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Niccolò Fano

La galleria Matèria compie quattro anni: abbiamo fatto quattro chiacchiere in questa intervista con il suo fondatore, viaggiando da Londra a San Lorenzo.

Written by Nicola Gerundino il 3 April 2019

Date of birth

5 September 1985 (39 anni)

Place of birth

Roma

Place of residence

Roma

Attività

Gallerista

In un periodo storico certamente non facile per l’Italia in generale e per Roma in particolare – stritolata sempre più dal dualismo con Milano – ogni segnale di risveglio in città deve essere colto e coltivato. E quello dato da Niccolò Fano è da considerare tra i più potenti: dopo sette anni di studio e lavoro a Londra, un bel giorno del 2013 è tornato qui per aprire la sua galleria e, dopo due anni, l’ha fatto in un quartiere che da tempo è nell’occhio del ciclone: San Lorenzo. Il lavoro fatto è stato egregio, tant’è che per la sua galleria non si deve più parlare di promessa, ma di realtà affermata. In questa intervista il racconto dei primi quattro anni di Matèria.

Installation view, Giulia Marchi – “Rokovoko”.

 

Già quattro anni di Matèria: sono volati in fretta?

Quattro anni, eterni e velocissimi allo stesso tempo. Spesso provo la stessa sensazione di quando la mattina ci si riaddormenta per un paio di minuti in più e ci si risveglia magicamente due ore dopo.

Quando e perché hai scelto di aprire una galleria? Lavoravi già nel settore?

La scelta è maturata dopo un lungo percorso che mi ha principalmente aiutato a capire cosa non volevo fare. I primi passi in questo settore li ho mossi in Inghilterra, dove ho trascorso sette anni subito dopo il liceo. Lì ho conseguito un BA in fotografia alla University for the Creative Arts, nel dipartimento di Fine Art Photography fondato da Keith Arnatt e diretto da Anna Fox. Ho continuato il percorso accademico con un Master in Fine Arts (alla Central Saint Martins) e una borsa di studio per un MBA in Creative Ventures alla London Business School. Parallelamente agli studi ho avuto la fortuna di lavorare come assistente alla Kate MacGarry Gallery a Vyner Street e ho iniziato il mio percorso di insegnamento come visiting lecturer al Sotheby’s Institute of Art e alla University for the Creative Arts. Durante il master ho iniziato a lavorare come project manager per Karen Knorr, un’artista con cui ho continuato a collaborare per quattro anni facendo un po’ di tutto, dall’organizzazione dello studio/archivio alla programmazione delle mostre, fino alla gestione dei rapporti con le sue gallerie in tutto il mondo. Da Karen ho imparato tutto: se ho deciso di aprire una galleria è in gran parte grazie a lei.

Dopo Londra cos'è successo?

Sono tornato a Roma nel 2013 con l’intenzione di aprire il prima possibile, ma non è stato così perché la maggior parte degli spazi che trovavo richiedevano lavori strutturali al di sopra del mio budget. Dopo quasi due anni di ricerche mi sono imbattuto nella serranda della Bloo Gallery a San Lorenzo. Aveva appena chiuso e il proprietario affittava lo spazio, l’ho contattato e un mese dopo avevo in mano le chiavi. Per fortuna le cose da fare a livello strutturale erano poche e ho potuto usare il budget che mi era rimasto per le prime mostre.

Ti ricordi la prima?

Certo! Il progetto si intitolava “On Landscape”. In mostra avevamo Dafna Talmor, Emma Wieslander, Minna Kantonen e Marco Strappato. Per l’occasione abbiamo presentato una selezione di oltre 100 libri d’artista, frutto di un open call internazionale sulle declinazioni artistiche del paesaggio. Proprio in occasione dell’open call ho avuto la fortuna di scoprire il lavoro di una giovanissima artista cinese, Xiaoyi Chen, che tuttora rappresento.

Sensazioni dopo quel primo opening?

Purtroppo non sono un grande fan dei miei opening, è uno degli aspetti che amo di meno. In quel caso sollievo: andata la prima… Tutto sommato anche bene.

Ci sono state delle gallerie alle quali ti sei ispirato?

Più che a singole realtà, mi sono ispirato ai modelli che ritengo sani e costruttivi per il sistema. Esempi come Kate MacGarry a Londra e Paula Cooper a New York (50 anni di attività nel 2018), entrambe gallerie che hanno tracciato per molti il modello di “galleria nucleo”, dalla forte identità indipendente e caratterizzata dal gruppo di artisti che ne fanno parte.

Cos'è per te una galleria d'arte?

La galleria può essere tante cose, a seconda di come viene interpretato il lavoro che si porta avanti con gli artisti. Dipende tutto dalle priorità e dalle intenzioni di chi la dirige. Il modello che ho adottato richiede una visione a lungo termine, strutturata sulla base della creazione di un gruppo di artisti (principalmente giovani) con i quali lavorare a un progetto comune. Io ho scelto di mettere al centro il loro supporto economico e progettuale: un modello generalmente controproducente per il gallerista nel breve termine, perché richiede la copertura dei costi di produzione per fiere, trasporti, mostre ed eventi esterni. È un modello che richiede molta pazienza e la volontà di lavorare un passo alla volta in funzione di una crescita, un miglioramento graduale del sistema, del proprio territorio e della figura dell’artista. In quest’ottica l’obiettivo non è unico, bensì si tratta di avere un insieme di traguardi, spesso poco tangibili. Nel caso di un modello come il mio, dove tutto il budget della galleria è supportato dalle vendite e dai lavori paralleli (principalmente come insegnante), il successo economico ha una connotazione positiva se viene inteso come linfa vitale; una voce esclusivamente dedicata al reinvestimento per continuare a crescere, evitando di scendere ai compromessi che troppo spesso siamo costretti a scegliere. Il modello nasce anche dalla necessità di rimettere in discussione l’idea “liquida” di galleria, tornando a un progetto caratterizzato da fondamenta solide e intenti chiari – in veste pubblica, ma anche nel privato con i propri artisti, collezionisti e collaboratori. Tuttora si sperimenta con modelli alternativi, dalla galleria senza sede fisica alla galleria ibrida dove si fa un po’ tutto e niente. Da amante della tecnologia e del progresso, esaminando l’evoluzione del sistema purtroppo mi sono reso conto che la foga di adottare nuovi approcci ha solo indebolito un settore già in balia di regole poco chiare, rapporti poco limpidi e dove la meritocrazia molto spesso viene surclassata dal potere di acquisto. La galleria è una casa, la cui funzione primaria si compie dietro le quinte, al di fuori delle serate di apertura.

Come ti sei imbattuto negli artisti che sono entrati nella tua "casa"?

Giulia Marchi è stata la prima a fidarsi di me e ho avuto la fortuna di conoscerla al momento giusto, su suggerimento di un artista, nonché amico comune. La scelta nei confronti di un artista o dell’altro, partendo da una base solida di lavoro, molto spesso è legata alle qualità umane e matura nel tempo. Avendo la possibilità di supportare solo un numero ristretto di artisti, il fattore con cui mi confronto è legato al prospetto di una collaborazione longeva e una visione futura che richiede una condivisione d’intenti. Le motivazioni e il rapporto umano, pertanto, diventano fondamentali. Molto spesso sono i miei stessi artisti a indirizzarmi verso nuovi profili e mi confronto sempre con loro in previsione di una scelta finale.

Preferisci lavorare con artisti italiani o stranieri?

Non ho una preferenza, ma riconosco il valore aggiunto del potermi confrontare, spesso di persona, con i miei artisti italiani. Per loro il grande vantaggio è la possibilità di un dialogo continuo con lo spazio della galleria, da cui traggono beneficio nel progettare le personali. Parlo in particolar modo di Marta Mancini, Stefano Canto e Fabio Barile, che sono a Roma.

Da Matèria ci sono solo quattro mostre l'anno: prassi comune a tutte le gallerie o è una scelta ben precisa?

Quattro è uno standard che abbiamo adottato recentemente e che porteremo avanti almeno fino alla fine del 2020. Parlo al plurale perché mi sembra doveroso citare Rossana Esposito, gallery manager e cuore pulsante di Matèria. Dopo i primi anni di posizionamento, caratterizzati da un’attività molta fitta e volta a farci conoscere, abbiamo deciso di strutturare il programma annuale sulla base di quattro mostre, puntando a migliorare la qualità della proposta, avvantaggiando gli artisti con un budget più consistente e con mostre di lunga durata. La scelta viene anche dettata da un programma fieristico che richiede molti sforzi, specialmente se si prende in considerazione l’incremento dell’impegno economico quando si comincia a salire di livello.

La maggior parte delle mostre che ospitate sono con lavori site specific: cosa ha di particolare il tuo spazio e come si relazionano a esso gli artisti?

È uno spazio che propone sempre nuove sfide. Le due sale sono molto diverse tra loro, separate da un cortile a cielo aperto. L’approccio site specific è principalmente dettato dal lungo periodo di preparazione e progettazione espositiva che pianifico con artisti e curatori, ai quali cerco di dare carta bianca e un budget adeguato. Negli anni abbiamo visto la galleria cambiare volto, spaziando dal minimalismo del white cube allo stravolgimento complessivo delle proporzioni, delle dimensioni e dell’impatto visivo.

Matèria si trova a San Lorenzo, un quartiere che ultimamente non se la sta passando bene, qual è la vostra impressione? Cos'è cambiato negli ultimi mesi?

Esiste San Lorenzo in televisione e San Lorenzo di chi ci vive e arricchisce il quartiere. San Lorenzo ha la qualità di essere estremamente camaleontico, offrendo qualcosa a tutti, nel bene e nel male.

Se ti dessero carta bianca, cosa ti piacerebbe farci?

Probabilmente farei una mostra da Pommidoro, ristorante storico a Piazza dei Sanniti e luogo di confronto per numerose generazioni di artisti. La storia di Pommidoro è scritta sui muri, dove ci sono le opere e le tracce della scuola di San Lorenzo, tra cui quelle di Nunzio e Gianni Dessì, e che, insieme a molte altre, fanno da cornice alle cene e ai pranzi di tanti giovani che tuttora lavorano nel quartiere.

Mai pensato di cambiare sede o di aprirne una seconda, magari in un'altra città?

Ci penso spesso. È sicuramente un passo che spero di fare in futuro, ma non ho ancora trovato il posto giusto.

Di Roma che ne pensi? Che città è al momento?

Credo di parlare a nome di tanti nel dire che il rapporto con la città è di amore e odio. Allo stesso tempo, dire che la realtà per le gallerie non sia delle migliori sarebbe un eufemismo. Ho scelto di aprire a Roma perché credo sia la capitale europea con i margini di miglioramento più ampi, se si prende in considerazione l’allure internazionale che esercita e la scarsità dell’offerta contemporanea. Il lavoro sul territorio è molto importante, ma va inevitabilmente affiancato da una visione proiettata sull’estero per far fronte ai limiti evidenti di un mercato difficile, ristretto e fossilizzato.

Che città sarà in futuro?

Quella che tutti sappiamo di avere davanti, ma che non riusciamo mai a toccare con mano.

Tornando alle attività di Matèria, il prossimo aprile ci sarà una nuova mostra.

Abbiamo scelto di celebrare il nostro quarto compleanno con “Present Tense”, una doppia personale di Tom Lovelace e Sarah Howe: rappresenta un ritorno alle origini che riallaccia un legame formale con il Regno Unito e con un gruppo di artisti di cui ho seguito il percorso durante i miei sette anni oltremanica. La mostra apre un nuovo capitolo volto a rafforzare l’identità della galleria e gli aspetti che ne hanno caratterizzato la crescita nel corso degli anni. Ci prepariamo a rafforzare l’accento sulla progettualità e sulla sperimentazione. “Present Tense” esplora il tema del rapporto universale dell’individuo con i media e la tecnologia, fungendo da apripista per un programma maggiormente attento alle intersezioni tra ricerca artistica e contemporaneità. A questo focus verrà affiancato un lavoro di ricerca sul territorio italiano, amplificato dall’impegno che continueremo a porre sul gruppo dei nostri artisti, rafforzatosi con l’arrivo di un pioniere come Mario Cresci.

Puoi dare già qualche anticipazione sulle altre mostre del 2019?

A giugno ospiteremo un’installazione molto ambiziosa, progettata e realizzata per la galleria dal brasiliano Andrè Mendes.

Matèria ha molto a cuore la fotografia, un media un po' "anzianotto".

Anzianotto non direi, anzi, lo definirei tra i più giovani e i più complicati da analizzare in chiave contemporanea. Il mezzo fotografico è stato il focus del mio percorso accademico, il mio primo amore ed è il linguaggio artistico che conosco meglio. Questo medium ha rappresentato un trampolino di lancio per poi aprire il programma ad artisti molto distanti dalla fotografia, gettando le basi per la creazione di un gruppo diversificato in termini di produzione e ricerca.

Nelle gallerie di Roma la fotografia trova poco spazio, ti sei mai chiesto perché?

Non credo sia un problema di Roma, il trend è molto simile un po’ in tutto il mondo. La fotografia sarà sempre caratterizzata dal vantaggio della riproducibilità, che spesso in termini di mercato si traduce in connotazione negativa. È il mezzo più democratico e accessibile che abbiamo, forse anche per questo non si allinea facilmente a quelli tradizionalmente associati alla produzione artistica. La galleria instaura un rapporto basato sulla fiducia con i propri collezionisti, per questo motivo lavoriamo sempre di più con edizioni molto basse o addirittura con immagini in copia unica: il lavoro anti-fotografico di Giuseppe De Mattia ne è l’esempio perfetto.

Sempre legato alla fotografica c'è un altro progetto che vede Matèria protagonista: Latent. Di cosa si tratta?

Latent è un open call che nasce dall’incontro e dalla collaborazione con Door (con sede al Pigneto), destinata alla scoperta e alla promozione di lavori caratterizzati da progettualità, originalità e innovazione. Ogni due anni apriamo il programma della galleria per ospitare la mostra degli artisti selezionati e aggiudichiamo a un vincitore finale una residenza a Roma, volta alla creazione di un progetto artistico sulla città.

Tra le tante mostre che hai ospitato in questi primi quattro anni ce n'è una a cui sei più legato?

Domanda difficile alla quale non so rispondere, sarebbe come chiedere ad un padre se ha un figlio preferito.

Hai già in programma i festeggiamenti per i 5 anni nel 2020?

Ho un’idea molto ambiziosa che spero di riuscire a portare a termine, ma è ancora troppo presto per parlarne.

E per i dieci anni, cosa farai?

Arriviamo ai cinque, poi ci pensiamo!

Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2019-04-16