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Strasse

Alla Triennale con Drive_In #Barona

Written by Mario Macchitella il 16 June 2017

Place of residence

Milano

Attività

Artista

Mi danno appuntamento per l’intervista all’una e mezza, sotto il sole cocente, al baracchino dei panini di fronte alla Triennale: le due Strasse, Sara Leghissa e Francesca De Isabella, mi attendono seminascoste da un ombrellone…fatico qualche minuto prima di trovarle. Così, in questa ricerca, mi sento già dentro uno dei loro spettacoli, quelli in cui lo spettatore viene convocato in un luogo misterioso e condotto da solo all’interno di una vera e propria esperienza urbana, dove è difficile distinguere tra reality e fiction. Una ricetta che ha colpito anche palati teatrali molto fini, tra tutti penso al critico Renato Palazzi che ha scritto di loro, e bene. Iniziamo a parlare e poco dopo un signore accanto a noi inciampa: invece di aiutarlo, mi viene il dubbio che sia un figurante e lo guardo con una punta di sospetto o di complicità… il meccanismo delle Strasse mi ha già contagiato!

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Come descrivereste il vostro approccio al Teatro e in particolare a questo spettacolo, Drive_In #Barona?
Sara: quello che ci interessa più di tutto è la relazione con lo spettatore, fargli sviluppare uno sguardo diverso e nuovo sul mondo che ci circonda, e per far questo usiamo alcuni espedienti e dispositivi per stimolare l’attenzione, in questo caso l’automobile, per creare un’esperienza mai uguale a se stessa, in cui realtà e finzione si confondono. Ci piace lavorare nello spazio pubblico, urbano, e questo dà luogo a molte “interferenze” che modificano la visione, ben al di là di una struttura drammaturgica che invece rimane fissa.
Francesca: Drive_In deve molto al mondo del cinema e nasce come video, una sorta di camera-car, ma diventa ben presto Teatro perché gli eventi occorrono in tempo reale e in tempo reale li fruisce lo spettatore.

Il Teatro solitamente è un luogo dove il pubblico costituisce una comunità che incontra gli artisti. Perché voi invece avete scelto la strada del One to One?
Francesca: è stato il mezzo che abbiamo scelto a condizionarci, è stata una necessità che però abbiamo scoperto rispondere in modo forte a un’esigenza di incontro con chi viene a vivere lo spettacolo. Siamo comunque noi a proporre il contenuto, lo spettatore resta in qualche modo passivo (diversamente da quello che accade per esempio in un social network o in un videogioco, ndr), eppure per me che guido la macchina il suo feedback emozionale influenza empaticamente il mio modo di gestire lo spazio e l’azione. Sento il suo sguardo che si attiva. Inizialmente c’erano anche delle reazioni piuttosto forti, di ansia o di paura, ma questo mi ha permesso di accoglierle e risolverle. In generale però c’è grande apertura da parte del pubblico, senza differenze sociali e culturali, e anche molta attenzione: lo spettatore è continuamente alla ricerca del confine tra reale e copione teatrale.
Sara: durante il viaggio iniziano man mano a comparire delle presenze ricorrenti che permettono allo spettatore di iniziare a porsi domande e cercare di ricostruire il meccanismo. Io sono una di queste presenze.

Ricorre nelle vostre parole il tema della “soglia di attenzione” da alzare. Non pensate che in tempi, per esempio, di realtà aumentata o di allarme terrorismo tale soglia sia già molto alta in tutti noi?
Francesca: per me lo spunto è stato più che altro quello di imparare a selezionare tra le mille informazioni, soprattutto pubblicitarie, da cui veniamo investiti ogni giorno camminando per la città o prendendo la metropolitana. Ognuno reagisce a questi impulsi a modo proprio, ma riappropriarsi della capacità di guardare è molto importante.
Sara: noi invitiamo proprio a guardare in modo più laterale, rivalutando cose apparentemente marginali anche rispetto al linguaggio predominante del terrore. Occorre un compromesso tra chi invita a guardare e chi è disposto a farlo. Per noi la tecnologia, che usiamo negli spettacoli in modo semplice e accessibile, ad esempio il cellulare o l’automobile appunto, serve solo a ritornare più fortemente ancorati al piano della realtà. Ci interessa creare un’esperienza che lo spettatore può portarsi a casa e in qualche modo replicare anche da solo, guardandosi attorno nella sua vita quotidiana.

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È mai successo qualcosa di imprevisto?
Sara: sì perché questo spettacolo si svolge in uno spazio pubblico, e viene ripetuto molte volte. Quindi è capitato che vedere i movimenti e le presenze di noi figuranti secondo orari e modalità fissi abbiano generato sospetti da parte di chi non sapeva dello spettacolo, una sorta di terzo occhio rispetto a attore e pubblico. Molte volte sono arrivate le forze dell’ordine: per esempio a Cagliari sono stata caricata da una volante che non voleva credere al fatto che stessi partecipando, da sola e per strada, a uno spettacolo teatrale. Quella volta abbiamo dovuto rimborsare il biglietto anche se lo spettatore in realtà aveva assistito a una variante molto “interessante” del nostro spettacolo…

Com’è il vostro sguardo sulla Città? Com’è la Milano di oggi per voi?
Sara: a noi piace la Milano attiva, di pensiero, più che quella fashion. Guardo con attenzione alla trasformazioni urbanistiche che la stanno cambiando, ma anche alla riduzione degli spazi realmente accessibili per la condivisione al di fuori di una dimensione ordinaria.
Francesca: ci interessano molto le zone periferiche, ci piace far vedere queste zone a chi difficilmente ci andrà senza delle precise motivazioni personali. Le zone su cui difficilmente si investe in termini economici e culturali, a tutto vantaggio di altre più centrali o diventate “cool”, come Isola. Ma per noi è proprio al di fuori di quelle zone che si fanno le scoperte più interessanti dal punto di vista umano. Frequentiamo luoghi occupati come Cox18 o Macao, dove non sentiamo la pressione che avvertiamo altrove…
Sara: o la Martesana, la Balera dell’Ortica… luoghi dove ci si incontra senza dovere per forza apparire. Anche nella scelta dei luoghi della cultura, per me ciò che conta è l’artista che posso venire conoscere più che l’istituzione che lo propone. Ad esempio al Teatro dell’Arte in Triennale ci siamo avvicinate grazie all’esperienza del festival Uovo, quindi per me “comanda” la suggestione datami, più che dal contesto, dalle persone che lo fanno vivere.

Macao

Quali sono stati i vostri modelli artistici e culturali?
Francesca: sono sempre stata fissata col cinema di Wim Wenders, un cinema vicino al documentario, che ti avvicina direttamente al reale. L’arte contemporanea mi colpisce per l’uso inconsueto dello spazio, anche museale, che però viene scardinato e trasformato in modo diverso dall’ordinario. E poi la musica, in particolare l’elettronica mi ispira molto, sia come ascolto che nel suonarla.
Sara: da ragazzina ero affascinata dal modo in cui i i writers si muovono nello spazio pubblico, poi è stata per me fondamentale l’esperienza di comunità, umana oltre che teatrale, con il Gruppo Valdoca (li ricordiamo impegnati in un coraggioso e splendido Caino per la regia di Cesare Ronconi, al Palazzo del Ghiaccio, qualche anno fa…, ndr). Mi piace il mondo dei Festival, anche quelli di danza, il dialogo con i coreografi. Due estati fa a Vienna ho partecipato come unica italiana a un master in cui un centinaio di giovani artisti condividevano tra loro gratuitamente le buone pratiche del mestiere. Una cosa impensabile nel nostro Paese, che a me piacerebbe importare, senza una finalità produttiva diretta, ma solo per migliorare, sperimentare, ricercare…