Quando le lezioni europee si mescolano intelligentemente con quelle americane, il risultato può essere raffinato e complesso. È un po’ l’indicazione davanti alle opere di grandi dimensioni di McArthur Binion, a cui Massimo De Carlo dedica una mostra personale sviluppata nelle due sedi milanesi, in via Ventura e a Palazzo Belgioioso, dal titolo Ink:Work. Ha dunque un sapore europeo la cifra stilistica iniziale che Binion utilizza per le sue opere: minuziose linee, griglie, segni, gesti controllati che richiamano senza indugio le tele boettiane realizzate a penna e la successiva pittura analitica. Le sue tele sono infatti grandi diari di avvenimenti realizzati sotto forma di disegni, intrecciati con la matrice del suo dna afroamericano. Binion crea degli ritratti: grandi opere in cui l’artista riprende la sua rubrica dei contatti degli anni 70 – con nomi di personaggi in auge del tempo, da Mary Boone all’attrice Meryl Streep -, per sottolineare quel jet set di matrice prettamente bianca (con rare eccezioni come Jean Michel Basquiat) che lo ha estromesso dalle varie correnti fino agli anni Novanta, nonostante apparizioni fondamentali come la mostra del ‘78 – Detroit and Chicago: Art of the 70s presso il Detroit Institute of Art. Così l’azione creativa di Binion viene apprezzata in quegli anni principalmente da un pubblico di nicchia e dai suoi studenti del Columbia College, dove è stato il maestro di tanti artisti presenti oggi sulla scena contemporanea, come Nate Young a Chicago, che cita McArthur Binion come il motivo principale per la scelta della grafite come mezzo di elaborazione dei segni.
E di grafite e inchiostro tratta la mostra da De Carlo: le trame sottili operosamente elaborate, gli intrecci eleganti e arzigogolati, le stratificazioni di forme geometriche, linee, tratteggi, incastri e sovrapposizioni, fanno da trama radicale su tele che hanno poi un impatto colorato. Un minimalismo fatto di episodi autobiografici in cui la parola è scomparsa, o meglio resta pura traccia.
Scritto da Rossella Farinotti