L’altro giorno mi domandavo: bisogna cercare di democratizzare la cultura, rendendola accessibile a più persone possibili – per esempio come fa il doppiaggio per i film stranieri – o c’è il rischio di “mediasettizzarla”, impoverirla, banalizzarla? A questo ripenso scrivendo di Nanni Balestrini e del Gruppo ’63 che contribuì a fondare.
Fautore di una letteratura talmente tanto sperimentale da essere tacciato di cerebralismo, eppure capace di partorire romanzi come “Vogliamo tutto”, diventato quasi il manifesto di un decennio di lotte proletarie. Volere tutto: il potere e la ricchezza, ma rifiutando il lavoro. Che magnifica utopia! Certo, non particolarmente originale, chi non vorrebbe un tutto così? Eppure Balestrini lo aveva ottenuto: avanguardista, ma autore di bestseller, marxista, ma post-ideologico.
Un pastiche anche lui, come le sue opere in mostra che propongono un continuo détournement: alto e basso insieme in un’oscena orgia artistica che sembra sempre irrimediabilmente vecchia e disperatamente contemporanea.
Scritto da Enrica Murru