro, il cui progetto grafico è stato curato da Giandomenico Carpentieri, raccoglie una serie di conversazioni avvenute tra marzo e maggio con alcuni tra gli artisti più interessanti della scena romana attuale, di cui si è cercato di ricostruire la storia, le ossessioni e le opere. È una mappa dell’esperienza artistica cittadina degli ultimi anni, che tocca tutte le generazioni, con tutte le contraddizioni e i conflitti che appartengono alla trama più profonda ed essenziale di Roma. Una ricognizione provvisoria però, dato che per sua natura la mappa non coincide con il territorio, ma ne è solamente una rappresentazione approssimativa. Per il momento abbiamo pubblicato un primo volume, dato che l’unica regola del gioco che ci siamo imposti – per evitare di proseguire all’infinito, o almeno fino al collasso fisico – prevedeva che la fine del lavoro sarebbe andata a coincidere con l’inizio della “Fase 2”. Ne stiamo però già progettando un secondo, perché molti degli artisti che avremmo voluto includere in questo libro per cause di forza maggiore sono rimasti fuori. Il dvd allegato al libro contiene invece un montaggio – realizzato da Lorenzo Ciciani – di brevi video inviati dagli artisti intervistati, con una soundtrack fatta esclusivamente di brani di artisti romani. E, dato che nel libro non abbiamo voluto inserire alcun elemento visivo, per costringere il lettore a “formarsi” personalmente un’immagine delle opere descritte e delle mostre, abbiamo deciso di stampare anche un poster 70 x 100 cm con una selezione delle opere degli artisti intervistati.

In occasione dell’uscita del progetto avete realizzato anche un’esibizione, chiamiamola così per comodità anche se sarebbe più giusto definirla un “ambiente installativo”, dentro SPAZIOMENSA. Com'è nata la collaborazione con questa nuova realtà del contemporaneo romano?

Sì, si è trattata di un’ambientazione, di un set, che abbiamo voluto creare appositamente insieme a SPAZIOMENSA e con il patrocinio della Fondazione Isabella Scelsi per presentare Roma Nuda. In realtà Giuseppe fa attivamente parte di SPAZIOMENSA che, sebbene sia un artist-run space e quindi includa principalmente artisti (Sebastiano Bottaro, Dario Carratta, Marco Eusepi, Alessandro Giannì e Andrea Polichetti), si compone anche di due – per così dire – teorici: Gaia Bobò, una curatrice, e per l’appunto Giuseppe. Essendo uno spazio poroso, di sperimentazione, ma soprattutto di condivisione, abbiamo pensato fosse il luogo ideale per mettere in scena Roma Nuda.

L'esibizione è terminata a fine gennaio, ce la potete comunque raccontare?

L’installazione si strutturava a partire da una scritta realizzata su teli di plastica ultraleggeri da un ex writer della scena graffitara romana. Si trattava di una frase di Giacinto Scelsi, che in qualche modo richiama l’operazione da noi condotta nel libro: «Così ho riscoperto Roma; l’ho ritrovata – ché infatti non l’avevo mai conosciuta, questa Roma che irriverentemente paragono a un club sandwich, quelli fatti di varie cose in strati sovrapposti». Una visione fulminante di un compositore di culto nel panorama della musica contemporanea, vissuto a Roma sino alla fine degli anni Ottanta e amico di Jean Cocteau, Virginia Woolf, Tristan Tzara, Henri Michaux, John Cage, tanto per citarne alcuni. Ma la cosa per noi interessante è che, con la compagna Frances McCann, Scelsi diede vita alla “Rome-New York Art Foundation”, una galleria sull’Isola Tiberina che, dal 1959 al 1961, divenne un punto d’incontro delle avanguardie artistiche internazionali. Nello spazio sonorizzato da una traccia degli Heroin in Tahiti – immancabili, dato che hanno prodotto due concept album su Roma! – dentro il quale il visitatore navigava tentando di decifrare la scritta labirintica e discontinua, erano disseminati alcuni “interventi” visivi: un’eco sonora di Khalab (alias Raffaele Costantino) incisa sul muro; un video di Panoram, in cui un occhio erra tra i vari livelli della realtà in cerca di dettagli frammentari; una foto stupenda di Mario Schifano, scattata a Roma nel 1989 da Antonio Carmelo Erotico e recentemente stampata, per la prima volta, da Union Editions; “Roman Variations”, un film epico di Michel Auder – un pioniere del cinema sperimentale, amico, fra gli altri, di Andy Warhol e di Jonas Mekas – sulla magnificenza, il caos e la decadenza di Roma, girato nel 1991 durante la sua residenza di un anno nella capitale italiana.

A monte di Roma Nuda, e della sua “espressione” concreta nel volume e nel dvd, sembra esserci un orizzonte filosofico che unisce i vari aspetti del progetto. Volendo individuare una chiave di lettura sintetica, qual è l’“implicazione” di Roma Nuda?

Potremmo sintetizzarla così: Roma esibisce costantemente la sua nudità soltanto per poterla poi meglio nascondere. È questo il “gioco” e il disegno segreto di Roma, che ne garantisce la sua sopravvivenza e gloria e che va colto nella sua contraddizione. L’eterna e infinita “essenza” di Roma si può intravvedere solamente nell’oscurità delle sue ombre. Perciò occorre tenere fisso lo sguardo sul suo buio. Perché ogni tentativo che miri a portare definitivamente alla luce la “sostanza” della città – il suo corpo etereo, e perciò infinitamente agile, fluido e duttile, adatto a conferire forma a cose molto dissimili fra loro ma sovrapposte, a svelare una volta per sempre il suo carattere complesso e paradossale – è destinato a fallire.

Il titolo “Roma Nuda” ci porta alla mente un pezzo celebre di Franco Califano, contenuto in “Tutto il resto è noia”. Vista un po’ la cura e l’attenzione ai dettagli del progetto, sembra difficile che la scelta sia stata casuale. C’è qualche richiamo?

Domanda più che lecita, che effettivamente ci è stata posta da tante persone. Diciamo che trovare il nome giusto per un “prodotto” è sempre una missione complicata. E noi eravamo alla ricerca di un titolo che contenesse in sé molteplici sfumature, ma che soprattutto esprimesse chiaramente il nostro “gesto”: quello di spogliare, di denudare la città, di toglierle ogni tipo di schema di lettura, e raccontarla da completi estranei a qualsiasi sistema tradizionale, sia artistico sia lavorativo, semplicemente da “amanti”. Perciò Roma Nuda può essere letto come un omaggio a un eretico solitario come Califano, al “Prevért di Trastevere” e al suo vagare randagio per la città. Ma rinvia anche a The Naked City, una mappa turistica di Parigi “ri-editata” alla fine degli anni ’50 da Guy Debord, il quale, tagliando i quartieri e collegandoli in modo casuale, ridefiniva in maniera creativa gli spazi urbani.

 

Roma Nuda, poster (fronte)
Roma Nuda, poster (retro)

Marco, prima del progetto Miniera, in tempi relativamente recenti sei stato una delle anime di Ascolti, giovane realtà/format che negli ultimi tempi (finché si poteva...) ha realizzato live estremamente curati e orientati alla ricerca sia nella scelta degli artisti che delle location. Che tipo di esperienza è stata, quale era la sua vocazione, e cosa hai imparato da quel percorso che poi magari è finito dentro Miniera?

Ascolti è ed è stato per me un percorso fondamentale per un nuovo punto di vista che racchiude una fusione tra musica, amicizia, produzione e intrattenimento… Un progetto puro e molto ambizioso, dettato dalla continua ricerca e dalla voglia di intraprendere sempre la strada meno facile, ma più “sentita”. Per la prima volta mi sono trovato a osservare le cose da un nuovo punto di vista, che non fosse quello del semplice consumatore, ma del produttore. Credo che sia stata proprio questa la forza di un progetto come Ascolti. In quanto “collettivo”, volevamo che i primi clienti fossimo noi e perciò abbiamo speso una particolare attenzione nella cura dei dettagli. Volevamo dire che in una città come Roma, trapiantata tra le mura, c’era una visione contemporanea o comunque diversa di concepire la parola “concerto”. Sarei quindi ipocrita a dire che Miniera non derivi da Ascolti, ma allo stesso tempo non credo nemmeno che sia un upgrade. Se per certi versi è possibile trovare delle similarità, Miniera è una realtà diversa, con competenze, linguaggi e ramificazioni estranee a quelle di Ascolti.

Un aspetto di rilievo nel progetto in progress di Miniera, che c'era anche in Ascolti, è il rapporto tra suono e spazio, l’interazione dei corpi attraverso la musica in uno spazio. Questo orientamento che chiaramente fa proprio un discorso tipico dell’arte e soprattutto della ricerca contemporanea, in che modo ha a che fare - amplifica - la fruizione/esperienza musicale e, d’altra parte, in senso più ampio, in che modo è strettamente legato con certe peculiarità di Roma? E in che modo, lo spazio, è una variabile che modifica/condiziona l’esperienza dell’ascolto?

Mi sono sempre interrogato sul valore del parametro “spazio” nella musica; mi affascina molto e credo sia una componente fondamentale per il suono. Viviamo in una società sempre più orientata visivamente, in cui l’aspetto visivo gioca un ruolo predominante, e questo nostro tratto culturale è ancora più enfatizzato nell’era digitale in cui ci troviamo. Si tende a trascurare quanto di significativo l’udito ci consenta di conoscere della realtà che ci circonda, in particolare dei luoghi, degli spazi e dei territori. Roma genera di continuo spazi dedicati ai “rumori”; basti pensare alle chiese, ai mercati, alle piazze, fino ad arrivare ai luoghi deputati alla fruizione della musica, come teatri, auditorium e sale concerti dove, però, la modalità di ascolto con il pubblico seduto di fronte a un palcoscenico, che funge da scatola sonora in cui sono collocati i musicisti, è stata largamente prevalente e ha, di fatto, quasi annullato la dimensione spaziale dell’ascolto. Negli ultimi anni, invece, l’effetto stereofonico degli impianti di riproduzione domestica è stato un tentativo per rimediare alla mancanza di profondità del suono.

L’arte contemporanea è la chiave di tutte le conversazioni riportate nel volume “scritto”. Oltre alle esperienze personali di ogni singolo artista, per cui ci sono ogni volta domande specifiche e diverse, avete chiesto più o meno a tutti della scena artistica romana. C’è chi dice che c’è un buon fermento; chi, la maggior parte, denuncia un sistema immobile, frenato e frammentato per i motivi più disparati: ignoranza, scarsa curiosità, scarso impegno istituzionale, settarismo, farragini politiche. Che idea vi siete fatti?

Che entrambe le diagnosi sono corrette. Da una parte, nel sistema tradizionale dell’arte – e non solamente di quello romano – si sono create delle fratture. Fratture che non sono recenti, ma che negli ultimi anni si sono certamente approfondite e che sono il risultato dell’incapacità, da parte del macchinoso sistema dell’arte, di veicolare le sottili e complesse dinamiche del mondo contemporaneo, fortemente accelerato, in cui gli artisti vivono. Dall’altra, è innegabile che in questo momento a Roma c’è un grande fermento artistico che, di fronte a un grande vuoto, sta cercando di darsi da fare, di rimettersi in movimento, di seguire delle direzioni, di tracciare delle traiettorie, riprendendo e declinando in maniera originale modalità di lavoro, di organizzazione e di esposizione che erano state abbandonate negli anni passati, o addirittura inventando nuove forme e nuovi intrecci relazionali. È una specie di schiuma che ha imparato a vivere con una diversità di prospettive cangiante e a formare giochi razionali discreti e polivalenti, in cui le diverse pratiche artistiche dialogano e si confrontano al di là delle divisioni disciplinari.

Giuseppe, per chi legge Roma Nuda l’impressione è che Roma sia iper-prolifica: si citano decine e decine di mostre, lavori, luoghi espositivi della natura più diversa. E sono coinvolti 60 artisti "based" o comunque legati alla città, e tanti altri avrebbero potuto essere coinvolti.

Ed è così. Per molto tempo si è parlato di una Roma stanca, in crisi, in lacrime. Ma, intervistando tutti questi artisti, ho scoperto un sottosuolo davvero brulicante, che serve a proteggere ricordi e messaggi preziosi, a produrre informazioni, metafore e visioni, e a eliminare scorie, traumi, veleni e segreti. Una sorta di superorganismo sotterraneo che gode di ottima salute e che potrebbe sbucare all’aria aperta da un momento all’altro, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare. Bisogna solo aspettare che, come nella “Divina invasione” di Philip K. Dick, una voce misteriosa nella notte annunci: «Il tempo che attendevate è giunto, l’opera è completa, il mondo definitivo è qui; egli è stato trapiantato ed è vivo». Sarà che recentemente ho riletto “Remoria” di Valerio Mattioli e “Underland” di Robert Macfarlane, ma credo davvero che la Roma a cielo aperto abbia sotto di sé un’altra Roma, con le sue vie, i suoi vicoli ciechi, le sue arterie e la sua circolazione, una specie di negativo occulto, che preme per tornare in superficie.

Ancora Giuseppe: il nocciolo della questione è proprio il termine scena. Una risposta arguta riportata nel volume dice che siamo legati a un’idea romantica di scena, quella di un gruppo di “ragazze e ragazzi terribili”, affiatati, sempre assieme nelle gallerie come nei bar, accomunati da una visione affine dell’arte. Un qualcosa che abbiamo avuto negli anni ’60 con il gruppo di Piazza del Popolo e negli anni ’80 con quello di San Lorenzo, ma che nel 2020 è un concetto fuori tempo massimo.

Non credo sia un concetto desueto. O almeno personalmente non ho problemi a parlare di scena. Penso a quel frammento sublime di Democrito: «La vita è un palcoscenico. Entri in scena, guardi, e te ne vai». Ecco, per me la scena è ciò che in un certo momento e in un certo spazio viene alla luce, si manifesta, è visibile, e di cui cerco di indagare e ricostruire le risonanze e le filiazioni. Ma la scena inevitabilmente rinvia a un fuori campo, a quelle “voci dietro la scena” che a malapena riusciamo ad afferrare, ma che tuttavia sono perfettamente presenti. È fin troppo noto che non percepiamo mai un’immagine nella sua interezza, ma solamente quel che abbiamo interesse a percepire, in ragione dei nostri interessi, delle nostre convinzioni ideologiche, delle nostre esigenze psicologiche. Ma in certi istanti può apparire l’immagine intera, nel proprio eccesso d’orrore o di bellezza, nel proprio carattere radicale o ingiustificabile…

Marco, ti sei occupato in particolare della selezione delle musiche che accompagnano le “visioni” fornite dai vari artisti coinvolti nel progetto Roma Nuda, sia per il dvd sia per l’“ambiente installativo” a SPAZIOMENSA. Quali sono i musicisti coinvolti e secondo quali criteri o suggestioni hai selezionato queste musiche? Non sembrano comparire artiste donne, magari potrebbe essere uno spunto per qualche lavoro futuro?

Ho cercato di coinvolgere un ventaglio molto ampio di nomi, eclettico e occasionalmente non classificabile, senza generi musicali prestabiliti. L’unica cosa che accumuna gli artisti presenti nel dvd è ancora una volta Roma. Le prime tracce che ho selezionato sono state “nuove uscite” o comunque “unreleased” chieste a compositori, musicisti o dj che stimo di più sul territorio. Se devo essere sincero, credo che la traccia che mi ha colpito di più e che ha dato il via al progetto è stata “Part I” di Giovanni di Domenico. Ho acquistato “Isasolo!”, uscito per Canti Magnetici, in piena pandemia e ho trovato subito un legame forte con il momento riflessivo e l’eleganza delle prime righe buttate giù da Giuseppe. Quel brano componeva quel margine estetico di unificazione tra arte e musica. Non compaiono donne, è vero, ma solamente perché inizialmente avevamo programmato tutta una serie di performance di sole artiste donne – da realizzare all’interno di SPAZIOMENSA e che facesse da controcanto al dvd e all’ambiente installativo – alle quali, però, in corso d’opera, abbiamo dovuto rinunciare per rispettare le misure imposte dal Dpcm del 3 dicembre.

Tra le realtà coinvolte - e in questo caso su più fronti – c’è anche Union Editions, giovane progetto editoriale ultra indipendente ideato da Giandomenico Carpentieri, che include sia aspetti più puramente editoriali/grafici sia musicali come etichetta discografica. All’interno di Roma Nuda, Giandomenico ha curato il progetto grafico e come Union Editions pubblicherà a febbraio il disco legato al contributo artistico fornito da Panoram. Come è nata questa collaborazione e che tipo di unione di vedute avete? In cosa consiste il contributo di Panoram?

Quando penso a un’estetica o a un’identità grafica legata a Roma, il primo nome che mi viene in mente è quello di Giandomenico! Il suo tratto o “timbro” è inconfondibile; qualsiasi persona, anche del tutto estranea al circuito della grafica o dell’arte, guardando i suoi lavori riesce a percepire la sua sensibilità e il suo linguaggio unico. La cosa che più mi colpisce di Giandomenico è la sua capacità di “sintesi”: riesce a far arrivare in modo chiaro e definito cosa vuole fare e il modo in cui lo vuole fare. Perciò sono contento di avere stretto con lui un legame profondo e sincero: ci scambiamo in continuazione musica e idee. Stimo molto il lavoro che sta facendo con Union Editions, perché riesce a progettare e a pubblicare prodotti sempre interessanti e singolari, come appunto l’ultimo disco di Panoram, altra figura chiave per Roma Nuda. Nei confronti del nostro progetto, Raffaele/Panoram ha sempre avuto un atteggiamento inclusivo e disponibile, inviandoci in anteprima “Pianosequenza Vol. 1”, di cui alcune tracce compaiono nel dvd allegato al libro, ed un suo video stupendo, che abbiamo inserito nell’installazione a SPAZIOMENSA.

 

Ancora una domanda per Giuseppe. In questi anni hai viaggiato in Roma in lungo e in largo tra gallerie, musei e fondazioni. Che idea ti sei fatto della città in generale e del suo volto relativo all’arte contemporanea? Cosa c’è, cosa non c’è, cosa potrebbe esserci?

Roma è il luogo per eccellenza delle sovrapposizioni conflittuali, degli assemblaggi contraddittori. E spesso risulta impossibile trovare un punto di equilibrio tra i diversi, addirittura incompatibili, flussi che la attraversano e riuscire a governare la continua interazione tra tutte le variabili della città, che si articolano, si moltiplicano e producono un’interazione reciproca. Roma, perciò, è una città di cui non puoi che lamentarti, per tutta una serie di motivi, ma che, al contempo, sa guardarti con occhi languidi e attrarti irresistibilmente fino a farti innamorare. E il mondo dell’arte contemporanea romano riproduce questa dinamica: il suo essere irriducibilmente policefalo e, dunque, caratterizzato da una continua competizione tra i suoi diversi elementi per l’affermarsi di ciascuno come il vero interprete e rappresentante della legge immanente al sistema, è spesso la causa dell’emergere di veri e propri miracoli.

Sempre in relazione al binomio arte contemporanea-città, nel tuo peregrinare hai notato differenze “geografiche”? Ci sono zone o quartieri più prolifici? Una divisione tra zone espositive e zone di creative/di produzione? C’è un centro imbalsamato di contro a una “periferia” più in ebollizione o il quadro è più complesso e ibrido?

Decisamente ibrido e complesso. Centro e periferia, pur essendo ancora elementi autonomi, continuamente “cortocircuitano”, incrementandosi a vicenda. Potremmo dire che la struttura di Roma è una struttura bi-logica e bi-direzionale. Ragionare in termini di zone e quartieri non ha più molto senso. Penso, ad esempio, al dialogo proficuo che si sta intessendo tra alcune realtà gestite da artisti, che si configurano come luoghi di ricerca e di sperimentazione e che, in questo momento di sospensione e di provvisorietà, sono state molto attive, contribuendo a dare linfa vitale alla scena culturale cittadina. Alcune di esse si trovano in aree centrali della città (Castro a Trastevere, Numero Cromatico e Ombrelloni a San Lorenzo), altre, invece, in aree per nulla centrali (Post-Ex a Centocelle, Spazio in Situ a Tor Bella Monaca e SPAZIOMENSA in Via Salaria). Non sono dei collettivi, ma delle collettività: oggi più che mai gli artisti hanno bisogno di ritrovarsi dopo un isolamento forzato, ma anche dopo un isolamento professionale. C’è una volontà di vicinanza, di progettualità comune e di condivisione. Si tratta, però, di collettività in cui il concetto di differenza è fondamentale e non può essere in nessun caso cancellata. Eliminando le differenze, si rischierebbe di rendere organiche queste collettività, di categorizzarle, di classificarle, di determinarle in modo insufficiente rispetto a ciò che realmente sono, e quindi di snaturarle completamente.

Una mostra e un artista che hai visto a Roma in questi anni e che ti ha veramente colpito?

La magnifica mostra di Jim Dine, che Daniela Lancioni ha curato al Palazzo delle Esposizioni. Mi rendo conto che la risposta è un po’ furba, ma in questo caso consentimi di rimanere super partes e perciò di non nominare artisti italiani né tantomeno romani!

Marco, Miniera ci viene presentato con questo primo progetto composito ma non sembra limitarsi all’aspetto espositivo/performativo, piuttosto sembra includere una parte editoriale che a quanto pare non si esaurirà con questo volume e dvd. Ci sono già dei progetti futuri in cantiere in tal senso o delle aree artistiche/socio/culturali che vorreste indagare?

Stiamo lavorando su diversi progetti, “interventi” ed eventi da realizzare a Roma, ma anche al di fuori di Roma, non appena la situazione lo permetterà. Sicuramente siamo ancora molto legati alla materialità dell’“oggetto fisico”, sia esso un libro, un vinile o un multiplo d’artista, prodotto in tiratura limitata. Su questo aspetto, ci piacerebbe anche confrontarci e collaborare con diverse realtà editoriali e musicali che stimiamo. Per quanto riguarda le prossime uscite, possiamo anticipare due nomi: John Giorno e Joseph Shabason, senza però svelare ulteriori dettagli! E poi è già in cantiere il secondo capitolo di Roma Nuda e tante altre novità… In generale, ci piace sperimentare sempre nuove idee, in campo artistico, musicale, visivo e linguistico, e indagare aree e temi sempre diversi.