Ognuno di noi è rimasto affascinato da un diverso aspetto della grande mitologia scolastica americana. Non si scappa. Gli USA hanno esportato di tutto, facendoci sognare persino quelle aule in cui gli studenti sembravano poter salire sui banchi gridando «Capitano mio capitano» al loro professore senza rischiare un TSO. Alcune cose tuttavia non hanno mai davvero attecchito qui: niente armadietti, niente lezioni di letteratura in cui si critica in cerchio Faulkner e non parliamo nemmeno della possibilità di creare confraternite o organizzare balli di fine anno. In quest’ultimo caso i tentativi di replicare quelle feste finivano per avere sempre un che di posticcio, facendoci sentire sfortunati imitatori del Nando Mericoni di sordiana memoria.
Erano sghembi, ironici, svagati, i Pavement. Con un tocco di cinismo.
Se chiedete tuttavia a chi scrive cosa avrebbe davvero voluto copiare ai college statunitensi la risposta è: la colonna sonora. Gli atenei americani contano infatti su un circuito interno di emittenti che, almeno fino agli anni Novanta, ha mantenuto una certa influenza sulla scena, arrivando a decretare il successo di diverse band. Senza le radio universitarie non avremmo avuto il college rock e piccoli culti come i Replacements o star mondiali come i R.E.M. Forse senza quelle stazioni avrebbero avuto meno fortuna anche i Pavement, che sembravano fatti col sarto per piacere a chi gravitava tra l’adolescenza e l’entrata nell’età adulta (con annessi esami di semiotica a fare da rito di passaggio).
Erano sghembi, ironici, svagati, i Pavement. Con un tocco di cinismo ma non ancora abbastanza caustici da sembrare tristemente omologati alla comunicazione di oggi. Stephen Malkmus e soci erano l’amico strano che da un giorno all’altro poteva iniziare a studiare il sanscrito e non ti saresti sorpreso di rivederlo tra un mese ad allevare lombrichi. Erano imprevedibili, i Pavement, e lo sono ancora oggi.
Erano lunari, nel senso che proprio non sapevi se venissero dal tuo stesso pianeta. Erano piacevolmente equivoci già nel nome: perché “Pavement” e non “Sidewalk”? Forse per confondere ancora di più quei poveri ragazzi italiani che in un mondo senza ChatGpt a rispondere ai dubbi si arrovellavano su come chiamare un marciapiede in inglese. Che poi, avrebbero mai avuto bisogno di parlare di marciapiedi d’estate a Brighton? Era un argomento di discussione e rimorchio? Il mondo anglosassone era lontano e difficile da leggere da qui, come il sarcasmo dei Pavement.
I ragazzi di Stockton, California, non erano mai seri davvero e forse per questo risultavano rappresentati al meglio, più che dal loro frontman, da Gary Young, quel primo batterista che esclamava felice cose che sarebbero state bene in bocca a un Eta Beta sotto acidi. Si pensi in questo senso a “Wowee Zowee“, un neologismo “pavementiano” che divenne anche il titolo del lavoro più folle (e quindi più sincero) della band.
In Here cantavano «Mi ero vestito per fare successo/ma il successo non è mai arrivato», praticamente l’epitaffio di un’intera generazione, forse un paio, se solo l’ultima sapesse ridere dei suoi fallimenti. La verità è che i Pavement erano cool anche negli sbagli, alfieri di una scena dove aveva valore arrivare secondi. Loro restavano consapevolmente dietro, col tifo dei loro adepti concentrato nello sperare in una vittoria mai troppo larga: una squadra in perenne lotta per la Conference, un ciclista nel gruppo degli inseguitori, uno Stephen Bradbury umile che sogna solo il bronzo.
Questi “uomini da marciapiede” californiani, tanto fuori dal tempo da essere eterni, ricordano il capostipite della categoria, quello abbigliato da cowboy nel film omonimo con Jon Voight. D’altra parte i confini segnati dagli anni paiono non valere per loro, come potrebbe confermarvi Alex Ross Perry che nel 2024 si presenta nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia, con Pavements – un’opera fuori formato: un ibrido tra documentario, biopic fittizio, musical teatrale e mockumentary – che segue la reunion tour dei Pavement del 2022, intrecciandola a un falso film sulla band (Range Life), al musical Slanted! Enchanted! e a una surreale mostra itinerante sulla storia del gruppo (Pavements 1933–2022: A Pavement Museum). Il risultato è una pellicola al confine tra concerto e racconto mitologico.
Prima di girare Pavements, il regista aveva firmato il video di Harness Your Hopes, la hit che ci ha messo più di vent’anni per riconoscersi tale. Un pezzo in grado di spiegare bene una carriera anarchica che non poteva stare nel classico documentario. Meglio quindi Pavements, per loro stessa ammissione più “un esperimento semiotico”.
Fuori posto ma non per colpa loro dal 1989. Mentre il mondo va in malora i Pavement ci fanno esclamare ancora “wow” o, come direbbe il loro vecchio batterista, “Wowee Zowee”.
Il 27 settembre alle ore 20.30 non perdetevi la proiezione di Pavements presso il Cinema Godard di Fondazione Prada, a cui segue un incontro tra il regista Alex Ross Perry e Alessandro Stellino.
Scritto da Manuel Santangelo