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The Cool Couple

Quando l’arte contemporanea incontra davvero le contingenze del presente

quartiere NoLo

Written by Piergiorgio Caserini il 20 April 2021
Aggiornato il 19 April 2021

Può essere che se c’eravate vi siete fatti male al polso. Può essere. Prendere a mazzate una colonna di cemento scarica voi e scarica sul polso. Parliamo di come i The Cool Couple, che sono Niccolò Benetton e Simone Santilli, siano capaci di farvi meditare negli spazi espositivi, di sgretolare colonne a mazzate e giocare a fifa con squadre d’artisti, proponendovi abbonamenti premium per accedere a tutti i benefici di un’opera d’arte. È un po’ l’arte che riflette sull’arte ma anche, e soprattutto, l’arte sulle contingenze. Eccoli qua.

Turborage (2017)
Way Out (2018)

Per prima cosa, la pensavo da un po’, ci raccontate la storia del vostro nome?

Niccolò: Io e Simone abbiamo cominciato a lavorare assieme alla fine del 2012 e all’inizio pensavamo di aprire uno studio di comunicazione parallelamente alla ricerca artistica. E cercavamo un nome, un brand. All’inizio abbiamo pensato di usare i nostri nomi, un acronimo, o Benetton-Santilli… poi puoi ben immaginare cosa trovi se googli Benetton e inoltre suona un po’ come uno studio di dentisti associati. La prima cosa fondamentale da dire era che eravamo in due. E quindi couple. Ovviamente giochiamo con l’ambiguità del termine inglese… molti infatti ci chiedono se non siamo una coppia nella vita. Pensando a un aggettivo che potesse definire il nostro approccio abbiamo scelto cool. Che è il nostro “figo”, che dici in giro per le mostre. Dirselo da soli poi è già uno statement. Pure l’acronimo suona bene, TCC.

Simone: Il cool era anche quello di cui ci occupavamo, da sempre. Mentre studiavamo al master di fotografia, scoppiava la primavera araba. Era il 2011, noi studiavamo Walker Evans e in Egitto si cambiava la storia di un paese con gli smartphone. E noi volevamo occuparci di quello, che significa anche sporcarsi le mani con delle cose fondamentalmente idiote. Pensa, tra i primissimi lavori ce n’è uno sulle scie chimiche, oppure sulla barba e sulla chirurgia estetica. In quegli anni molti guardavano ai temi poetici dell’arte e noi ci occupavamo delle contingenze. Insomma il cool era a suo modo programmatico. Ed era una scelta abbastanza intransigente, che ha pagato ma anche inciso su quello che abbiamo fatto.

L’ironia posta come criterio, come modo di affrontare la ricerca e la resa dell’opera, oppure è l’ironia delle cose che vi coglie ogni volta?

Simone: Se si cerca una risposta più profonda l’ironia è la presa di coscienza dell’ambiente in cui lavori. Noi abbiamo fatto un certo tipo di arte ponendo delle domande, delle questioni abbastanza pressanti. Ma parliamoci chiaro. Buona parte degli artisti producono beni di lusso, e la maggior parte degli interlocutori a cui sono destinati sono esattamente quelli che rappresentano il sistema preso di mira da molte opere. Significa essere consapevoli di quello che stai facendo. Anche laddove il progetto è molto serio, come Way Out, c’è sempre poi una nota rispetto all’approccio più ironico… in quel caso era processo, che recentemente abbiamo raccontato per esteso su ATP.

Anche Turborage rientra in quest’approccio?

Simone: Sì, anche Turborage. Il punto di partenza era una fiaba di Gianni Rodari, Il palazzo da rompere, in cui racconta – molto avanti rispetto ai tempi – una storia che prefigura le anger room. Il lavoro era nato all’interno di un contesto ampio, quando eravamo in Sudafrica ospiti di un’istituzione per l’arte che è un parco di sculture. Raccontammo a loro l’idea e gli piacque. Lì ha visto la sua prima apparizione, e devo dire che avevamo qualche dubbio che un lavoro del genere potesse trovare terreno fertile in un paese dilaniato da conflitti interni, dove la violenza è all’ordine del giorno. E invece a un certo punto abbiamo dovuto fermare il pubblico perché aveva praticamente sventrato una colonna. Tutti, bambini e adulti. Da lì abbiamo capito che funzionava, ed è andata a Venezia, Bergamo e infine a NoLo. Ci piaceva che riflettesse su alcuni temi, ad esempio la gestione della violenza nella nostra società e il suo rapporto con la visibilità. Allo stesso tempo ti libera, c’era già lì quello che in Emozioni Mondiali è diventato più forte, l’idea di rompere quella meccanica della mostra dove c’è compostezza, etichette.

Attivate meccanismi di partecipazione attiva vs gli atteggiamenti ormai piuttosto normati del pubblico dell’arte?

Simone: Esatto, come ricorda spesso Nico la cosa più bella sull’arte l’ha detta il direttore di OOF, una rivista di calcio e arte inglese: «quello che fa il calcio e che l’arte non è mai riuscita a fare è radunare ogni settimana decine di migliaia di persone in uno stesso luogo per fargli vivere un’emozione profonda». Mi sono ritrovato a pensarci quando ci fu la famosa lite tra Ibrahimović e Lukaku. Tutti erano scandalizzati, ma in fondo: di cosa si stupisce la gente? Questa cosa è normale. Il calcio è il teatro più grande che probabilmente abbiamo oggi, ed è catartico come il teatro antico. Quello è il conflitto tra due eroi, noi lo viviamo e veramente viene fuori quello che uno ha dentro. E poi torniamo alle nostre vite normali. L’arte spesso questa cosa non riesce a farla, anzi sembra che ti neutralizzi.
Il tentativo che abbiamo fatto in questi ultimi anni è stato sperimentare questa cosa più volte, scardinare un po’ il luogo comune dello spazio espositivo e quel set comportamentale che ti rende prevenuto su tutto.
Ed era anche un modo per capire dove potevamo andare, che è una domanda abbastanza pressante. Specialmente dopo quanto successo l’anno scorso. Siamo l’unico settore delle arti in generale che non è riuscito a rinnovarsi o a rispondere in maniera adeguata. L’unica cosa che si è fatto è andare online su Instagram a fare grandi dirette, grandi mostre e ciao. Che ci terrei a ricordare che esistevano già, cinque anni fa si chiamavano take over. E nel frattempo i collettivi alle biennali di architettura facevano le dirette su Twitch con i green screen.

Arriviamo in chiusa, cosa ci dite di questo quartiere?

Niccolò: Allora, la prima volta che sono venuto a Milano presi su Airbnb una stanza qui a NoLo, in via Venini. Ho pensato che qui non ci avrei mai voluto vivere. Ma nemmeno per sbaglio. Questo dieci anni fa, quando era un’altra cosa. Ora mi piace parecchio, ed è sicuramente un quartiere che vive ancora molte contraddizioni. Spesso si parla del fenomeno di evidente gentrificazione che il quartiere sta vivendo, ma la verità è che le città ed i suoi quartieri sono sempre in costante mutazione e spesso, purtroppo, a scapito delle classi meno abbienti. Personalmente trovo contraddittorio parlare di gentrificazione sempre e comunque con un’accezione negativa se assistiamo a fenomeni come il recente “assalto” al Rondò. È la cosa su cui mi scaglio più spesso. Da posti reputati “troppo inflazionati”, “fighetti”, la gente si è riversata al Rondò, “più underground”. E lì non ci andava nessuno, c’erano solo i vecchietti che si facevano i cazzi loro, giocavano a carte e bevevano uno spritz. Tu immaginali giocare a scopa con un djset nella piazzetta. Insomma, io non voglio dire che quella roba non si deve fare perché, come dicevo, fa parte della mutazione che il quartiere sta vivendo, ma che dobbiamo pensare a come si parla di gentrificazione e sostenibilità, facendo magari più attenzione. Bisogna prendere coscienza che un quartiere ha probabilmente un suo equilibrio prima che arrivino gli alieni, noi, e che introdurre delle abitudini completamente diverse ha sempre delle conseguenze.